Personalità
Il concetto di personalità è ancora esprimibile attraverso la nota definizione coniata da G.W. Allport per cui essa è "l'organizzazione dinamica entro l'individuo di quei sistemi psicofisici che determinano il suo specifico adattamento al proprio ambiente" (1937, p. 48). Secondo la teoria di Allport, che ebbe una forte influenza sulle ricerche a metà del 20° sec., la psicologia non avrebbe dovuto studiare "i fattori che formano la personalità, ma piuttosto la personalità in sé come struttura in evoluzione" (p. xiii). Le variabili esterne a questa dimensione soggettiva, di origine culturale e sociale o anche biologica, potevano essere d'interesse per l'indagine psicologica solo in quanto interiorizzate dall'individuo nella rappresentazione in divenire che questi fa di sé stesso nell'arco della propria vita. Sebbene la definizione di Allport sia genericamente valida, è cambiata invece totalmente l'impostazione attraverso la quale viene concepita e studiata la personalità (Caprara, Cervone 2000). Da una parte vi è la suddetta prospettiva individuale, per la quale ogni persona sa di essere un insieme integrato di sensazioni, emozioni e pensieri, di avere una propria storia psicologica, una propria identità e in quanto tale di essere diversa sul piano psicologico dalle altre persone. Dall'altra vi è la prospettiva degli altri che osservano, valutano e giudicano il comportamento di una persona e sulla base di questo comportamento fanno inferenze sulle sue emozioni e sui suoi pensieri: si fanno un'idea a loro volta della p. di un individuo. Queste due rappresentazioni, quella propria e quella degli altri, solo in parte coincidono; spesso sono in conflitto e comunque costituiscono una interazione dinamica sui cui si fonda lo sviluppo della personalità. Secondo una classica intuizione di G.H. Mead proposta negli anni Trenta e ripresa e approfondita da studiosi contemporanei, tra cui R. Harré (1998; trad. it. 2000), ciò che ci rappresentiamo di noi stessi, il nostro Sé, è allo stesso tempo individuale e sociale: nasce dalla integrazione di ciò che noi pensiamo di noi stessi e di ciò che gli altri pensano di noi. Da questa integrazione deriva anche ciò che vogliamo che appaia agli altri in modo da influenzare l'opinione, chiamata carattere da E. Goffman (1959; trad. it. 1959), sulla nostra personalità. Esiste quindi una concezione della p. che viene applicata per conoscere e interpretare sia noi stessi sia gli altri. Si tratta di una teoria cosiddetta implicita della p. che viene distinta dalle teorie esplicite formulate e adottate dagli psicologi. Tale teoria implicita ha un forte valore adattivo: essa ci guida nelle relazioni interpersonali, serve a calibrare il proprio comportamento rispetto sia alle proprie aspettative nei confronti degli altri sia alle risposte che si prevede verranno date dagli altri alle proprie azioni. Le teorie implicite variano nelle diverse culture e canalizzano la costruzione della p. fin dai primi mesi di vita; un esempio interessante è la concezione propria della società e della cultura giapponese che si differenzia da quella occidentale per il maggiore rilievo dato alle interazioni tra l'individuo e i gruppi sociali (Doi 1977; trad. it. 2001).
Nel corso del 20° sec. la ricerca psicologica sulla p. è stata caratterizzata dallo sviluppo di teorie tra loro contrastanti: teorie psicodinamiche (principalmente la psicoanalisi), comportamentistiche, cognitivistiche, umanistiche, biologiche, culturalistiche. Ciascuna prospettiva ha centrato il proprio concetto di p. su alcuni aspetti specifici (la pulsione, la cognizione, il patrimonio genetico individuale e così via), dando luogo a una frammentazione degli studi empirici oltre che a una inconciliabilità sul piano teorico. Questa situazione è esemplificata nel manuale di C.S. Hall e G. Lindzey (Theories of personality, 1957; trad. it. 1982), più volte ristampato e aggiornato, ma sempre caratterizzato dalla stessa impostazione eclettica per cui le varie teorie venivano illustrate, l'una sullo stesso piano dell'altra, senza alcun tentativo di integrazione concettuale e metodologica. Agli inizi del 21° sec. è stata riproposta l'esigenza di una unificazione delle varie teorie (Caprara, Cervone 2000; Mischel, Shoda, Smith 20047; Mayer 2005) fondata sulla condivisione di alcuni concetti comuni. Secondo Mayer devono essere considerati quattro aspetti principali nella caratterizzazione e nello studio della personalità. In primo luogo, deve essere ribadita la dimensione psicologica della personalità. Essa non deve essere ridotta sostanzialmente né a fattori biologici, come fu proposto da alcune teorie passate attualmente riproposte (I.P. Pavlov, H.J. Eysenck), né a fattori socioculturali, come fu sostenuto dalle teorie cosiddette culturaliste (A. Kardiner). Secondo la definizione elaborata da Mayer la p. "è il sistema organizzato, in sviluppo all'interno dell'individuo, che rappresenta l'azione collettiva dei suoi sottosistemi motivazionali, emozionali, cognitivi, di pianificazione sociale e altri di carattere psicologico" (2005, p. 296). Questa organizzazione viene espressa e spiegata in termini psicologici sia dall'individuo che la possiede sia da chi la interpreta (un'altra persona o uno psicologo). Sebbene siano importanti i dati relativi ai fondamenti biologici della personalità o al contesto socioculturale in cui questa si sviluppa, la metodologia di indagine è specificamente psicologica. I test oggettivi, i questionari di autovalutazione, le interviste e i colloqui restano gli strumenti più idonei per determinare le caratteristiche della p. di un individuo. Il secondo aspetto riguarda il tipo e il numero di sottosistemi da cui sarebbe composta la p. (l'esempio classico è la divisione proposta da S. Freud in tre sottosistemi: Es, Io, Super-Io). Per Mayer i sottosistemi della p. sono essenzialmente quattro: il sottosistema energia, in cui sono compresi i processi delle motivazioni e delle emozioni; il sottosistema conoscenza, in cui sono sviluppate e conservate le rappresentazioni di sé stesso e delle proprie relazioni con il mondo esterno; il sottosistema attore sociale, relativo alle competenze sociali e alle modalità di esprimere all'esterno il proprio sé (per es., attraverso l'espressione delle emozioni); infine il sottosistema coscienza, che assolve alla funzione di supervisore esecutivo dei sottosistemi precedenti. Inoltre qualsiasi teoria che concepisca la p. come un insieme di sottosistemi deve essere in grado anche di inglobare le relative descrizioni veicolate dai termini che si usano nella vita quotidiana. Il riferimento è all'ipotesi lessicale alla base della teoria nota come Big five (Goldberg 1993) o Five-factor model (McCrae, Costa 1997), in cui si indicano cinque grandi dimensioni della p. per le quali in tutte le lingue parlate, perlomeno quelle occidentali, esistono vocaboli specifici. L'universalità di questo lessico sarebbe la prova che queste dimensioni esistono in tutti gli individui e sono implicitamente riconosciute come tali. Sono stati sviluppati vari test fondati su questa teoria. Per la popolazione italiana è disponibile il Big five questionnaire (Caprara et al. 1993), che permette di descrivere e valutare cinque dimensioni fondamentali: energia, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale. Il modello dei cinque fattori ha avuto una larga diffusione negli anni Ottanta e Novanta del 20° sec., rappresentando un punto di incontro tra le teorie prodotte dalla ricerca psicologica che sostengono l'esistenza di dimensioni, fattori o tratti fondamentali costitutivi della p. e le teorie implicite che guidano le persone nella descrizione e valutazione della p. altrui. Allo stesso tempo sono stati messi in evidenza alcuni aspetti critici di questo modello. Infatti una struttura della p. a cinque dimensioni risulta in indagini su grandi numeri di individui, a livello di popolazione, ma quando si considerano le persone singolarmente non sempre essa viene riscontrata con le stesse caratteristiche. Infine, anche quando al livello di una singola persona si accerta l'esistenza di una struttura a cinque dimensioni, si deve considerare che questa sarebbe una organizzazione 'media' della personalità. Di fatto, però, di volta in volta, in contesti differenti, la persona esibisce stili diversi di comportamento che si discostano dal suo profilo medio di personalità. Queste variazioni, che da un punto di vista statistico possono essere descritte come rumore, sono invece il modo reale e caratteristico di manifestarsi della p. della singola persona (Mischel, Shoda 1995).
Un'area di ricerca in crescente espansione riguarda le basi genetiche e cerebrali della personalità. Varie ricerche hanno cercato di determinare se vi sono geni regolatori della p., arrivando attualmente alla conclusione che non vi sia un solo gene che controlli il fenotipo della p., ma un complesso di geni. Altri studi sono stati dedicati alla ereditabilità delle dimensioni della personalità. Si ritiene che l'ereditabilità, per es., di ciascuno dei Big five o dei tre fattori della teoria di Eysenck (estroversione, nevroticismo, psicoticismo), sia intorno al 50% (Caprara, Cervone 2000). Sebbene venga riconosciuto da quasi tutti gli psicologi che la p. ha un fondamento genetico, si insiste anche sulla sua dipendenza da variabili ambientali. Più che di una modificazione ambientale della p. si tratterebbe di una modulazione connessa all'interazione tra la p. e i processi cognitivi di una persona. Nel passato la relazione tra p. e cognizione era stata studiata facendo perno sul concetto di attivazione o arousal. Nelle ricerche di Pavlov sui riflessi condizionati erano emerse notevoli differenze individuali nel processo di apprendimento, a loro volta interpretate come differenze individuali nelle proprietà del sistema nervoso. Negli anni Sessanta del Novecento le proprietà descritte nella teoria pavloviana erano state spiegate in base al sistema di attivazione che viene regolato dalla formazione reticolare del tronco encefalico. Nell'interazione con l'ambiente, per es. nell'apprendimento di una nuova modalità di risposta comportamentale, sarebbero intervenute da una parte le strutture cerebrali sottocorticali implicate nell'attivazione, nel tono generale del comportamento (lo stile individuale, al livello fisiologico, alla base della personalità), e dall'altra le strutture corticali coinvolte nell'elaborazione cognitiva dell'informazione. La teoria biologica della p. di Eysenck era fondata su tale interazione tra processi sottocorticali e processi corticali (Gruzelier, Mecacci 1992; trad. it. 1994). La ricerca si è in seguito spostata sulle regioni corticali che sarebbero coinvolte direttamente nella regolazione dell'integrazione tra dimensioni della p. e processi cognitivi. I lobi frontali sono ritenuti la sede centrale per il controllo globale del comportamento, per la pianificazione delle azioni da attivare nella continua relazione con l'ambiente. In effetti lesioni frontali danneggiano questo processo di regolazione e il comportamento appare incerto, confuso, irregolare. Allo stesso tempo si può riscontrare che disturbi della p. (per es., forme gravi di ansia e di depressione) rappresentano il sintomo di patologie cerebrali localizzate nelle regioni frontali. Ulteriori studi hanno infine messo in evidenza che la corteccia cingolata anteriore, una struttura localizzata nella profondità dei lobi frontali, interviene nel controllo della efficacia del comportamento (per es., durante l'esecuzione di compiti cognitivi) e si attiva in particolare quando viene rilevato un errore comportamentale. Allo stesso tempo l'attivazione di questa struttura è presente nelle persone in stato di ansia o depressione. Si ritiene così che la corteccia cingolata anteriore sia implicata nella valutazione globale del comportamento dal punto di vista sia cognitivo sia affettivo e quindi della p. stessa (Paulus et al. 2004).
bibliografia
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