PETRUCCI della MIRANDOLA, Fabrizio
PETRUCCI della MIRANDOLA (Pedruzzi Mirandola), Fabrizio (in religione Antonio). – Nacque a Bologna, nella parrocchia di S. Tommaso del Mercato, il 13 gennaio 1573, figlio di Giovanni e Laura. Nello stesso giorno fu battezzato nella Cattedrale di S. Pietro con il nome di Fabrizio.
L’appellativo di Mirandola, con il quale la sua famiglia era conosciuta, derivava dal paese di origine di Giovanni Pedruzzi, il quale si era trasferito a Bologna almeno dalla metà del secolo ed era divenuto, assieme al fratello Bartolomeo, un falegname noto. Fabrizio, a differenza del fratello Domenico Maria, che divenne prima falegname e in seguito scultore, non seguì la tradizione familiare e, nei primi giorni del 1587, entrò nell’Ordine dei canonici regolari di S. Salvatore, assumendo il nome di Antonio.
Gli anni della formazione furono proficui. All’apprendimento del latino Petrucci affiancò quello dell’ebraico, che imparò probabilmente nel 1601 a Roma – dove si era recato in qualità di lettore a S. Pietro in Vincoli – a seguito dell’incontro con Fabiano Fioghi, ebreo convertito, insegnante di lingua ebraica presso il collegio dei Neofiti. Grazie a queste conoscenze, Petrucci fu nominato più volte lettore in varie sedi dell’Ordine.
Al 1606 risale la sua prima prova letteraria pervenuta: la favola boschereccia manoscritta dal titolo Il sospetto (Bologna, Biblioteca Universitaria, Mss., 2524). Questo testo teatrale in versi affianca al modello tassiano dell’Aminta quello della commedia classica e si caratterizza per l’inserimento di numerosi spunti di carattere morale.
Nel 1611 Petrucci venne incaricato di rappresentare l’Ordine in una controversia contro un certo Domenico Grossi, che si rifiutava di portare a termine una transazione per la quale si era precedentemente impegnato, concernente l’acquisto di una collezione di disegni. Il contenzioso si risolse a favore dell’Ordine, anche a seguito della valutazione dei disegni da parte di due autori scelti come periti proprio da Petrucci: Bartolomeo Cesi e Ludovico Carracci.
L’anno seguente fu inviato a Cento a dirigere il locale monastero, fondato tre anni prima dal priore generale dell’Ordine, Biagio Bagni. Fu lì che avvenne un incontro per lui fondamentale, quello con il giovane Guercino, del quale divenne presto il protettore e un fervente promotore: nel 1615, in occasione delle rogazioni, espose a Bologna, per far conoscere il pittore emergente, alcuni suoi disegni e un dipinto avente per soggetto l’evangelista Matteo; nel 1617 intervenne nella trattativa tra Guercino ed Enzo Bentivoglio a proposito di un progetto di decorazione, mai condotto a compimento, di un palazzo di quest’ultimo a Bentivoglio, località tra Cento e Bologna; nel 1618 spinse il pittore a eseguire una serie di disegni, poi effettivamente realizzati, da utilizzare per finalità didattiche; infine nel 1620 riuscì, intercedendo con Cristoforo Locatelli, a far avere a Guercino l’incarico per una pala nella chiesa di S. Gregorio a Bologna, La Vestizione di S. Guglielmo.
L’interesse per l’arte procedette parallelamente all’impegno letterario: nel 1613 Petrucci pubblicò a Bologna, presso Vittorio Benacci, la Predica sopra la grandezza della Croce, con una predica da lui tenuta a Ferrara. Dopo aver soggiornato nel monastero di Cento fino al 1621, vi fece ritorno nel 1625, alla morte di Bagni, per rimanervi fino all’anno successivo come abate.
Tornato a Bologna, affiancò a una serie di importanti incarichi una vasta produzione letteraria. Fu priore del monastero di S. Maria di Reno dal 1632 al 1633, abate di S. Cecilia della Croara dal 1634 al 1636 e nuovamente abate di S. Maria di Reno tra il 1637 e il 1647; delle sue innumerevoli opere, molte delle quali mai pubblicate, è rimasta solo un’esigua porzione, dato che la quasi totalità dei suoi manoscritti è andata perduta: è il caso dell’Itinerarium studiosorum, in due volumi, entrambi dispersi, risalenti il primo al 1628 e il secondo al biennio 1629-30.
Nel 1628 fu data alle stampe, a Bologna, la traduzione in dialetto bolognese della Gerusalemme liberata, prima trasposizione dialettale del poema tassiano, a opera di Giovan Francesco Negri, letterato e pittore, fondatore dell’Accademia letteraria degli Indomiti e personalità di primo piano della vita culturale bolognese.
Questo testo – la cui stampa, bruscamente interrotta all’ottava 34 del canto XIII, prosegue in alcuni esemplari (come Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, Gozzadini 348) in forma manoscritta – contiene anche annotazioni in volgare a ciascun canto, dotti commenti, che fanno da contrappunto al vernacolo del testo, scritti da Petrucci con lo pseudonimo di Fabrizio Alodnarim, ovvero il suo nome al secolo seguito dall’appellativo con il quale era conosciuta la sua famiglia scritto al rovescio. L’anno seguente pubblicò a Bologna, per i tipi di Clemente Ferroni, due testi di argomento religioso, le Aurore mariali e i Discorsi cinque sopra la Croce, S. Gioseffo, S. Agostino, S. Ignatio fondatore della Compagnia di Giesù e SS. Agnese e Bibiana e, nel 1630 presso lo stesso stampatore, la Ragion di Stato del Presidente della Giudea nella Passione di Cristo, opera nella quale centrale è l’analisi della politica, considerata non autonomamente rispondente a una logica propria, ma elemento neutro che diviene positivo o negativo in base alla sua alleanza o al suo contrasto con la Chiesa di Roma.
Tra il 1632 e il 1633 videro la luce due commedie, ancora una volta pubblicate nella stamperia di Ferroni, intitolate rispettivamente Gratiano volubile e Sacchi. In entrambi i casi, forse a causa del genere letterario di appartenenza, Petrucci nascose la sua identità, presentandosi nuovamente come Fabrizio Alodnarim. Del secondo testo si sono perse le tracce, mentre il primo, a lungo considerato erroneamente disperso, è peculiarmente interessante per la compresenza di pluristilismo e plurilinguismo, maschere della commedia dell’arte e figure del teatro cinquecentesco, volta alla rappresentazione della convenzionalità del reale e della profonda scissione, causata dalla pedanteria, tra significanti e relativi significati.
Presso gli stampatori bolognesi Giacomo Monti e Carlo Zenero uscì nel 1635 un suo scritto morale, dal titolo Gabella della morte, nel quale differenti e paradigmatiche esperienze di vita sono analizzate nell’ottica del destino che accomuna tutti gli uomini, ovvero l’inevitabile conclusione della loro vita terrena. Del 1639 è l’opera più conosciuta, l’Hosteria del mal tempo, pubblicata da Nicolò Tebaldini.
Rivela, oltre al consueto afflato moraleggiante, un forte interesse per l’emblematica e, a testimonianza di un legame profondo e duraturo, è dedicata a Guercino, su un disegno del quale fu inciso il frontespizio, come già era avvenuto per le prime pagine della Ragion di Stato del Presidente della Giudea e della Gabella della morte.
Il legame con Negri e le dediche delle opere a personaggi di spicco mettono in evidenza il pieno inserimento di Petrucci nella vita culturale della sua città, in quel prolifico connubio di letteratura e arti figurative, frequente nella vita culturale della Bologna del Seicento, che contraddistinse tutta la sua opera: oltre ai cenacoli letterari, frequentò il mondo dell’arte, in primo luogo l’Accademia fondata da Pietro Faccini dopo l’abbandono dei Carracci, situata in locali di proprietà del fratello Domenico Maria, il quale prese poi il posto di Faccini alla guida dell’Accademia, che da lui trasse il nome ‘de’ Mirandola’.
È questo duplice sguardo, da un lato rivolto alla letteratura e dall’altro all’arte, a costituire la spinta propulsiva dell’intera riflessione mirandoliana. La letteratura fu per Petrucci trasposizione verbale del visivo e i suoi testi schiettamente letterari furono costruiti attraverso la descrizione di immagini; il ricorso all’emblematica non fu dunque un espediente di maniera, ma espressione diretta – essendo l’emblema figura accompagnata da un motto – della sua concezione dell’inscindibile legame tra pensiero e immagine.
Morì a Bologna il 21 gennaio 1648.
Fonti e Bibl.: Bologna, Archivio arcivescovile, Libri dei Battesimi di S. Pietro, anni 1573-75.
G.C. Trombelli, Memorie istoriche concernenti le due canoniche di S. Maria di Reno e di S. Salvatore, insieme unite, Bologna 1752, pp. 269 s.; L. Allacci, Drammaturgia di Leone Allacci accresciuta e continuata fino all’anno 1755, Venezia 1755, p. 426; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori Bolognesi, VI, Bologna 1788, pp. 31-34; C.C. Malvasia, Felsina Pittrice, II, Bologna 1841, p. 257; D. Aricò, Il patetico grottesco: “La Gerusalemme liberata” bolognese di Giovan Francesco Negri, in Studi secenteschi, 1985, vol. 26, pp. 177-207; P. Bagni, Gli incisori del Guercino, Roma 1989, pp. 174 ss.; G.L. Betti, Note sulle opere di Antonio Mirandola, in Strenna storica bolognese, 1990, vol. 40, pp. 91-102; A. Mampieri, Damone e Pizia, la vite e l’olmo. Guercino e P. Antonio Mirandola, in Giornata di studi guerciniani, Cento 1991, pp. 147-57; E. Raimondi, Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna 1995, pp. 55-66; I. Chia, Il Guercino e Annibale Carracci all’osteria. L’Hosteria del mal tempo di Padre Antonio Mirandola, in Il Carrobbio. Tradizioni problemi immagini dell’Emilia Romagna, 2004, vol. 30, pp. 189-202; S. Volterrani, All’Hosteria del mal tempo. Il realismo emblematico di Padre Antonio Mirandola, in Glasgow emblem studies, vol. 12: The Italian emblem. A collection of essays, a cura di D. Mansueto in collaboratione con E L. Calogero, Glasgow 2007, pp. 185-210.