PERUZZINI
– Famiglia originaria di Pesaro, che comprende i pittori Domenico e i figli Giovanni, Antonio Francesco e Paolo, attivi in ambito marchigiano e in città italiane come Roma, Bologna, Torino e Milano, durante il XVII secolo e il primo quarto del XVIII.
Imparentati presumibilmente con i Perusini di Pesaro, maiolicai attivi nel corso del XVI secolo a Urbania, la loro prima attività artistica fu la produzione ceramica (Ambrosini Massari, 2012, pp. 33-34, 106-108 ), convertita, in seguito alla crisi delle manifatture, al mestiere pittorico (Vanzolini, 1879).
La confusione sulla vicenda storico-artistica della famiglia, rimasta a lungo nella tradizione critica (Serra, 1932; Zampetti, 1990; Dizionario storico-biografico, 1993), proviene dalle fonti (Becci, 1783; Lanzi, 1809; Zani, 1823; Ricci, 1834), che avevano equivocato i rapporti di parentela tra Domenico e Giovanni, considerati fratelli anziché padre e figlio, e che non avevano individuato Antonio Francesco come membro della stessa famiglia, nonché fratello di Giovanni e Paolo, rendendo assai arduo il chiarimento e l’individuazione della paternità delle diverse rispettive opere. Ulteriore difficoltà proveniva poi dall’aver confuso, a volte, Giovanni con il fratello Paolo (Zani, 1823; Ferretti, 1883). Diversi studi hanno progressivamente corretto questi errori, rendendo possibile la moderna rivalutazione dell’opera dei Peruzzini (Arslan, 1959; Campagna, 1959-60; Gregori, 1964 e 1975; Cleri, 1986; Cellini, 1994; Muti - De Sarno Prignano, 1996; Cleri, 1997; Antonio Francesco Peruzzini, 1997). Gli ultimi contributi critici hanno infine permesso di circoscrivere con chiarezza i profili storico-artistici dei diversi membri della famiglia (Ambrosini Massari, 2009, 2011, 2012; Mazza, 2012; Ragnetti, 2011-12).
Domenico, il capostipite, nacque il 18 ottobre 1602 a Urbania, da Giulio, originario di Pesaro e cuoco presso il duca Francesco Maria II della Rovere, e da Giovanna (Campagna, 1959-60, p. 10; Cleri, 1997, pp. 88-91). Si formò nella bottega del pittore Giovan Giacomo Pandolfi, come tramanda un’anonima Informazione seicentesca coeva inserita nel Catalogo delle pitture… (Ancona 1783) noto sotto il nome di Antonio Becci, ma redatto in realtà da Giovanni Andrea Lazzarini (ibid., pp. 75-85; Ambrosini Massari, 1997, pp. 57-60; Ead., 2009). Fu artista versatile e poliedrico: dopo aver lavorato nell’attività ceramica (Ambrosini Massari, 2012, pp. 106-108), divenne anche incisore, scenografo e architetto. Nella città natale stabilì la sua prima bottega. Nei dipinti giovanili sono evidenti l’influenza zuccaresca e tardomanierista di Pandolfi e la riflessione sulla pittura di Giovan Francesco Guerrieri; influssi evidenti in opere quali la Cena degli apostoli del 1629 (Montelabbate, chiesa dei Ss. Quirico e Giuditta; Rossi, 2002), l’Immacolata Concezione del 1631 (Urbania, chiesa di S. Chiara; Cleri, 1997, pp. 17, 28-30, 42-44), il S. Giovanni Battista e l’Anania, Misaele e Azalia in collezioni private (Ambrosini Massari, 2012, pp. 34, 106-108).
Dopo il 1632, dai documenti dell’Archivio diocesano di Urbania non risulta più alcuna notizia sulla famiglia che, in quel periodo, dovette abbandonare Urbania (Cleri, 1997, p. 90). Nei primi anni Trenta, Domenico si trasferì ad Ancona (ibid.), dove presto la sua fama si impose: già nel 1633 eseguiva per i domenicani una Pentecoste inviata alla chiesa di S. Domenico di Čelopeci (in Croazia; Prijatelj, 1983) e nel 1634 una Madonna del Rosario e santi per il conte Angelo Ferretti (Varano, chiesa di S. Pietro Martire; Costanzi, 1993), un’opera che riprende gli stilemi precedenti con un fare più classico e monumentale. Nel 1636 incise il frontespizio delle Lettere in Varij Generi a’ Principi di Prospero Bonarelli (Bellini, 1987), uno dei primi esemplari della sua produzione a stampa, documentata fino al 1661 (ibid.; Id., 1983). Tale attività incisoria, insieme a quella disegnativa (Cellini, 1994 e 1999), si rivela utile per colmare alcune delle lacune, relative a opere non identificate o perdute, riscontrabili nella produzione pittorica dell’artista negli anni Quaranta e Sessanta.
All’inizio del sesto decennio sempre più evidente si fa nel suo stile la svolta classicista, maturata attraverso la riflessione sulla pittura bolognese, in particolare sull’opera del Guercino e su quella del pesarese Simone Cantarini (Ambrosini Massari, 2011). Il S. Giovanni a Patmos dipinto a Urbania nel 1651 per la distrutta chiesa di S. Giovanni Evangelista (oggi nel Museo civico) esplicita una monumentalità nuova e una gamma cromatica scura caratterizzata da intensi contrasti luministici e toni inquieti e drammatici, inconfondibili cifre stilistiche delle sue opere successive; tra queste la Madonna del Suffragio della collegiata di S. Elpidio a Mare (post 1653; Cerboni Baiardi, in Ambrosini Massari, 2012, pp. 130-133) e la Sacra Famiglia e Dio Padre in gloria eseguita per la chiesa delle Convertite di Pesaro (oggi Pesaro, Musei civici; Cellini, 1994, p. 133; Ambrosini Massari, 2012, p. 53). Intorno al 1655-56 i gesuiti di Ascoli Piceno gli commissionarono due pale d’altare per la chiesa di S. Venanzio: l’Apparizione di Cristo a s. Ignazio di Loyola con, nella cimasa, la Madonna con il Bambino, precedentemente riferite a Giovanni (Ferriani, 1995), e una S. Caterina da Siena che riceve le stigmate recentemente aggiunta al catalogo di Domenico (Ascoli Piceno, Museo diocesano; Ragnetti, 2011-12). La grande tela con la Visione di s. Filippo Neri dipinta per la chiesa dei Filippini di Pesaro, da poco riscoperta (Collezione Altomani; Ambrosini Massari 2009), si inserisce nella produzione più matura dell’artista, accostandosi stilisticamente, nella verticalizzazione della scena e nelle tipologie dei personaggi, alla Madonna con il Bambino e santi del Museo civico di Corinaldo, datata 1658.
Negli anni Sessanta, Domenico eseguì una Visitazione per la chiesa di S. Maria degli Angeli di Sant’Angelo in Vado, tuttora in loco (Cleri, 1997), e numerose opere, oggi irreperibili, per la collezione dei nobili pesaresi Bonamini, come si apprende dai manoscritti del loro discendente Domenico (Bonamini, 1791 ca., 1996, pp. 133-136; Patrignani - Barletta, 1998, pp. 72-77). L’ultimo dipinto documentato è la Madonna con i ss. Bernardino da Siena e Onofrio anacoreta, firmato ad Ancona nel 1671 (Sant’Angelo in Vado, chiesa di S. Francesco).
Mancano ancora prove consistenti sull’attività di architetto di Domenico di cui parla l’anonima Informazione seicentesca sopra menzionata (1783, p. 83); tale notizia tuttavia trova conferma in un atto notarile rogato il 13 maggio 1659, in cui Domenico viene menzionato in qualità di «Architettus Anconetanus peritus» (Archivio di Stato di Ancona, Notai del Comune di Ancona, 1337, Gian Filippo Leonardi, anno 1659, cc. 126r-127r).
L’ultima notizia riguardante Domenico risale al 7 aprile 1763, data in cui firmò due disegni con Studio di nudo virile seduto (Urbania, Biblioteca comunale, nn. 63 II, 224 I; Ottolini, 1984). Ignoti sono il luogo e la data di morte del pittore.
Giovanni, figlio di Domenico e Camilla Ricci (il cognome della madre è stato rintracciato in un documento dell’Archivio di Stato di Ancona: Notai del Comune di Ancona, 1454, Oliviero Scalamonti, anno 1648, c. 25r) nacque presumibilmente ad Ancona in data, allo stato attuale, ignota.
L’anno di nascita di Giovanni è ancora oggetto di discussione: stando a quanto riportato da Orlandi (1719, p. 217) dovrebbe essere il 1629, anno in cui però risulta nato un altro fratello di nome Giulio (Cleri, 1997, p. 77); dall’iscrizione apposta su un suo dipinto realizzato per i Bonamini di Pesaro e oggi disperso, si ricava invece come data il 1636 (Campagna, 1959-60, p. 20; Patrignani - Barletta, 1998, pp. 73 s.). Inoltre, Giovanni stesso, nel 1673, firmava il quadro con S. Pio V che libera un’ossessa per il collegio Ghislieri di Pavia dichiarando di avere ventinove anni (Ragnetti, 2011-12, p. 114); tuttavia la data di nascita, il 1644, che si ricava da tale asserzione, sembrerebbe troppo tarda, anche in considerazione del fatto che le prime notizie documentarie sulla sua attività pittorica risalgono al 1662.
Formatosi plausibilmente presso il padre, durante il settimo e l’ottavo decennio Giovanni gravitò fra Ancona, Pesaro, Modena e Roma, divenendo un instancabile «pittor errante» (Lanzi, 1809, p. 124). I suoi dipinti giovanili, quali l’Ercole e Onfale, dipinto nei primi anni Sessanta ancora per i Bonamini (Pesaro, Musei civici; Ambrosini Massari, 2012), esplicitano l’influenza della pittura di Cantarini, dal quale derivano le tipologie, le pose, i modi del panneggio; così come l’Adorazione dei pastori dimostra anche la vicinanza alla pittura del padre, nella ripresa dei toni scuri e dei forti contrasti chiaroscurali (Collezione Altomani; Ead., 2011). In una lettera del 18 agosto 1662 Giovanni riferiva che da Roma – dove si era recato in data imprecisata – si era trasferito a Pesaro per lavorare alla decorazione della chiesa di S. Filippo Neri (Mazza, 2012, p. 101 n. 158); al 2 maggio 1662 risale la testimonianza inedita della quietanza di pagamento per aver terminato «nella sud.a Chiesa dell’Oratorio la sofitta di Pittura», commissionatagli dal rettore dell’oratorio Giuseppe Patirani (Archivio di Stato di Pesaro, Atti dei notai del distretto di Pesaro, 242, Cesare Sperandio, anno 1662, c. 256 r-v). Fra il 1662 e il 1663 prese parte alla decorazione, su commissione estense, della chiesa di S. Agostino di Modena, per la quale realizzò i dipinti d’altare, perduti, S. Edoardo III re d’Inghilterra e S. Stefano re d’Ungheria e alcuni riquadri della volta (Dugoni, 2002).
Nel 1664 soggiornò ad Ancona, ove, a fianco del padre, affrescò le lunette del distrutto chiostro del convento di S. Francesco ad Alto (Campagna, 1959-60, p. 14); da una lettera si evince che nel 1666 era nuovamente a Roma (Campori, 1855, p. 366), dove fu attivo fino al 1675 grazie all’appoggio di personalità autorevoli come il cardinale fermano Decio Azzolino, che gli commissionò la Traslazione della S. Casa di Loreto per l’altare maggiore della chiesa di S. Salvatore in Lauro (1673; Ragnetti, 2011-12).
L’opera rivela un’evoluzione stilistica d’impronta romana e marattesca, unita alla conoscenza della cerchia dei cortoneschi: i toni diventano più chiari e la pennellata si fa più sciolta e dinamica, come nel citato S. Pio V del collegio Ghislieri e nel S. Filippo Neri della chiesa di S. Carlo a Modena, databile, anch’esso, entro la prima metà dell’ottavo decennio (Benati, 1991; Ragnetti, 2011-12, pp. 158 s.).
In contatto con la corte dei Savoia dal 1672, Giovanni nel 1675 si trasferì a Torino, guadagnandosi la protezione del marchese Francesco Carron di San Tommaso, ministro di casa Savoia; fin da subito ricevette incarichi per numerosi lavori dei quali, a oggi, si conserva solo una minima parte (Ragnetti, 2011-12, pp. 131-133, 163). Attorno al 1676 i Carron di San Tommaso gli commissionarono un’Immacolata e i ss. Francesco di Paola, Francesco d’Assisi e Francesco di Sales per l’altare di famiglia nella chiesa di S. Francesco di Paola, ancora in loco come anche un S. Giovanni della Croce dipinto, negli stessi anni, per la chiesa di S. Teresa (Schede Vesme, 1968, p. 824; Di Macco, 1988 e 1989). Nel 1677 risulta un pagamento dei Savoia al pittore per aver terminato il Martirio di s. Lorenzo destinato all’altare maggiore della chiesa omonima: un’importante commissione ducale di cui non rimane più la testimonianza pittorica (Schede Vesme, 1968, p. 823). Dopo il 1678 non sono state più reperite referenze documentarie su suoi lavori per la corte sabauda (Schede Vesme, 1968, p. 816).
Nel corso del nono decennio Giovanni lavorò a Bologna, forse insieme al fratello Antonio Francesco attivo negli stessi anni in quella città (Malvasia, 1706; Ragnetti, 2011-12). Il Ritratto del conte Marcantonio Ranuzzi, pagato nel 1686 a un Peruzzini e attribuito ad Antonio Francesco (Bologna, Palazzo Ranuzzi-Baciocchi; Mazza, 1994, pp. 86 s.), andrebbe ricondotto alla mano di Giovanni (Ragnetti 2011-12). Numerose opere dei due fratelli sono registrate negli inventari seicenteschi bolognesi (Morselli, 1998).
Nell’ultimo periodo della vita, Giovanni lavorò a Milano, dove presumibilmente soggiornò. Il quadro Cena in Emmaus già sul mercato milanese (Gregori, 1975), caratterizzato da uno sfondo di paesaggio minuziosamente dettagliato, esprime un nuovo interesse per il dato di natura che lo avvicina al milieu artistico in cui operò Antonio Francesco. Ne è prova anche la marina in tempesta raffigurata nella Chiamata di Pietro e Andrea (Moltrasio, chiesa dei Ss. Martino e Agata), cronologicamente collocabile nel nono decennio come i due dipinti con Storie dei ss. Gusmeo e Matteo realizzati per la chiesa omonima di Gravedona, tuttora in loco (Mazza, 2012, p. 73).
Stando a quanto riferito da Orlandi (1719) Giovanni morì a Milano nel 1694.
Antonio Francesco, fratello di Giovanni, nacque ad Ancona nel 1643 o nel 1646.
Tale incertezza deriva dagli atti di morte del pittore che, seppur concordi sull’anno, il 1724, discordano sull’età dichiarata: nell’atto di morte conservato dell’Archivio della Curia arcivescovile di Milano lo si dichiara morto all’età di 81 anni mentre negli altri due, presso l’Archivio di Stato di Milano, risulta defunto a 78 anni (in Muti - De Sarno Prignano, 1996, p. 134).
Dopo l’apprendistato con il padre Domenico, Antonio Francesco si specializzò nella pittura di paesaggio, subendo l’influenza di Salvator Rosa e di paesisti come Pietro Montanini e Pandolfo Reschi, ai quali non fu indifferente nemmeno il fratello Giovanni; ulteriori influssi gli vennero anche da pittori nordici attivi in Italia come Mathieu van Plattenberg e soprattutto Pieter Mulier detto il Tempesta (Gregori, 1975; Ragnetti, 2011-12, pp. 187-188). Allo stato attuale delle conoscenze, i suoi dipinti più antichi, datati dalla critica fra il 1672 e il 1674, sono due Burrasche di mare (Antonio Francesco Peruzzini, 1997, catt. 1-2) date in dono dal musico romano Giulio Cavalletti alla S. Casa di Loreto nel 1689 (Brugiamolini, 1998). Queste prime prove pittoriche palesano già il carattere originale della sua pittura caratterizzata da una stesura rapida e da un timbro cromatico intenso e brillante. Il 22 marzo 1673 in una nota di quadri inviati da Roma a Torino dall’agente dei Savoia Paolo Negri risultano registrati due «paesi» di Antonio Francesco seguiti, l’11 ottobre del 1673, da altri due paesaggi «con le figure dell’istesso sig. Giovanni» (Baudi di Vesme, 1968, p. 818). Da questi documenti si evince che i due fratelli negli anni Settanta lavoravano insieme a Roma l’uno come paesista, l’altro come figurista: una prassi pittorica sviluppata nei decenni successivi da Antonio Francesco, in occasione della sua collaborazione con Sebastiano Ricci e Alessandro Magnasco.
Dal 1682 al 1687 Antonio Francesco fu a Bologna al servizio dei Ranuzzi (Mazza, 1994). Riconducibili a quest’epoca sono la Marina in tempesta (Bologna, Pinacoteca nazionale) e le due Tempeste di mare (Firenze, Uffizi) provenienti dalla collezione di Ferdinando de’ Medici (Muti - De Sarno Prignano, 1996, p. 78).
Una lettera dell’11 giugno 1687 di tal Filippo Pizalli al conte Vitaliano Borromeo, collezionista per il quale Antonio Francesco lavorò, documenta che nel nono decennio il pittore era impegnato anche a Venezia, Modena, Parma, Casale Monferrato e Torino (ibid., pp. 78, 129 s.).
Dal principio degli anni Novanta iniziò il lungo legame artistico di Antonio Francesco con Alessandro Magnasco; il loro incontro avvenne a Milano, dove Antonio Francesco è documentato nel 1693 e dove nel 1695 compare per la prima volta nell’elenco dei pittori iscritti alla Congregazione di S. Luca (ibid., p. 130). I primi esempi di dipinti eseguiti con Magnasco sono la Marina con pescatori d’anguille (Parigi, Louvre), databile fra il 1689 e il 1692, il Paesaggio boscoso con viandanti (San Pietroburgo, Ermitage) e il Paesaggio con assalto di ladroni (Milano, collezione privata; Muti - De Sarno Prignano, 1996, p. 88, cat. 80), entrambi databili a un periodo di poco successivo.
Il quadro con le Tentazioni di s. Antonio Abate (Rovello, Collezione Porro) dipinto con Sebastiano Ricci e riferito inizialmente al 1706-07 (Arslan, 1959) è stato retrodatato (Muti - De Sarno Prignano, 1996, pp. 28 s., 37, 80, 83, 162, cat. 90) al 1694-95 in base al confronto con le opere eseguite da Antonio Francesco a partire dai primi anni del nuovo secolo; da questo periodo in poi la sua pittura sembra sfaldarsi, attraverso forme che si fanno più dinamiche e leggere, quasi fantastiche (Antonio Francesco Peruzzini, 1997, cat. 8). Ciò si nota, per esempio, nel S. Francesco in meditazione contemplante il teschio e nel suo pendant Paesaggio con l’estasi di s. Francesco (Firenze, Uffizi), eseguiti insieme a Magnasco negli anni in cui entrambi lavoravano per i Medici a Livorno (1703-04 circa) o nel Grande bosco delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (Muti - De Sarno Prignano, 1996, pp. 42 s.). Apprezzato soprattutto dal vasto pubblico dei collezionisti privati, il sodalizio artistico tra Antonio Francesco e Magnasco dovette continuare a lungo come si evince anche dal fatto che tra il 1712 e il 1713 entrambi risultano risiedere nello stesso quartiere di Milano, in corso di Porta Romana (ibid., pp. 101, 133; Antonio Francesco Peruzzini, 1997, p. 29).
Nei dipinti di Antonio Francesco databili al secondo decennio, tra i quali spiccano opere come il S. Agostino incontra il bimbo in riva al mare (Genova, Galleria di Palazzo Bianco) e il Battesimo di Gesù (Washington, National Gallery of art; Muti - De Sarno Prignano, 1996, catt. 39, 151), si assiste a un’ulteriore evoluzione della sua cifra stilistica improntata a un sempre più evidente disgregarsi delle forme della natura, che rivela la modenità dei suoi paesaggi.
Antonio Francesco morì a Milano nell’agosto del 1724 (Muti - De Sarno Prignano, 1996, p. 134).
Non si hanno notizie dell’altro fratello Paolo. Attivo come pittore a Bologna nel 1668 (Mazza, 2012, p. 100, n. 155), di lui a oggi non si conoscono dipinti.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Ancona [ASAn], Notai del Comune di Ancona, 1454, Oliviero Scalamonti, anno 1648, cc. 25r-27r; ASAn, Notai del Comune di Ancona, 1337, Gian Filippo Leonardi, anno 1659, cc. 126r-127r; Archivio di Stato di Pesaro, Atti dei notai del distretto di Pesaro, 242, Cesare Sperandio, anno 1662, c. 256r-v.
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