PETRONIO (Petronius)
Scrittore latino del I sec. a. C., autore del romanzo Satyricon. È forse da identificare con l'omonimo personaggio di cui parlano Tacito (Ann., xvi, 14-15) e Plinio (Nat. hist., xxxvii, 8, 20), proconsole in Bitinia, poi console, che visse alla corte di Nerone tra i pochi intimi dell'imperatore come elegantiae arbiter (Ann., xvi, 18, 2): mori suicida nel 66, durante la seconda persecuzione contro i presunti complici di Pisone.
Petronius è la denominazione originale in Tacito (de C. Petronio, Ann., xvi, 18, I, è forse cattiva lettura da una dittografia deepetronio). Nella tradizione diretta del romanzo, la titolazione originale Petroni Satyricon può essersi trasformata in quella giunta fino a noi: Petroni Arbitri Satyricon, tra il II e il III sec. d. C., quando è documentato il cognome Arbiter desunto dall'appellativo tacitiano (Terenziano Mauro, De metris, 2525, 2486, 2493, 2849). Il prenome di P. si può forse ricavare dal T. Petronius di Plinio e di Plutarco (Mor., 4, 19, glossa); il C. Petronio di Tacito si spiegherebbe allora come corruttela da T. Petronio, ricevendone anche conferma l'ipotesi della identificazione del personaggio con T. Petronius Niger console suffectus per il 6o d. C.
Del Satyricon di cui non si conosce tutta l'estensione, si conservano estratti, in cui si raccontano le avventure di un giovane studente di retorica, Encolpio. I frammenti del romanzo iniziano con la conversazione tra il protagonista ed il rètore Agamennone sulla decadenza delle arti, all'uscita dalla scuola in una città campana (i, 1-5, 21). Successivamente lo stesso rètore invita Encolpio e l'amico Ascilto alla cena offerta dal liberto Trimalchione, la cui descrizione rappresenta la parte di maggior interesse antiquario nel romanzo (26, 7-78, 8). Segue la divisione di Encolpio da Ascilto e dal piccolo Gitone: Encolpio solitario visita minuziosamente una pinacoteca, dove incontra un altro maestro di retorica, Eumolpo, che gli parla della fine della pittura (83, 1-89). I nuovi amici, con Gitone tornato ad Encolpio, si imbarcano, fanno naufragio e finiscono sulle coste del Bruzio, a Crotone, dove per noi s'interrompe il racconto.
Età del Satyricon. - La datazione del romanzo al II o al III sec. d. C., già sostenuta con argomenti rivelatisi poco consistenti (Niebuhr, Sogliano, Paoli) è stata riproposta con nuove osservazioni sulla lingua e sul costume del Satyricon, nel tentativo di stabilire un rapporto di dipendenza di P. da M. Aurelio e da Apuleio e di ambientare l'opera tra Commodo ed i Filippi (Marmorale). A prescindere dalla grave difficoltà di giustificare il gusto classicistico di cui è largamente permeato il romanzo, in un'età posteriore, al massimo, in quella adrianea, nessuno dei nuovi argomenti si è rivelato tuttavia determinante per abbassare anche solo al II sec. l'opera petroniana (Paratore, Maiuri). La datazione del Satyricon al I sec. resta fondata sugl'innegabili rapporti linguistici, lessicali, grammaticali e soprattutto ideologici, tra P. e Seneca e dalla evidente intenzione satirica di P. verso il poema epico di Lucano (118, 1), che si giustifica solo per un contemporaneo. La società riflessa dal Satyricon, sia detto senza voler tornare all'ipotesi ormai abbandonata di un'ambientazione intenzionale della vicenda da parte di P. in un determinato momento storico, è senza dubbio quella della metà del I secolo. Il personaggio di Trimalchione, dominante e quasi incombente alla fantasia dello scrittore, è nato veramente nel clima di disagio, di preoccupazione e di disprezzo con cui si seguiva da parte del ceto senatorio l'apparizione e la fortuna dei liberti. Ciò spiega da una parte l'ironia con cui P. insiste sugli aspetti umani di quel fenomeno, caratterizzando Trimalchione con le sue velleità di assimilarsi al rango equestre o addirittura di imitare il modello di vita offerto dall'imperatore e dalla corte di Roma, e d'altra parte l'intelligenza con cui l'autore descrive la drammatica realtà economica di quel mutamento che, senza essere una vera sostituzione di classe, rappresentava pur sempre l'assalto del capitale mobiliare, rapidamente accumulato con le eredità ed i commerci, all'immobiliare, costituito dai possedimenti rustici delle famiglie tradizionali: che era ancora un modo di assimilarsi, per i nuovi ricchi, ad un ordine superiore (accepi patrimonium laticlavium, 76, 2). La formazione del latifondo di Trimalchione è da questo punto di vista esemplare, intervenendovi tutte le componenti dell'economia agricola della Campania nel I sec.: la dispersione dei patrimoni detenuti dalle antiche famiglie italiche e l'accentrarsi in nuove mani delle proprietà (76, 8), la massiccia invasione della mano d'opera servile nelle campagne (47, 11; 53, 2; ecc.) e d'altra parte la sopravvivenza dei liberi coloni (Nasta vilicus, 53, 5).
Impressionanti sono gli aspetti legali del I sec. riecheggiati nel Satyricon quasi attraverso la voce dell'opinione pubblica: il potere di morte dei padroni sugli schiavi è documentato dalla condanna di Mitridate e di Glicone, ma a proposito di quest'ultimo i commensali di Trimalchione commentano: quid servus peccavit qui coactus est facere (45, 8) e Trimalchione stesso ad altro proposito: nec turpe est quod dominus iubet (75, 11), et servi homines sunt (71, 1), che sono richiami non ironici alla sensibilità diffusa negli scritti di Seneca. Sono evidentemente i tempi in cui maturava la legge che avrebbe sottratto la condanna dei servi all'arbitrio dei padroni: si sa che fu una lex Petronia, forse del 61 d. C. se fu proposta da Petronio Nigro, che, come si è detto, potrebbe essere la medesima persona con l'autore del Satyricon.
Luoghi e monumenti. - I luoghi dell'azione nel Satyricon sono sempre indicati col nome, anche per episodi secondarî: Crotone (116, 7), Taranto (100, 7), Marsiglia (framm. 1, 4, Bücheler), Baia (104, 2). E certo pertanto che anche la città dove si svolge per due terzi l'azione della parte superstite del romanzo, con la cena di Trimalchione, avesse un nome di cui ci ha privato lo stato lacunoso della tradizione. Si tratta di una città della Campania, di cui si ricordano, come centri vicini, Cuma (52, 2), Capua (62, 1) e Pompei (53, 5) e che è chiamata esplicitamente Graeca urbs (81, 3). L'attributo si attaglia a Neapolis, che conservò in età romana oltre il nome, la lingua ed il carattere greco, e nel romanzo è celebrata, insieme ad Atene e Taranto, fra i luoghi dove ancora si può imparare il greco (Sirenum domus, 5, 10). Nel Satyricon però si parla di una colonia, e di magistrature che potevano aver sede a Puteoli, mentre Napoli era municipio, almeno fino all'età degli Antonini. Naturalmente anche ammesso che la città avesse un nome e che questo nome fosse Napoli, non vuol dire che tutti i cenni descrittivi nel corso del racconto avessero un puntuale riferimento ai monumenti ed alle istituzioni della città reale, ma è innegabile che anche il quadro generale di un grande emporio, sia nato nel I sec. piuttosto dalla suggestione di Pozzuoli che di Napoli. Della città veniamo comunque a conoscere il vasto panorama (lustravi oculis totam urbem, 11, 1), il Foro con gli ultimi mercanti la sera, i vicoli, le strade oscure ed ingombre di rifiuti la notte, ma così lunghe che ci si può perdere anche di giorno (12, 1; 79, 4; 61, 6), perfino i nomi popolari (ad arcum veterem, 44, 6) gli edifici pubblici come i bagni ed i portici, la basilica (57, 9) e la pinacoteca allogata in un tempio presso il quale erano anche dei portici (83, 1 ss.; 90, 1); fuori della città sono ricordate, lungo la strada, le tombe (monimenta, stelas, 62, 4), una fattoria in campagna e case presso il mare (62, 2; 81, 1; 77, 5). È implicita l'esistenza del teatro (90, 5) che è documentato anche a Napoli, dell'anfiteatro (45, 6) e forse del circo (70, 10), mentre il porto da cui si imbarcano i protagonisti (99, 6) è certamente grande perché la loro nave attracca solo nei golfi riparati (portubus curvatis, 101, 9). Un frammento petroniano (16, Bücheler) ricorda poi la celebre Crypta Neapolitana che fin dai tempi di Augusto abbreviava le comunicazioni tra Napoli e Pozzuoli: non c'è dubbio che l'ambientazione della vicenda sia in una di queste due città.
Delle varie case della Graeca urbs, ricordate nel corso del racconto, non sorprende che quella descritta con maggiore evidenza, la casa di Trimalchione, sia di un tipo schiettamente ellenistico, con due peristilî: il primo con al centro una vasca funge da atrio, vi si incontra infatti l'atriensis (29, 9; 72, 7). Al secondo piano gli alloggi del padrone, della moglie e dei forestieri (hospitium); arricchiscono la dimora biblioteche e triclinî. Confronti per le varie comodità della casa vantate dal padrone non mancano a Pompei; l'unico vero lusso sono i porticati marmorei (77, 4 ss.). All'ingresso è dipinto un cave canem ben noto attraverso i mosaici pompeiani; seguono lungo i portici del peristilio le storie di Trimalchione di cui è celebrata la vita avventurosa con continue allusioni all'iconografia imperiale dell'adventus e dell'apotheosis (29, 1 ss.), per cui ricorre immediato il ricordo della Apocolocynthosis di Seneca; sulla parete di fronte all'ingresso (in medio) saranno invece da collocare le pitture con scene dell'Iliade e dell'Odissea e ludi gladiatorî (29, 9). La celebrazione del committente è anche il tema fondamentale nel progetto del monumento funebre di Trimalchione, insieme a quello della sopravvivenza del defunto nell'al di là (71, 5 ss.). Si assiste pertanto ad un vero e proprio travisamento del repertorio funerario: il motivo patetico del fanciullo che piange sull'urna infranta si vuole inserito nella figurazione di un magazzino di anfore vinarie; l'orologio solare in mezzo al monumento invece di ispirare un malinconico sentimento del tempo, farà da richiamo, si direbbe, pubbucitario sul nome di Trimalchione: ut quisque horas inspiciet, velit nolit, nomen meum legat (71, 11). E vi saranno rilievi gladiatorî per diletto del defunto e scene di banchetto per ricordare al popolo le donazioni e le feste offerte da Trimalchione: che è ancora un richiamo alle pubbliche elargizioni imperiali. La descrizione della statua del padrone e della moglie pare quella di un normale gruppo familiare, con una certa intenzione simbolica nella colomba tra le mani di Fortunata, che potrebbe far pensare ad una assimilazione ad Afrodite: ma si scopre che Fortunata avrà vicino anche il proprio cagnolino, e Trimalchione, al colmo del paradosso, pretende che sia raffigurato insieme il proprio ragazzetto favorito (cicaronem meum, 71, 11). Interessanti osservazioni sulla pittura antica si ricavano da P. nella descrizione della pinacoteca raccolta in un tempio della città campana. Tuttavia i quadri ricordati: Ganimede e l'aquila, Hylas e le ninfe, Apollo e Giacinto, ed un'Afrodite "monòcnemos" non corrispondono alle opere che conosciamo, da altre fonti, dei pittori cui sono attribuiti: Zeusi, Apelle e Protogenes. C'è solo la possibilità di identificare la monòcnemos con l'anadiomene, o con un'altra Afrodite dello stesso Apelle, in atto di salire dal mare "con una sola gamba", se non è un tipo ellenistico di Afrodite che si allaccia il sandalo. Ma non sarebbe prudente servirsi di questo passo di P. come fonte, trattandosi di una pinacoteca fantastica, ispirata alle raccolte di quadri famosi nei templi di Roma. Non è tuttavia senza interesse ricordare che anche presso i Filostrati (v.) c'è la descrizione di una pinacoteca a Napoli. Il quadro anonimo con la Troiae halosis che ispira la lunga declamazione di Eumolpo (89, 1 ss.) si direbbe abbia, tra i numerosi temi trattati, anche la morte di Laocoonte, trovando un sorprendente confronto, in tono però popolaresco, nei quadretti della Casa del Menandro, a Pompei, vero centone del repertorio omerico.
La cultura di P. è nutrita evidentemente di ideali classici, come appare dalla preferenza accordata agli oratori greci del IV sec.; dei filosofi P. ricorda Platone, ed i suoi poeti sono Omero, Pindaro, i lirici e i grandi tragici; ma il suo classicismo, sul piano letterario, non si riduce ad uno sterile vagheggiamento del passato, bensì anima la polemica con la poesia contemporanea (Lucano) rifacendosi ad un più vicino ed attuale modello, quello dell'età di Augusto che aveva dato Virgilio ed Orazio (118,5). Anche nel campo delle arti figurative, i suoi interessi non escono dagli scultori e dai pittori del V e del IV sec. a. C.: Mirone, Fidia, Prassitele, Lisippo, Zeusi, Apelle e Protogenes. Tuttavia se per i rétori e i poeti la preferenza non è giustificata se non col tradizionale giudizio della loro fama insuperabile (quis postea ad famam processit? 2, 8), a proposito degli artisti non mancano osservazioni critiche, nel filone della tradizione retorica degli scrittori greci di cose d'arte, continuato anche da Plinio. Di Mirone si ricorda infatti la capacità di racchiudere nei bronzi la vita degli uomini e degli animali, e di Lisippo l'accurata ricerca di un nuovo cànone (88, 5). I pittori della pinacoteca, infine, sono presenti alla fantasia dello scrittore con tanta verità, che si sarebbe tentati di attribuire a P., nel campo della pittura antica, un'originale capacità di giudizio. Benché si tratti di quadri, come si è detto, inventati, P. per bocca del protagonista del romanzo, comincia coll'ammirarne l'antichità ed il buono stato di conservazione, mostrando peraltro di partecipare al gusto dell'antiquariato e della collezione sul quale egli stesso ironizza nel corso della cena di Trimalchione. Loda quindi l'impegno degli antichi pittori nell'imitazione della natura attraverso schizzi preparatorî (rudimenta) e la loro capacità di esprimere i sentimenti dei personaggi: tanta enim subtilitate extremitates imaginum erant ad similitudinem praecisae ut crederes etiam animorum esse picturam. Sembra qui che si parli di "finezza delle linee di contorno" secondo la tradizione che attribuiva agli stessi pittori qui ricordati, Apelle e Protogenes, la gara a chi tracciasse la linea più sottile, e ad una eccezionale perizia grafica allude certamente anche P. con il particolare della lyra di Apollo con le corde sciolte; ma poiché il risultato della subtilitas è indicato nella capacità espressiva delle forme, con quella parola si intenderà forse l'abilità dell'artista a trattare la figura, il modellato in generale (extremitates imaginum): saremmo dunque di fronte ad uno dei rari esempî di frasario latino originale a proposito di cose d'arte. Qualcosa del genere si può anche supporre là dove P. tenta una spiegazione storica per la decadenza della pittura contemporanea, attribuendo agli alessandrini un'invenzione rovinosa per la pittura tradizionale: pictura quoque non alium exitum fecit postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit (2, 2). Un forte sospetto per ciò che non è schiettamente greco lo si può vedere nello stesso discorso sulla decadenza delle arti dove l'avvento dello stile asiano è rappresentato alla stregua di un influsso maligno dell'Asia su Atene (veluti pestilenti quodam sidere afflavit, 2, 7). L'evidente parallelismo con questo passo incoraggia a cercare nella compendiaria un fenomeno stilistico, che forse è da riconoscere in quella maniera impressionistica, con abolizione della linea di contorno, applicazione del colore a macchia e violenti contrasti di luce, che trovava fortuna a Roma con la decorazione di quarto stile e quasi un riconoscimento ufficiale nella pittura di Fabullus (v.) alla Domus Aurea. Che questo stile rappresentasse solo la ripresa di un'esperienza greca e particolarmente alessandrina, è noto da alcuni indizi delle fonti e dalla conoscenza diretta, sia pure limitata, dall'arte alessandrina (v. alessandrina, arte; pittura); che poi si sia visto nell'introduzione di questo stile un'invenzione rovinosa per lo svolgimento della pittura, si può giustificare alla luce delle osservazioni di P. sui pittori della pinacoteca, che tradiscono un gusto classicistico così spiccato, da suggerire il confronto tra questa protesta e l'incomprensione degli accademici della fine dell'8oo per la pittura degli impressionisti (Bianchi Bandinelli). La principale responsabilità degli alessandrini, tuttavia, sembra essere agli occhi di P. quella di aver fornito, con la compendiaria, una maniera sciolta e rapida, adatta al gusto narrativo e decorativo dei Romani, cioè adatta all'incremento della pittura parietale, che resta del tutto estranea alla sensibilità di Petronio. Nulla c'è infatti che ricordi i pregi delle tavole viste nella pinacoteca, tra le pitture che decorano l'atrio di Trimalchione: sembra anzi che quei dipinti contribuiscano con pura funzione decorativa (e noi sappiamo come dopo Vitruvio tale valore non trovi che pochi consensi nella letteratura artistica romana) a quei violenti effetti cromatici che colpiscono l'ospite fin dal suo ingresso: le vesti verdi e rosse dei servi, la gazza variopinta nella gabbia d'oro, i piselli sgranati in un piatto d'argento, e così via (28, 8). Se un'altra preoccupazione ha avuto il pittore di Trimalchione (che pertanto è definito curiosus, 29, 4), questa era tutta rivolta a narrare con prosastica prolissità gli avvenimenti, che peraltro non sarebbero riusciti neppure comprensibili senza l'aiuto di iscrizioni esplicative. Anche il cane dipinto all'ingresso, che sembra vero, non si può dire che documenti agli occhi di P. l'imitazione della natura, ma rappresenta invece una deformazione espressionistica dell'animale (canis ingens) con l'intenzione tutta barocca di sbalordire l'ospite. I soggetti omerici, infine, che tanto degnamente erano rappresentati nella pinacoteca dall'Incendio di Troia sono qui accostati all'illustrazione delle lotte dei gladiatori con assoluta incomprensione dello spirito epico; così l'intervento dei numi nelle storie di Trimalchione non approda ad altro che ad una goffa caricatura. P. sembra essersi persuaso che la pittura parietale era legata al discutibile gusto del committente, e poiché di fatto i nuovi ricchi erano insensibili alle finezze formali della pittura e neppure erano in grado di apprezzare le poetiche vicende del mito, i pittori avrebbero definitivamente abbandonato la maniera, la tecnica e perfino il repertorio della pittura antica, servendosi, quale essa fosse, anche della compendiaria escogitata dagli alessandrini. Bisogna infatti notare che il disprezzo di P. non è rivolto solo agli alessandrini, dei quali almeno si riconosce l'audacia, ma soprattutto ai contemporanei che per "avidità di denaro" si erano messi per quella via abbandonando la pittura tradizionale. Al fondamento del pensiero di P. sta pur sempre una preoccupazione etica. Nonostante le felici notazioni che si sono viste, l'alternativa che si pone nel Satyricon non è tra "grande arte" e sommario mestiere, come sarebbe arte e non arte; riaffiora invece spesso il vagheggiamento di un mondo favoloso in cui gli artisti avrebbero sacrificato la vita dietro un ideale di bellezza (così Mirone e Lisippo nella gratuita fantasia di Eumolpo) in contrasto con la società presente, ben viva nelle sue esigenze di produzione e di consumo e che aveva bisogno delle arti per esibizione di fasto e di potenza economica. Questa società P. non riesce veramente a comprenderla, tranne che in certi aspetti letterari per i quali la sua critica, come si è detto, diviene più puntuale; con mentalità tipicamente conservatrice egli l'accusa di non poter più produrre opere d'arte. In questi termini la protesta di P. si inserisce assai bene tra la posizione di Vitruvio (v.), che già si preoccupava che la pittura parietale diventasse un campo aperto all'arbitrio dei committenti, e quella di Plinio (v. plinio il vecchio), che incentrando anch'egli la sua critica su di un fatto di costume, dirà che le case dei privati sono il carcere dell'arte della pittura; la conclusione del suo semplicistico argomentare nulla nobis pictura est - sarà lo stesso paradosso cui giunge P.: cum pulcherrimae artes perissent, pictura ne minimum sui vestigium reliquisset (88, I).
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