PERICLE (Περικλῆς, Perĭcles)
Uomo politico ateniese. Nacque nel primo quinquennio del sec. V a. C. da Santippo, il vincitore di Micale, e da Agariste, figlia dell'Alcmeonide Ippocrate, fratello del riformatore democratico Clistene. Era nobile tanto per parte della madre quanto per parte del padre, sebbene la notizia di uno scoliasta che appartenesse alla gente dei Buzigi sia dovuta ad equivoco. Fu iscritto al demo di Colarge della tribù Acamantide. Come suoi maestri vengono citati l'ateniese Damone, figlio di Damonide, del demo di Oa, politico, musicista e pensatore, il sofista Pitoclide di Ceo, Zenone di Elea e il filosofo Anassagora di Clazomene. Ma con Zenone P. non può aver avuto che brevi relazioni in occasione di qualche soggiorno dell'Eleate in Atene; di Pitoclide non sappiamo nulla. L'influsso di Anassagora e di Damone non è da negare, ma essi furono a un dipresso suoi coetanei e quindi difficilmente maestri nel senso stretto della parola.
P. iniziò la sua vita politica dopo la cacciata di Temistocle quando, morto o ritiratosi dalla vita attiva Aristide, Cimone era l'uomo politico più in vista. Contro Cimone, per essere troppo ligio a Sparta e per le sue tendenze conservatrici, si schieravano quanti volevano assicurare nello stato un maggior potere effettivo alle classi meno abbienti, vedendo nella plebe marinara il fulcro della potenza ateniese, poiché essa aveva dato il massimo contributo alla vittoria sui Persiani e alla fondazione e all'incremento della lega delioattica. A capo di questo partito democratico, che aveva perduto il suo duce col bando di Temistocle, si pose insieme con Efialte il giovane P. Egli cominciò con l'intentare a Cimone, quando tornò vittorioso da Taso, un processo per corruzione. L'accusa era, come ci prova tutto quel che sappiamo del carattere di Cimone, affatto infondata; ma a P. e ai suoi amici importava di combattere, in lui, l'indirizzo politico conservatore. Respinta l'accusa e raffermata così la propria autorità, Cimone venne inviato nel Peloponneso a capo dei 4000 opliti che per sua proposta si mandarono in soccorso degli Spartani, impegnati allora nell'assediare in Itome i Messenî ribelli (462). Il rinvio di queste truppe per parte degli Spartani, i quali avevano sperato invano che affrettassero la presa della fortezza, fu sentito dagli Ateniesi come un insulto al proprio onore e rese finalmente vittoriosi gli sforzi di P. e di Efialte per abbattere Cimone, che fu ostracizzato (primavera 461), e il suo partito, e per indebolire il baluardo del conservatorismo, il consiglio areopagitico, limitandone i poteri ai giudizî sui reati di sangue. Con ciò si collegava una serie di riforme per cui i poteri politici e giudiziarî, tolti all'areopago, passarono al consiglio popolare dei Cinquecento, all'assemblea del popolo e ai tribunali eliastici. Questi ultimi in specie presero allora quello sviluppo e quell'autorità che sono così caratteristici della democrazia ateniese. Tali riforme vanno ascritte soprattutto ad Efialte, ma, assassinato Efialte poco dopo (ancora nell'anno attico 462-1), capo incontrastato del movimento democratico rimase P., il quale le consolidò introducendo la paga eliastica di due oboli che permise ai non abbienti di esercitare effettivamente l'ufficio di giudice, sicché la borghesia cessò di essere l'elemento preponderante nella giuria popolare.
A P. va anche ascritto il mutamento profondo della politica estera ateniese. Cimone aveva cercato di consolidare la lega marittima e di liberarla dal pericolo di nuove aggressioni persiane (battaglia dell'Eurimedonte, 470-69), ma si era astenuto così dall'estendere la lega nella terraferma greca come dal promuoverne l'espansione nei paesi barbari soggetti alla Persia. P. si propose il predominio nella penisola e in stretto nesso con questo l'espansione imperialistica in territorio persiano. Riprendere cioè la guerra persiana e condurla senza Sparta o anche contro Sparta sostituendole Atene nell'egemonia sui Greci rinnovanti la lotta contro il barbaro. Ma rinnovarla voleva non più solo come guerra difensiva o per la liberazione dei Greci, sì per sostituire il predominio ellenico al persiano nel Mediterraneo orientale e aprire la via all'espansione politica ed economica dei Greci sulle sponde di esso e in particolare nell'Egitto. Così nel momento stesso in cui si sforzava di estendere l'egemonia ateniese in Grecia, dava a quella egemonia un contenuto d'interesse panellenico, primo fra gli statisti europei che tentasse una politica d'impero oltre i termini d'Europa: precursore in ciò di Alessandro Magno e dei Romani, sebbene naturalmente non con la stessa consapevolezza. La rescissione dell'alleanza con Sparta, che seguì subito al rinvio delle truppe ateniesi dalla Messenia, insieme con l'indebolimento di Sparta sempre occupata nel domare l'insurrezione degli Iloti, permise ad Atene l'inizio di questa sua politica più vigorosa ed aggressiva nella penisola. Fu stretta alleanza con Argo, la rivale di Sparta nel Peloponneso, e con i Tessali. Fu accolta nella lega ateniese Megara che in lotta con Corinto si staccò dall'alleanza spartana, e l'istmo fu virtualmente chiuso ai Peloponnesiaci. Questo portò alla guerra con Corinto e poi con Egina (458). Gli Ateniesi dopo una grande vittoria navale strinsero Egina d'assedio. Circa lo stesso tempo, chiamati da Inaro che s'era messo a capo degli Egiziani ribelli contro il dominio persiano, intervennero in Egitto con 200 triremi. Si attuava così in pieno la politica imperiale di P. Ma mentre i Macedoni non iniziarono la guerra offensiva contro la Persia se non dopo avere sottoposto alla loro egemonia la Grecia, gli Ateniesi con inaudita audacia sfidarono allo stesso tempo le due massime potenze d'allora, fiduciosi che i ricordi della gloriosa lotta contro il barbaro avrebbero impedito tra esse un'efficace cooperazione. E di fatto la impedirono, ma rimaneva a vedere se Atene sarebbe stata in grado di resistere su due fronti ad avversarî tanto formidabili. Sparta appena si sentì sicura dal pericolo messenio intervenne nella Grecia centrale. I Lacedemoni tragittarono con un forte esercito il Golfo Corinzio e, tratti a sé i Beoti, si accamparono presso il confine dell'Attica a Tanagra. Fu quello per P. e i suoi amici un momento assai grave. Le lunghe mura congiungenti Atene con i suoi porti, che dovevano assicurare alla città le comunicazioni col mare, sebbene già iniziate da P. in relazione con la sua politica di guerra, non erano condotte a termine, ad Atene si agitavano gli avversarî della democrazia sperando di abbatterla con l'aiuto di Sparta e una gran parte delle forze ateniesi era lontana, in Egitto o ad Egina. Tuttavia gli Ateniesi con disperata audacia, raccolte quante forze cittadine e alleate poterono, presero essi l'iniziativa d'invadere la Beozia e d'attaccare i Lacedemoni presso Tanagra (457). Fu battaglia sanguinosissima e gli Ateniesi rimasero vinti; ma furono in realtà strategicamente vincitori perché gli Spartani non profittarono della vittoria se non per assicurare la propria ritirata attraverso la linea dell'istmo dove gli avversarî allora non erano in grado di contrastare il passo. Tosto gli Ateniesi invasero di nuovo la Beozia, vinsero i Beoti, rimasti soli, nella battaglia di Enofita e stabilirono la loro egemonia sulla Focide, la Locride Opunzia e la Beozia, tranne Tebe. Non molto dopo si arrese Egina. L'audace politica periclea sembrava trionfare su entrambe le fronti e sotto l'impressione di tali successi, nel 454, col pretesto di mettere al sicuro il tesoro della lega delio-attica, che si conservava in Delo, da un possibile colpo di mano degli avversarî, si ottenne che fosse trasferito sull'acropoli di Atene; e per tal modo fu fatto un passo notevolissimo verso la trasformazione della lega in impero (ἀρχή). Non a torto la tradizione attidografica segnava all'anno 455-4 l'acme della potenza ateniese.
Ma fu acme breve. Con tutto l'impeto quasi demoniaco della loro resistenza a tanti avversarî, gli Ateniesi erano impari a uno sforzo di guerra così immane. Ciò spiega la totale catastrofe con cui si chiuse la spedizione egiziana (452).
Era un disastro immenso, il primo veramente grave che i Greci della penisola avessero sofferto in tutta la loro storia. Esso segnò il termine alla grande politica d'impero degli Ateniesi in Oriente, dove il tentativo d'espansione dei Greci non fu ripreso in grande che più d'un secolo dopo da Alessandro Magno. Si chiudeva così col pieno insuccesso questa prima fase della politica estera periclea. Ma poteva pensarsi che fosse ancora possibile salvare i vantaggi conquistati dalla democrazia nella penisola greca. Si salvarono in quel momento non tanto per le forze di cui Atene disponeva quanto perché si temette in Grecia che la prima grande vittoria riportata dai Persiani dopo quella di Lade potesse compensare Salamina e Platea e metterne in forse i resultati. Ad Atene fu richiamato prima che spirasse il periodo decennale del suo ostracismo Cimone. Questi, senza punto pensare ad una restaurazione conservatrice, si pose lealmente sul terreno del nuovo regime democratico e ottenne una tregua di cinque anni da Sparta (451). Riprese poi la guerra contro la Persia con intenti assai più limitati: voleva solo ristabilire l'onore delle armi ateniesi liberando Cipro dal dominio persiano (450-49). Ma egli morì senza aver condotto a termine il suo divisamento, mentre assediava Cizio. La sua morte fiaccò lo spirito offensivo degli Ateniesi che s'imbarcarono sulle navi prendendo la via del ritorno. Presso Salamina si scontrarono con l'armata fenicia che cercava di tagliar loro la rotta e ne riportarono piena vittoria. Questa vittoria peraltro, nelle condizioni in cui fu riportata, invece di riaccendere la volontà di guerra, segnò la fine dell'impresa, anzi della lotta stessa degli Ateniesi contro i Persiani, che si protraeva ormai da mezzo secolo. P. con singolare adattabilità alle contingenze mutò risolutamente le direttive della sua politica. Salvo ormai l'onore militare, rinunziando ad una politica d'espansione, si poteva concludere la pace con la Persia (448?). Fu la pace di Callia, pace che consolidò i resultati delle guerre persiane, ma troncò ogni speranza d'espansione ellenica in Oriente indirizzando i Greci a sciupare le loro forze esuberanti in lotte fratricide. Queste cominciarono in Beozia dove i fuorusciti beotici occuparono Orcomeno. Gli Ateniesi mossero immeddiatamente contro i ribelli, ma furono sconfitti con gravi perdite presso Coronea (inverno 446) e domttero evacuare la Beozia, che si ricostituì come lega. L'Eubea si ribellò, e mentre Pericle sbarcava con forze nell'isola, insorse alle sue spalle Megara e fu aperta così di nuovo ai Peloponnesiaci la via dell'Attica. La tregua dei 5 anni era spirata; e Plistoanatte, re di Sparta, marciò con un esercito peloponnesiaco per la via così aperta e si accampò presso Eleusi. Pericle, interrompendo la campagna d'Eubea, pose il campo di fronte a lui con tutte le forze ateniesi, ma invece di venire a battaglia si concluse, com'è da credere, un accordo preliminare tra i due comandanti. P. poté passare di nuovo nell'Eubea e compierne la sottomissione. Poi si concluse tra Atene e Sparta una pace di 30 anni per ottenere la quale Atene dovette rinunziare a quanto ancora le rimaneva di possessi od alleanze nel Peloponneso. Così, svanito il sogno d'egemonia nella penisola greca, si erano attuate in pieno le conseguenze della catastrofe d'Egitto e della doppia guerra voluta dalla democrazia col totale fallimento della politica periclea su entrambe le fronti.
Allora, dando nuova prova della sua versatilità, P. si adattò alla mutata situazione politica per trarne il massimo rendimento a vantaggio d'Atene. Non è il caso qui d'insistere su quello che è stato chiamato il suo tentativo di "imperialismo pacifico", cioè soprattutto sul congresso panellenico che cercò di convocare in Atene, invitando tutti i Greci della penisola, delle isole e delle sponde dell'Egeo, per deliberare intorno alla restaurazione dei santuarî arsi dai Persiani, alle feste per le comuni vittorie, alla sicurezza dei mari e alla pace generale. Il tentativo fallì per l'opposizione degli Spartani, ma forse esso non prova né la magnanimità di Pericle, come ritenevano gli antichi, né la sua ingenuità sia pure generosa come ritengono i moderni. Si trattava più che altro d'una mossa diplomatica per giustificare e mettere in valore la pace di Callia, per reagire contro le forze disgregatrici del dominio ateniese e per porre Sparta in cattiva vista se avesse cercato, come fece, di fomentarle, respingendo l'offerta di una pacifica collaborazione. Il vero intento della politica di Pericle dopo la pace di Callia, e soprattutto dopo il trattato con Sparta, fu la trasformazione della lega delioattica in impero. Tale trasformazione era insita nella conclusione stessa della pace con la Persia. Infatti le contribuzioni in denaro (ϕόροι), che tenevano soltanto le veci dei contingenti navali non inviati, non pareva avessero più ragione di essere quando la guerra era finita e assicurata con la pace l'indipendenza di tutti dal barbaro. Ora i tributi recati dalle città della lega non più a Delo ma ad Atene, adoperati non più per spese di guerra, sancite dall'assemblea federale, ma a beneplacito degli Ateniesi, divenivano segno e mezzo d'impero. Eppure la superiorità marittima degli Ateniesi fece sì che gli alleati dovessero acconciarsi a tale trasformazione. D'altronde l'esempio dell'Eubea, severamente punita, soprattutto con confische di territorî, mostrò agli alleati il rischio della ribellione. E tuttavia fra gli stessi Ateniesi molti avvertirono il pericolo del trasformare la lega in impero e si opposero sia alla deduzione di colonie (cleruchie) in territorio alleato, che fu uno dei mezzi con cui P. si sforzò di consolidare l'autorità della dominante e di provvedere nello stesso tempo agl'interessi delle classi meno abbienti d'Atene, sia al principio ormai praticato ed enunziato da P. che gli Ateniesi potevano disporre liberamente dei tributi degli alleati, e servirsene in particolare per l'abbellimento della città.
Capeggiava questi avversarî della politica periclea Tucidide di Melesia, il quale era succeduto a Cimone nel dirigere il partito conservatore, ponendosi, come lui, realisticamente sul terreno del regime democratico. P. opponeva che Atene provvedendo al suo compito di salvaguardare l'indipendenza dei Greci dal barbaro e di assicurare la libertà dei mari, non aveva altri conti a rendere agli alleati e poteva disporre dei tributi a suo piacere. Tucidide fu bandito con l'ostracismo (primavera 442), e P. poté attuare liberamente i suoi piani. Ebbe, pertanto, i mezzi di sopperire alla costruzione del Partenone e dei Propilei, all'erezione della grande statua crisoelefantina di Atena, capolavoro dl Fidia, al rinnovamento del telesterio di Eleusi, opere insigni, cui P. direttamente partecipò dirigendo le commissioni esecutive che ne erano incaricate con autorità che potremmo paragonare a quella d'un ministro dei Lavori pubblici, onde a lui va ascritto il merito d'aver reso Atene la più bella città dell'Occidente e d'aver permesso e promosso l'erezione di monumenti che pur nella loro rovina ci appaiono fra i più mirabili che mano d'uomo abbia compiuti. Ma, nonostante le spese immani che essi richiesero (oltre 2 mila talenti furono impiegati nell'abbellimento dell'acropoli), P., esercitando di fatto, sia come membro autorevole di commissioni amministrative, sia per mezzo di decreti proposti da lui stesso o da suoi amici, autorità di ministro delle Finanze, si dimostrò amministratore così probo, prudente e geniale del pubblico denaro, che, all'inizio della guerra del Peloponneso, il tesoro di Atena conservato sull'acropoli, nel quale ormai confluivano tutti gli avanzi annui del tributo degli alleati, saliva a 6 mila talenti (circa 42 milioni di lire oro). Frattanto i debiti che, durante il periodo della 1ª guerra peloponnesiaca, erano stati contratti col tesoro di Atena, s'erano sistemati e pagati, e s'erano anche pagate le somme che in quelle distrette Atene aveva dovuto prendere in prestito dai piccoli tesori degli altri templi dell'Attica. Ma tale restituzione aveva dato l'opportunità a P. di concentrare tutti questi piccoli tesori sull'acropoli mettendoli sotto il controllo dello stato per mezzo d'una commissione di tesorieri, nominati dal popolo (ταμίαι τῶν ἄλλων ϑεων) analoghi ai già esistenti tesorieri della dea (ταμίαι τῶν τῆς 'Αϑηναίας), e cioè in realtà di secolarizzarli (434) come era in fatto secolarizzato il tesoro della dea, divenuto ormai il vero tesoro dello stato ateniese. Insieme, l'uso del denaro pubblico fu regolato con garanzie così severe da renderne in pratica assai difficile lo sperpero. Ma la politica periclea d'impero aveva il suo lato debole. La crescente riluttanza degli alleati a sottostare all'egemonia d'Atene obbligava gli Ateniesi a stringere sempre maggiormente i freni, a menomare l'autonomia delle città, e soprattutto a sottoporle alla supremazia dei tribunali eliastici. Tutto ciò aveva per effetto di rinfocolare il desiderio d'autonomia sempre vivo nelle città greche facendo dimenticare i benefici innegabili che l'egemonia ateniese recava. Sintomo del generale malcontento fu la ribellione di una delle tre città dell'impero che, serbando la loro piena autonomia e la loro marina da guerra, non pagavano tributo: Samo. La rivolta fu provocata dalla violenza con cui P. non solo impose la mediazione ateniese in una controversia tra Samo e Mileto, ma intervenne arbitrariamente nella stessa Samo per mutarne il regime in senso democratico, come del resto gli Ateniesi facevano ormai più o meno alla scoperta in molte città della lega. La ribellione fu domata con grande vigore. Ridotta dunque dalla fine dell'offensiva contro la Persia, dalla rinunzia ai possessi nella terraferma greca a quei territorî di cui la supremazia marittima le assicurava l'assoluto dominio, l'egemonia ateniese si esercitava ormai senza alcun riguardo ai sentimenti degli alleati, senza vincolarli a sé con legami di ideali o di interessi, mercé la violenza. E P. non cercava altre vie d'espansione se non quelle che la superiorità marittima pareva rendere sicure. Così una spedizione nel Ponto Eusino (436-5?) gli servì per unire alla lega le città greche del Ponto, assicurando ad Atene il predominio sul maggior mercato granario che allora esistesse, quello della Russia meridionale e della Crimea. Al nord dell'Egeo, poco lontano dal mare, sulle sponde dello Strimone, fu fondata la colonia di Anfipoli (437). Nell'occidente poi, P., che già nel 454-3 aveva voluto l'alleanza con la città elima di Segesta, strinse trattati con le città calcidesi di Reggio e di Leontini, minacciate dall'elemento dorico o dagl'indigeni, e trasse anche Napoli di Campania nella sfera d'influenza ateniese. Presso le sponde del Mare Ionio fu fondata, in sostituzione dell'antica Sibari, sotto la direzione degli Ateniesi, una colonia panellenica che prese poi il nome di Turi (444-3), la quale tuttavia, per il prevalere dell'elemento non ateniese sull'ateniese, non corrispose alle speranze poste da P. nella sua fondazione.
All'interno P., rieletto continuamente (per 15 anni consecutivi secondo Plutarco) alla strategia, s'imponeva col suo credito, con la sua abilità e con la sua eloquenza alla bulè e all'assemblea, sicché da tutti si riconosceva che il governo era di nome democrazia, di fatto dominio di un solo uomo. Ma quest'uomo, che taluno designava persino come tiranno, dominava senza alcuna violenza, senza alcun presidio armato, soggetto al pari d'ogni altro cittadino alle leggi, alla critica più franca, specie per parte della commedia che non gli lesinava né attacchi né derisioni, all'obbligo dei rendiconti, al libero voto della maggioranza. E questa, se accettava il suo predominio e anzi non sapeva fare a meno di lui, a quando a quando gli dimostrava stanchezza e malcontento, aizzata dai conservatori che l'avevano sempre avversato, non meno che dai democratici più spinti, i quali deprecavano il governo personale e, volendo procedere oltre sulla via da lui segnata verso una più sfrenata democrazia, trovavano P. troppo moderato. Ai suoi avversarî egli non poteva neppur contrapporre come Cimone un'autorità fondata sulle vittorie riportate, e quindi sul rincalzo che a questa davano i cittadini da lui comandati sul campo, perché egli, sebbene avesse disimpegnato con cura e in genere non infelicemente i compiti militari abbastanza facili che assunse, non conseguì nessuna grande vittoria né dimostrò, per quel che sembra, nei suoi piani di guerra doti di grande stratego. E tuttavia quell'opposizione eterogerea non riusciva né a rovesciarlo, né a intralciare le sue direttive politiche, ma ad infastidirlo. Non sappiamo a quale momento precisamente spetti l'ostracismo del suo amico Damone di Oa; certo a questi anni appartengono i processi d'altri suoi amici come Anassagora il filosofo che, tratto in giudizio per empietà e condannato a una multa, andò in esilio a Lampsaco, e Fidia che fu accusato d'illecito profitto nel modellare la statua crisoelefantina d'Atena, e Aspasia, la bella milesia, con cui dopo aver ripudiata la sua moglie cittadina (445 circa) P. conviveva maritalmente. Era donna d'alto animo e di nobile ingegno e debbono ritenersi menzognere le accuse vergognose intentatele nel suo processo o accennate nelle espressioni ambigue dei comici; e solo è vero che essa vi dava ansa comportandosi con una libertà che l'uso interdiceva alla donna ateniese chiusa nel gineceo. Ma P. dovette adoperarsi con tutto l'impegno per salvarla dalla condanna. Tale stato di cose ha indotto antichi e moderni ad affermare che, per vincere la crescente opposizione all'intenno, P. cercò alle passioni popolari un diversivo provocando la guerra del Peloponneso. Questa peraltro è congettura infondata, e nulla ci dà il diritto di ascrivere a P. anche in linea secondaria e concomitante un simile motivo egoistico. Certo egli volle la guerra, come riconosce senza esitare Tucidide pur così favorevole a lui. Vero è che l'intervento ateniese per tutelare i Corciresi assaliti dai Corinzî (433), più che giustificato, può dirsi imposto dalle contingenze. Ma la violenza imprudente con cui, senza aver sotto mano nella Calcidica forze adeguate, s'impose a Potidea, colonia corinzia di quella regione iscritta nella lega ateniese, di abbattere una parte delle sue mura e di non ricevere i magistrati annui che i Corinzî solevano mandarvi, e più il decreto con cui P. fece escludere i Megaresi dai mercati dell'Attica e dai porti dell'impero (μεγαρικὸν ψήϕισμα) mostravano già una recisa volontà di guerra. La quale apparve anche più recisa quando P. indusse l'assemblea a rifiutare agli ambasciatori spartani la più piccola concessione (432-1). Questa volontà di guerra era ispirata soprattutto dal sentimento che le forze disgregatrici operavano nel seno della lega, e che solo una guerra vittoriosa poteva arrestarle e consolidare l'impero. Una guerra con Sparta d'altronde, a giudizio di Pericle, era inevitabile e non giovava ritardarla, come di certo egli avrebbe potuto, perché l'odio delle città per la dominante andava sempre crescendo, mentre la preparazione finanziaria e navale d'Atene non avrebbe potuto essere più formidabile. In sostanza la guerra non può imputarsi a P., se non nel senso che la politica da lui seguita la rese, prima o poi, inevitabile; e quanto alla scelta del momento, va riconosciuto che essa nell'interesse di Atene non era ingiustificata e che assai opportuna era stata l'occasione del conflitto tra Corinto e Corcira, il quale aveva permesso di legare ad Atene quella che era la terza o forse la seconda delle grandi marine militari di Grecia. Ma può domandarsi se non sarebbe stato più vantaggioso per Atene, anche a prezzo di umiliazioni e di sacrifizî, protrarre la pace per un altro decennio, fino a che, cioè, lo spirare del trattato fra Sparta ed Argo avesse reso possibile agli Ateniesi d'acquistare un punto d'appoggio nel Peloponneso, come avevano avuto nel 461. Più severo è ad ogni modo il giudizio che deve farsi del piano di guerra adottato per ferma volontà di P. Egli voleva che gli Ateniesi abbandonassero agli avversarî le campagne dell'Attica senza arrischiarsi con essi a battaglia, che la popolazione si concentrasse in Atene dove le lunghe mura assicuravano le comunicazioni col mare, che sul mare gli Ateniesi affermassero la loro superiorità bloccando gli avversarî ed eseguendo piccoli sbarchi sul loro territorio, ma evitando qualsiasi avventura. Questo piano presupponeva negli Ateniesi una perduranza superiore alle forze umane, e anche ammesso che si adattassero indefinitamente ad una difensiva così gravosa e snervante, rischiava di esaurire a poco a poco per consunzione le risorse finanziarie delle città, e accrescendo il malcontento degli alleati, dare ansa a ribellioni, senza portare agli avversarî nessun colpo decisivo. Sicché non poteva condurre che alla rovina o nel caso più favorevole a una vittoria pagata con sacrifizî così gravi da renderla poco più vantaggiosa d'una sconfitta. Se gli Ateniesi chiusero diversamente il primo periodo della guerra peloponnesiaca, la cosiddetta guerra archidamica (431-421), fu perché dopo la morte di P. ne abbandonarono, almeno in parte, i piani. La situazione ateniese nei primi anni del conflitto fu aggravata da un caso imprevisto, cioè dalla terribile epidemia scoppiata in Atene (430). Le sofferenze dovute alla peste rinfocolarono il malcontento contro P., già vivo per l'abbandono del territorio attico, e portarono alla sua caduta, che avvenne non sappiamo bene se per la sua destituzione da stratego o soltanto per la sua non rielezione alla strategia nel corso del 430, e alla sua successiva condanna, per l'accusa - che si deve ritenere probabilmente del tutto infondata - di peculato, a una gravissima multa. Ossequente alla legge egli non fece nulla per impedire il libero voto dell'assemblea e dei tribunali. Ma presto gli Ateniesi si avvidero che la sua caduta non migliorava le condizioni delle cose. Perché non si poteva allora né fare una pace onorevole con Sparta, né in quello stato di depressione condurre la guerra con rinnovata energia, con piani più audaci. Sicché P. fu richiamato al potere (429). Ma non sopravvisse che di poco alla sua riabilitazione e perì di peste nel corso dello stesso anno 429, come poco prima i suoi due figli legittimi, Santippo e Paralo.
Non è facile un giudizio equo sulla personalità e l'opera complessiva di P. I giudizî antichi e moderni sono contraddittorî. Tucidide contemporaneo rende omaggio al suo animo e al suo ingegno, Aristotele non lo annovera tra i maggiori politici ateniesi, G. Beloch non vede in lui che un esperto parlamentare, G. Glotz rileva giustamente che fu l'anima di Atene in un momento in cui Atene era l'anima della Grecia. Certo egli possedeva in larga misura versatilità di ingegno, molteplicità d'interessi culturali, vivo senso d'arte. Nella sua probità e nel disinteresse di amministratore, nella cura appassionata che dedicò alle pubbliche faccende, nella sua piena dedizione a quel che credette il bene dello stato, nella correttezza e dignità della vita fu superiore alla maggior parte dei politici greci. Del resto riservato, schivo di frastuono e di applausi, P. non cercò con mezzi appariscenti e istrionici il favore del popolo e anzi parve quasi sfidarlo per il disprezzo liberamente professato verso i pregiudizî popolari e per il suo legame con una donna elettissima, ma sprezzante al pari di lui di questi pregiudizî. E la distanza ch'egli così metteva tra sé e la folla fece sì che i comici gli dessero il nomignolo di "Olimpio". E tuttavia egli dominava il popolo soprattutto col mezzo della sua singolare e affascinante eloquenza, per cui i contemporanei dicevano che coi suoi discorsi "fulminava, tuonava, sconvolgeva la Grecia", ma anche che "lasciava il pungiglione negli ascoltatori". Di tale sua eloquenza disgraziatamente non possiamo farci alcuna idea, perché non usava allora pubblicare discorsi politici e se sono da ritenersi genuine un paio di frasi tramandateci che ne sarebbero state desunte, pel resto non par dubbio che i discorsi a lui attribuiti da Tucidide sono non soltanto tucididei per lo stile e per la struttura, ma rispecchiano anche in massima non quello che P. disse al popolo ateniese, sì quel che Tucidide vuol dire ai suoi lettori. Peraltro tutto ciò ha poco a vedere col giudizio che si deve dare intorno alla sua opera di politico. All'interno egli attuò la libertà democratica in Atene fino a un segno che non fu mai sorpassato nell'antichità, né in Atene né altrove. Che tale regime non andasse a grado alle classi più abbienti era ben naturale. Ma, oltreché sarebbe stato assai difficile continuare a governar Atene senza l'appoggio delle masse popolari consapevoli dell'importanza dei servigi resi alla repubblica, P., pur istituendo un regime democratico, ha saputo energicamente impedire quel disgregarsi dell'autorità statale, che è il pericolo permanente nei governi democratici, e che si effettuò in larga misura in Atene nel corso del sec. IV. Questo appare dalla saldezza che il regime dimostrò anche dopo i disastri nella campagna d'Egitto, e dalla fermezza e prudenza della politica finanziaria. La politica di ampî lavori pubblici da lui attuata permise d'altronde di occupare utilmente le classi lavoratrici e di creare un insieme imponentissimo d'opere di difesa e d'abbellimento. La paga eliastica, da lui introdotta nella misura limitata di due oboli, non era tale da distogliere quelle masse dal lavoro e non si era neppure ideata probabilmente come sussidio di disoccupazione o come pensione d'invalidità o di vecchiaia, sebbene essa potesse giovare anche a questo intento di previdenza sociale, ma mirava soprattutto a rendere possibile ai meno abbienti di partecipare all'eliea, così da avervi un'autorità proporzionata al loro numero. Certo il dilagare delle paghe e soprattutto delle distribuzioni di denaro al popolo in occasione di feste (ϑεωρικά) fu poi tra le cause precipue del disordine della finanza e della frequente incertezza nella politica estera ateniese durante il sec. IV. Ma non sembra che tali distribuzioni fossero introdotte da P. Egli si limitò, per quel che pare, a promuovere l'attuazione d'una maggiore giustizia sociale coi sussidî statali dati agl'invalidi e con l'aiuto agli orfani dei caduti in guerra. Tuttavia l'aver usato il tesoro federale a vantaggio dei lavoratori ateniesi contribuì potentemente ad alienare da Atene l'animo degli alleati. E può dirsi che P. non fece nulla per ovviare a questo malcontento e per stringere gli alleati ad Atene con legami ideali ed economici che sostituissero il fine nazionale della lega ormai venuto meno. Ed è vero che su questo punto anche gli avversarî di P. non erano più di lui oculati né disposti a largheggiare, ma almeno essi volevano che si evitasse di acuire un malcontento cui non conoscevano il modo di reagire. P. però non solo non prese l'iniziativa d'una fusione politica tra Ateniesi e alleati mercé la concessione della cittadinanza alla quale non si cominciò a pensare sul serio in Atene che quando tutto crollava al tempo della guerra Deceleica, ma nemmeno volle saperne di piccole concessioni che avrebbero attutito il malcontento e preparato il terreno a relazioni piu strette. Così p. es. l'epigamia (ius connubii) non si concedette, per quel che sappiamo, che agli Eubeesi ai quali, per il gran numero di cleruchi attici stabiliti in Eubea, sarebbe stato praticamente assai difficile negarla. Ma pel resto con cura meticolosa si cercò d'impedire che penetrassero nella cìttadinanza elementi non attici, non solo rifiutandosi con una legge del 451-50 i diritti cittadini a quanti non erano figli di genitori entrambi cittadini, sì procedendo anche a revisioni severissime delle liste civiche come una fattasi nel 445-4 per la quale vien detto, sia pure con esagerazione, che i cancellati dalle liste furono non meno di 4760. Di queste restrizioni fu vittima lo stesso P. perché il figlio da lui avuto da Aspasia, Pericle il Giovane, che fu poi tra gli sfortunati strateghi vittoriosi alle Arginuse, non ottenne la piena cittadinanza se non per particolare concessione del popolo dopo che P. ebbe perduto i suoi due figli legittimi. Gli è che il popolo era geloso dei vantaggi che procurava la cittadinanza ateniese e non voleva condividerli con altri; e P., che tanto contribuì a rendere Atene, come dissero gli antichi, "una città tiranno" (πόλις τύραννος), non esitò a farsi strumento delle sue tendenze, di fronte agli alleati, egoistiche e parassitarie. Sicché egli ha la responsabilità massima d'avere preparato o almeno affrettato la dissoluzione della lega nell'atto stesso in cui, soprattutto a opera sua, si trasformava in impero, tanto più che appunto la politica eccessivamente audace dei suoi primi anni di governo condusse alla pace di Callia e all'abbandono della guerra persiana, cioè privò la lega di quello che era come il suo fulcro ideale. Per la salvezza della lega di cui aveva così preparato la dissoluzione, egli iniziò poi quella guerra con Sparta che fu causa di tanti disastri a tutta la Grecia privando per lungo tempo i Greci del frutto delle guerre persiane e segnando al tempo stesso il principio della decadenza politica d'Atene. E la iniziò in condizioni tali che una conclusione di essa effettivamente vantaggiosa al consolidamento dell'impero era assai difficile, mentre i sacrifizî che si facevano per raggiungerla erano smisurati.
Tale il politico P., il cui difetto sembra soprattutto la considerazione esclusivistica degl'interessi di Atene e in particolare delle masse popolari ateniesi, appoggiata a una valutazione eccessiva delle forze e delle capacità delle masse. Questo esclusivismo e questa valutazione che non furono soltanto peculiari a P. preparano e spiegano la caduta di Atene e dell'impero.
Ma prima che l'impero cadesse, con l'oculato favore da lui largito a pensatori come Anassagora e Protagora e ad artisti come Fidia, P. procurò ad Atene un altro più durevole impero, contribuendo poderosamente a renderla il centro della civiltà ellenica, la vera Ellade dell'Ellade.
Fonti principalissime per la storia di P. sono i contemporanei Tucidide e Aristofane. Inoltre Aristotele nella 'Αϑηναίων πολιτεία e nella Politica, Diodoro, Plutarco, gli scolî ad Aristofane e moltissime notizie di vario valore sparse qua e là in tutta la letteratura antica. Plutarco ci ha conservato preziosi frammenti di contemporanei come Ione, Stesimbroto e i comici attici. Sulla vita plutarchea di P. v. A. Weizsäcker, Untersuchungen über Plutarchs biographische Technik, Berlino 1931, p. 11 segg. Cfr. in generale L. Holzapfel, Untersuchungen über die Darstellung der griechischen Geschichte von 489 bis 413 vor Chr. bei Ephoros, Theopomp u. anderen Autoren, Lipsia 1879. Per le iscrizioni concernenti l'età periclea v. Inscr. Graec., I, 2ª ed., Berlino 1924. Una revisione delle liste dei tributi dovuta principalmente a B. D. Meritt è in Suppl. epigraph. Graec., V, Leida 1931.
Bibl.: Delle storie generali della Grecia v.: G. Busolt, Griechische Geschichte, III, i e ii, Gotha 1897-1904 e Cambridge Ancient History, V, Cambridge 1927 per la ricca bibliografia; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, II, i e ii, 2ª ed., Strasburgo 1914-16 per la critica metodica dei dati tradizionali; G. Glotz, Histoire de la Grèce, II, Parigi 1931, ov'è il quadro più recente e compiuto dell'età periclea. - Per la storia ateniese del sec. V in generale, G. De Sanctis, 'Ατυίς, 2ª ed., Torino 1912, p. 415 segg.; A. Ferrabino, L'impero atheniese, Torino 1927; J. Beloch, Die attische Politik seit Perikles, Lipsia 1884; C. Gilbert, Beiträge zur innern Geschichte Athens im Zeitalter. des peloponnesischen Krieges, Lipsia 1877; U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Aristoteles und Athen, I-II, Berlino 1893; G. B. Grundy, Thucydides and the history of his age, Londra 1911. Intorno a P. in generale sono utili a consultarsi, benché antiquati: E. Filleul, Histoire du siècle de Périclès, Parigi 1873; A. Schmidt, Das perikleische Zeitalter, I-II, Jena 1877-79; E. Abbott, Pericles and the Golden Age of Athens, New York 1891. - P. e l'impero ateniese: J. M. Stahl, De sociorum Atheniensium iudiciis commentatio, Münster 1881; R. Dahms, De Atheniensium sociorum tributis quaestiones septem, Berlino 1904; H. Weber, Attisches Prozessrecht in den attischen Seebundsstaaten, Paderborn 1908; H. Rohde, De Atheniensium Imperio quid quinto quartoque saeculo sit iudicatum, Gottinga 1913; M. Romstedt, Die wirtschaftliche Organisation des athenischen Reiches, Weida i. Th. 1914; M. Ravà, Intorno ai tributi degli alleati di Atene, in St. it. di filol. class., 1930, p. 185 segg.; H. Nesselhauf, Untersuchungen zur Geschichte der delisch-attischen Symmachie, Lipsia 1933. - Sulla cronologia della pentecontaetia le basi furono poste da A. Schaefer, De rerum post bellum Persicum usque ad tricennale foedus in Graecia gestarum temporibus, Lipsia 1865. Una trattazione recente è in F. Taeger, Ein Beitrag zur Geschichte der Pentekontaetie, Stoccarda 1932. - Pel contrasto tra la politica di Cimone e quella di P.: G. Lombardo, Cimone, Roma 1934. - Per la spedizione d'Egitto: A. Momigliano, La spedizione ateniese in Egitto, in Aegyptus, X, 1929, p. 190 segg. - Per la strategia di P.: J. Pflugk-Harttung, Perikles als Feldherr, Stoccarda 1884; H. Delbrück, Die Strategie des Perikles erläutert durch die Strategie Friedrichs der Grossen, Berlino 1890. - Per la finanza periclea: E. Cavaignac, Études sur l'histoire financière d'Athènes au Ve siècle, Parigi 1908; A. T. Wade-Gery, in Journal of Hell. Stud., LI (1931), p. 57 segg.; W. S. Ferguson, The Treasures of Athena, Cambridge 1932; B. D. Meritt, Athenian Financial documents of the fifth century, Cambridge Ma., 1932; W. Kolbe, Kalliasdekret und "Sinking-Fund", in Sitzungsb. der preuss. Akad. der Wiss., 1933, p. 154 segg. - Sui precedenti della guerra del Peloponneso: E. Meyer, Forschungen zur alten Geschichte, II, Halle 1899; W. Kolbe, Thukydides im Lichte der Urkunden, Stoccarda 1930; H. Brauer, Die Kriegsschuldfrage in der geschichtlichen Überlieferung des Peloponnesischen Krieges, Diss., Münster 1933; H. Nesselhauf, Die Verhandlungen vor dem peloponnes. Kriege, in Hermes, LXIX (1934), p. 286 segg. - Sulle orazioni periclee di Tucidide: R. Zahn, Die erste Periklesrede, Borna-Lipsia 1934; K. Oppenheimer, Zwei attische Epitaphien, Berlino 1933; cfr. anche tucidide. - Per l'iconografia di P. v. J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, I, Monaco 1901, p. 106 segg.