Pico della Mirandola, Giovanni, conte di Concordia
Filosofo (Mirandola, od. prov. Modena, 1463 - Firenze 1494).
Figlio di Gian Francesco I e di Giulia Boiardo, all’età di quattordici anni P. si recò a Bologna (1477) per studiare diritto canonico; nel 1479 è a Ferrara (nello stesso anno, in un viaggio a Firenze, conobbe Poliziano e probabilmente Ficino) dove ebbe forse rapporti con Savonarola e fu amico di Guarini; nel 1480-82, a Padova, frequentò le lezioni di Nicoletto Vernia, conobbe Nifo, entrò in rapporto con Elia Del Medigo, con Girolamo Donato e altri dotti, con i quali intraprese lo studio della filosofia di Aristotele e dei suoi commentatori greci, arabi e latini. Lasciata Padova per Pavia (1482), dove coltivò, con la filosofia, il greco, nel 1484 si stabilì a Firenze, entrando subito in contatto con l’ambiente platonico che gravitava attorno a Ficino; nel 1485 si trasferì in Francia. Rientrato in Italia (1486) si proponeva di convocare a Roma un convegno di dotti per sottoporre alla loro discussione le tesi filosofiche che era andato maturando in vista della dimostrazione di una pia philosophia capace di assicurare una pace e una «concordia» tra tutte le scuole filosofiche. Intanto riprendeva i suoi studi con Elia Del Medigo e soprattutto con Flavio Mitridate che l’avviò alla conoscenza dell’ebraico e del caldaico: da tempo ormai P. si era immerso nello studio della cabala, in cui pensava di trovare i fondamenti della più riposta sapienza racchiusa nella Bibbia. Nel 1486 scrisse il Commento alla canzone d’amore di Girolamo Benivieni, ispirato al Simposio platonico, le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae e l’Oratio per la progettata disputa romana. Le Conclusiones, volte a riassumere le tesi fondamentali delle varie tradizioni filosofiche per mostrare la loro concordia, dovevano essere discusse a Roma subito dopo l’Epifania del 1487. Intanto P. vi premetteva la prolusione, quell’oratio, poi detta De hominis dignitate (trad. it. La dignità dell’uomo), che costituisce uno dei massimi testi dell’umanesimo italiano. Ma le Conclusiones suscitarono subito i dubbi dei filosofi e teologi romani: Innocenzo VIII ordinava di sospendere la disputa e sottoponeva le Conclusiones all’esame di una commissione di teologi. Contro le prime contestazioni, P. cercò di dimostrare la validità delle proprie posizioni (soprattutto sulla magia e sulla cabala) scrivendo un’Apologia: ma Innocenzo VIII condannò le tesi incriminate dai teologi (1487). P. fuggì in Francia dove, per ordine del papa, fu arrestato e rinchiuso nel castello di Vincennes (1488). Liberato per intervento di Lorenzo il Magnifico, fu da allora suo ospite in una villa di Fiesole, dove compose le sue opere maggiori: l’Heptaplus (1489; trad. it.), commento in 7 libri ai primi 27 versetti del Genesi; il De ente et uno (1492, dedicato a Poliziano); le Epistolae di consigli al nipote Giovanni Francesco (1492). In questo periodo, animato da un forte fervore religioso, si andava intanto avvicinando sempre più a Savonarola, che proprio dietro sue insistenze Lorenzo il Magnifico aveva chiamato a Firenze. Liberato nel 1493 dalla condanna ecclesiastica, aspirava a entrare nell’ordine dei domenicani e in punto di morte vestì l’abito religioso. Morì, forse avvelenato, mentre stava lavorando a un’opera nella quale si proponeva di confutare tutte le superstizioni: riuscì a portarne a termine solo la parte contro l’astrologia (Disputationes adversus astrologiam divinatricem), pubblicata postuma dal nipote nel 1496 (ma separatamente dall’edizione completa delle sue opere curata da Giovanni Francesco in quell’anno), esaltata e compendiata in volgare da Savonarola.
Dalle opere di P. emergono chiaramente le linee di un pensiero fortemente personale in cui rifluisce una vastissima dottrina: conoscitore dell’aristotelismo arabo e scolastico, della tradizione platonica, della speculazione patristica e della mistica ebraica quale si esprime soprattutto nella cabala, P. torna insistentemente sulla «concordia» fondamentale delle diverse filosofie (sulla traccia di Ficino), unificate dall’unico vero che di esse è principio e oggetto. La prospettiva platonica costituisce senza dubbio la nota dominante: Dio principio originario della realtà, assolutamente inaccessibile al pensiero ma termine ultimo cui il pensiero tende, assolutamente altro eppure principio che regge nell’essere tutte le creature, ovunque presente; rimane costante il tema neoplatonico della ‘circolarità’ del tutto che da Dio procede per riconvertirsi in lui. Attorno a questi temi P. raccoglie le testimonianze sia della tradizione neoplatonica sia della patristica cristiana e della cabala, nella quale vede uno degli strumenti più idonei a penetrare i segreti della Bibbia e della creazione.
Tornano, con tutte le suggestioni esoteriche, i motivi della magia, strumento di conoscenza e di intervento sulla realtà, che non è opaca materia, ma è universalmente percorsa da una ‘vita’, una mente: di qui la possibilità di colloquio che si istituisce tra l’uomo e le cose, quando l’uomo sappia cogliere nelle cose il loro senso ultimo, la radice razionale e divina. Se nettissima è la difesa della magia come vertice («absoluta consummatio») del conoscere filosofico, altrettanto chiara e precisa la polemica contro l’astrologia: e non solo per sottrarre all’influenza dei cieli l’anima e la libertà umana, ma anche per contestare la legittimità di istituire un rapporto preciso di causalità tra i cieli e gli eventi del mondo sublunare con la pretesa di poter prevedere il futuro leggendolo nei cieli. A tale polemica antiastrologica, come alle suggestioni ermetiche molto diffuse nell’epoca di P., si ricollega la sua celebre esaltazione della «dignità dell’uomo», fondata sulla sua radicale libertà, garantita all’uomo dal non possedere una natura determinata, ma nell’essere capace di darsi la natura che vuole, dal non avere limite né chiusura, dal suo essere aperto a tutto, capace di divenire tutto (attuando la propria infinita potenzialità), fino ad ascendere con il suo intelletto al termine ultimo, alla congiunzione con Dio; tema questo dell’ultimo fine e felicità dell’uomo (che si raccorda con quello dell’incarnazione del Verbo come mediazione che ha reso possibile il recupero della dignità e dell’ultimo fine dell’uomo), in cui ancora una volta rifluisce, con una suggestione dell’averroismo sigieriano, l’insegnamento della mistica cristiana ed ebraica. Vastissima la fortuna di P. in Italia e in Europa: da Bruno a Vico, da Reuchlin e Zwingli ai platonici di Cambridge.
Biografia