PETRI, Eraclio, detto Elio
PETRI, Eraclio, detto Elio. – Nacque a Roma il 29 gennaio 1929 da Mario, di famiglia marchigiana attiva nell’artigianato del rame, e da Anna Papitto, ciociara di Guarcino.
La madre, somigliante a un’india, era «scura, di carnagione olivastra, coi capelli neri molto lunghi, gli occhi neri […] lavorava in un caffè, anzi in una latteria di parenti suoi. Serviva il caffè. Credo che lei e mio padre si siano conosciuti lì» (Maraini, 1998, p. 279). Papà Mario – che aveva iniziato a lavorare in una sua bottega e poi presso la rameria Nardi a trenta metri da casa – era «piccolo […]. Per la sua piccolezza lo chiamavano Callarella, cioè piccola caldaia. Ha occhi distanti, verdi; è biondo, robusto» (ibid., p. 277).
Figlio unico, Petri visse in una casa settecentesca al numero 23 di via dei Giubbonari, dove abitavano anche la nonna paterna e due altri suoi figli, una casa, dunque: «sovrappopolata, ingombra di membra, di odori» (Elio Petri..., a cura di J.A. Gili, 2007, p. 218). Nel 1934 iniziò a frequentare la scuola elementare statale Trento e Trieste, vicino a casa. Timido, vivace, curioso e un po’ solitario, trascorse la sua infanzia giocando per strada come tanti suoi coetanei, in una Roma in cui le strade «appartenevano ai bambini» (ibid., p. 276); una città che respirava il fascismo quotidiano e che nelle domeniche estive si svuotava per l’abitudine, che iniziava a diffondersi, di andare al mare. Tre anni dopo la famiglia si trasferì, prima in vicolo del Giglio, poi in via del Conservatorio e infine in via Famagosta nel quartiere Trionfale.
La morte della nonna scatenò in Petri una profonda paura della morte: fu un momento molto traumatico tale da spingerlo a rifugiarsi nelle sale cinematografiche dove le storie raccontate sullo schermo riuscivano ad acquietare la sua angoscia.
I genitori fecero molti sacrifici per offrirgli un’educazione tra le migliori dell’epoca: dalla scuola comunale di via dei Giubbonari, nei pressi dell’abitazione, fu spostato, come raccontò, «alla scuola dei preti», alla San Giuseppe de Merode in piazza di Spagna, imparando «a conoscere l’autoritarismo» e a dubitare della religione (Maraini, 1998, p. 281). Poco incline al rispetto delle regole e particolarmente intelligente e vivace, passò dal de Merode al Pio IX, poi di nuovo al de Merode fino a quando interruppe gli studi superiori.
Iniziò allora a frequentare i cineclub; nel 1946 si iscrisse al Partito comunista italiano (PCI) aderendo alla Federazione giovanile e avviando una collaborazione con la rivista Gioventù nuova e con il giornale L’Unità con il ruolo di vice critico cinematografico. Dal PCI si distaccò dopo i fatti d’Ungheria del 1956. In quell’anno fu tra i collaboratori della nuova rivista quindicinale Città aperta, cessata nel luglio 1958, e il 29 ottobre 1956 fu tra i firmatari dell’appello (il Manifesto dei 101) al comitato centrale del PCI per il rinnovamento e contro lo stalinismo insieme, tra gli altri, a Natalino Sapegno, Carlo Muscetta, Alberto Asor Rosa, Renzo De Felice, Lucio Colletti.
Nel marzo 1948 non fu ammesso al Centro sperimentale di cinematografia, ma il suo amico Gianni Puccini riuscì a metterlo in contatto con Giuseppe De Santis, il regista di Riso amaro, il quale aveva in mente di realizzare un film su un episodio di cronaca che aveva colpito l’opinione pubblica.
Il 15 gennaio 1951 duecento ragazze si erano presentate in via Savoia a Roma per un solo posto da dattilografa: la scala dove attendevano per il colloquio crollò all’improvviso, settantasette donne rimasero ferite, una morì. De Santis commissionò al ventunenne Petri un’indagine preparatoria per il film. La ricerca fu minuziosa: non solo rintracciò alcune delle sopravvissute, ma denunciò la disoccupazione e segnalò la condizione delle donne che cercavano lavoro e le richieste, anche sessuali, che dovevano subire. Aprì così uno squarcio su una realtà squallida, su un’Italia che nascondeva un processo di lento, ma pericoloso sfaldamento, dietro quello che almeno ufficialmente sarebbe poi stato definito il boom economico.
Tra i vari titoli proposti per il film fu scelto infine Roma ore 11. Le riprese cominciarono nell’autunno del 1951 e Petri fu con Basilio Franchina assistente alla regia. Nel 1956 riorganizzò il materiale della ricerca e pubblicò un libro con lo stesso titolo. La collaborazione con De Santis continuò sia come assistente alla regia sia come sceneggiatore in Un marito per Anna Zaccheo (1953) e Giorni d’amore (1955) sul set del quale conobbe Marcello Mastroianni. Anche per quest’ultima pellicola De Santis chiese a Petri un’inchiesta preliminare: ne uscì un testo molto elaborato, con «un’incredibile quantità di informazioni sulla società rurale italiana degli inizi degli anni Cinquanta e che contiene persino il calcolo dettagliato del denaro necessario per sposarsi con dignità quando si è molto poveri» (Elio Petri..., a cura di J.A. Gili, 2007, p. 17). Il suo lavoro di sceneggiatore e assistente continuò con Uomini e lupi (1957), La strada lunga un anno (1959) e La garçonniere (1960).
Collaborò come sceneggiatore anche con Giuseppe Amato per il film Donne proibite (1954), con Guido Brignone per Quando tramonta il sole (1955), con Aglauco Casadio per Un ettaro di cielo (1958), con Leopoldo Savona per La notte dei teddy boys (1959) e con Veljko Bulajić per Vlak bez voznog reda (Treno senza orario, film jugoslavo del 1959 mai distribuito in Italia). Nel 1960 fu sceneggiatore del film Vento del sud di Enzo Provenzale e coautore dei soggetti di due pellicole di Puccini: L’impiegato e Il carro armato dell’8 settembre. Nel 1954 realizzò il documentario Nasce un campione. Nel 1957 girò I sette contadini, cortometraggio dedicato ai fratelli Cervi. Nel 1961 con Luciano Vincenzoni e Tommaso Chiaretti scrisse il soggetto del film di Carlo Lizzani, Il gobbo.
Nel 1961 debuttò come regista con la pellicola L’assassino, con Mastroianni e Salvo Randone, protagonista anche de I giorni contati. Alla sceneggiatura contribuirono Tonino Guerra e Carlo Romano: fu l’unico film di carattere autobiografico dedicato alla figura del padre, che – presentato al Festival di Mar de Plata – vinse il primo premio, superando sia Jules e Jim di François Truffaut, sia Lo spaccone di Robert Rossen. Nel 1963 con Age e Scarpelli, Dino Risi, Ettore Scola e Ruggero Maccari scrisse il soggetto e la sceneggiatura del film I mostri (regia di Risi) e diresse Il maestro di Vigevano, con Alberto Sordi e Claire Bloom, un lavoro drammatico e grottesco allo stesso tempo, la cui genesi fu molto complicata per le richieste di maggior leggerezza del produttore.
Peccato nel pomeriggio fu un divertissement come lo chiamò Petri stesso, un episodio del film Alta infedeltà (1964). Nello stesso anno uscì Nudi per vivere (regia di Elio Montesi, pseud. di Petri, Giuliano Montaldo e Giulio Questi). L’anno seguente realizzò l’idea che aveva in mente da tempo, un film di fantascienza tratto da un racconto di Robert Sheckley: The seventh victim con il titolo La decima vittima sceneggiatori oltre Petri, Guerra, Giorgio Salvioni ed Ennio Flaiano.
Sulla scia del successo di questo film, nel 1966 Petri si cimentò con la pubblicità, e per la Shell ideò una serie di ‘caroselli’ – protagonista Renzo Palmer, direttore degli effetti speciali Antonio Margheriti, scenografo Gianni Polidori – per un totale di dieci filmini che gli costarono molta fatica e le cui storie furono ambientate in un mondo governato da super donne buone e cattive.
Uomo colto, amante del jazz, della letteratura americana, fine intenditore di musica e pittura, sempre in prima linea nei dibattiti politici e culturali, fu molto possessivo ed esclusivista nei suoi rapporti personali, schivo nel raccontare la sua vita privata. Il 24 marzo 1962 sposò Paola Pegoraro, figlia del produttore cinematografico Lorenzo, una donna intelligente e ricca di iniziativa che gli fu accanto anche nei momenti più bui e complessi e sino alla fine. Paola fu subito colpita dalla «passione politica, la passione per il cinema, la passione per l’arte moderna, la passione per il jazz, in una parola la passione» di Petri (Lucidità inquieta, 2007, p. 9).
Fu un produttore indipendente, Giuseppe Zaccariello, a credere nel progetto di A ciascuno il suo (1967), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia; la sceneggiatura fu scritta con Ugo Pirro a Torvajanica, sul litorale romano, nella casa di Petri, che fu teatro della scrittura di altri film; ne furono protagonisti Gian Maria Volonté e Irene Papas. Un tranquillo posto di campagna – realizzato nel 1968 con Vanessa Redgrave e Franco Nero – rappresentò una critica forte dell’intellettuale borghese, della schizofrenia dell’uomo moderno. «Io sono per la liberazione dell’inconscio. La lotta peggiore contro l’inconscio collettivo la fanno le istituzioni. Una di queste è la famiglia. Io sono per la psichiatria prima che per la politica» (Maraini, 1998, p. 285).
Tappa cruciale fu Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) scritto insieme a Pirro: per la prima volta il crimine veniva commesso dal simbolo della giustizia, un poliziotto che diventa rappresentazione del potere, ma anche della schizofrenia che il potere stesso può provocare. Un film rischioso sul quale solo un giovane produttore, Daniele Senatore, puntò, impegnando i soldi del padre. Un film scomodo, in un’Italia democratico-cristiana, che non fu colpito dal reato di vilipendio solo grazie alla coraggiosa sentenza di un sostituto procuratore della Repubblica, Giovanni Caizzi.
Alla fine delle riprese, Petri invitò Cesare Zavattini, Mario Monicelli e altri colleghi a un’anteprima del film. Raccontò Pirro: «Dissero: andrete in galera. E ci consigliarono di andare via da Roma» (E. P. Appunti su un autore, documentario, 2006). L’opera ebbe il Gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes e la nomination all’Oscar per il miglior film straniero. Né Petri, né Volonté vollero andare alla cerimonia di Los Angeles, convinti che il film non avrebbe mai vinto. Invece si aggiudicò la statuetta, ritirata, con disappunto della protagonista Florinda Bolkan, da Leslie Caron, estranea al film.
Nell’ambito di un’iniziativa del Comitato cineasti contro la repressione Petri diresse, per il film Documenti su Pinelli, l’episodio Ipotesi nel quale ricostruì le varie versioni sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli avvenuta il 15 dicembre 1969 nella Questura di Milano, in seguito alle indagini relative alla strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre.
Nel 1971 diresse ancora Volonté ne La classe operaia va in Paradiso (Palma d’oro al Festival di Cannes ex aequo) e, nel 1973, Ugo Tognazzi ne La proprietà non è più un furto. Film ‘sgradevoli’ come lui stesso li definì. Nel 1976 fu la volta di Todo modo, tratto ancora da un romanzo di Sciascia. «Ho la coscienza che tutto andrebbe cambiato. Ma sono consapevole che un ribaltamento che sia orizzontale oltre che verticale richiederebbe un lavoro di centinaia di anni. Perciò accetto serenamente questa prigionia che sono le nostre abitudini, il nostro vivere sociale» (Maraini, 1998, p. 285).
Nel 1978 diresse per la televisione e con un grande Mastroianni Le mani sporche, dal dramma di Jean Paul Sartre, e nel 1979 il suo ultimo film: Le buone notizie (titolo di lavorazione Le buone notizie ovvero la personalità della vittima) prodotto assieme a Giancarlo Giannini, che ne fu il protagonista. Nel 1981 mise in scena L’orologio americano di Arthur Miller con la traduzione di Gerardo Guerrieri per la Compagnia stabile del Teatro di Genova.
Nemmeno il cancro diagnosticatogli in quel momento riuscì a fermarlo: il ‘capoccione’, come lo chiamavano Ruggero e Marcello Mastroianni, continuò a scrivere, assetato di storie e di cinema. «Credo che non amasse i documentari perché raccontano la realtà mentre a lui interessava, sì, la realtà, ma mediata dalla creazione, perché Elio innanzitutto era un inventore di storie, di conflitti, di personaggi» (Lucidità inquieta, 2007, p. 5). Continuò a indagare, a esplorare la condizione sociale e culturale dell’uomo e a scrivere e scrivere. Chi illumina la grande notte fu l’ultima sceneggiatura, un progetto rimasto sulla carta e, per una volta, una storia a lieto fine.
Morì a Roma, stroncato dalla malattia a soli 53 anni, il 10 novembre 1982.
Petri fu uno dei più acuti e straordinari esponenti della cultura, dotato di profonda ironia, privo di condizionamenti, senza paura di raccontare fino in fondo il malessere e la corruzione di una società. Onirica e visionaria eppure così drammaticamente legata alla realtà, la sua opera resta tra le più stimolanti e innovative del cinema mondiale. Tra le molte retrospettive a lui dedicate, si ricordano quelle del Moma di New York nel 2004 e di Berlino nel 2013.
Scritti. Roma ore 11, Milano 1956 (II ed. Palermo 2004); Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Roma 1970 (con U. Pirro); La proprietà non è più un furto, Milano 1973.
Fonti e Bibl.: L’Archivio Petri è conservato al Museo nazionale del cinema di Torino, Fondo E. P. (1939-1983), www.museocinema.it/fondi_ archivistici; Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero del turismo e dello spettacolo, Direzione generale dello Spettacolo (1946-1998), Divisione cinema (1946-1965), Sceneggiature, ff. 1232: Roma ore 11; 3495: L’assassino.
A. Rossi, Petri, Firenze 1979; A. Tassone, Parla il cinema italiano, Milano 1980, pp. 223-283; E. P., Catalogo La Biennale XL Mostra internazionale del cinema di Venezia 1983, Venezia 1983; M. Giusti, Il grande libro di Carosello, Milano 1995, p. 513; D. Maraini, E tu chi eri ? 26 interviste sull’infanzia, Milano 1998, pp. 271-286; S. Della Casa, E. P., in Enciclopedia del cinema, IV, Roma 2004, pp. 411-413; F. Bacci - N. Guarneri - S. Leone, E. P. Appunti su un autore, dvd e libro Un amore lungo tre inediti di E. P., Milano 2006; E. P. Scritti di cinema e di vita, a cura di J.A. Gili, Roma 2007; Lucidità inquieta. Il cinema di E. P., a cura di P. Pegoraro Petri in collaborazione con R. Basano, Catalogo della mostra organizzata dal Museo nazionale del cinema, Torino 14 settembre - 4 novembre 2007; L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza E. P., a cura di D. Mondella, Bologna 2012; www.eliopetri.net (sito ufficiale, 2014).