MAZZOLENI, Pericle
– Nacque a Jesi il 26 dic. 1814 da Angelo e Laura Fabbri.
Il padre fu giureconsulto di valore e, sotto il Regno Italico, ricoprì la carica di presidente dei tribunali di Ancona. Durante la Restaurazione coltivò principî patriottici e tornò a segnalarsi agli esordi del pontificato di Pio IX come pubblicista liberale, collaborando con giornali marchigiani, a cominciare da Il Piceno che uscì il 17 luglio 1847; sotto la Repubblica Romana diresse il bisettimanale Il Democratico che, fin dal primo numero (3 apr. 1849), presentò un programma temperato, che esaltava la «guerra di popolo» ed era imperniato sui valori di indipendenza e libertà.
Conclusi gli studi di base, il M. attese, sull’esempio del padre, a quelli giuridici, frequentando la scuola di giurisprudenza di F. Bonacci e perfezionandosi poi a Bologna; coltivò pure gli studi letterari, grazie ai quali fu assunto come segretario privato del cavaliere D. Benucci a Napoli e poi presso il Banco Torlonia a Roma. Sposata la causa patriottica e avvicinatosi agli ambienti mazziniani, venne eletto nel 1848 al Consiglio dei deputati e, più tardi, all’Assemblea costituente repubblicana.
Designato deputato per l’ex delegazione di Ancona, votò, nella seduta dell’8-9 febbr. 1849, in favore della proclamazione della Repubblica; fu membro della commissione delle Finanze e commissario straordinario a Camerino; in aula intervenne nella discussione sul decreto che scioglieva i funzionari dal giuramento prestato sotto il governo pontificio (12 febbraio), relazionò sul progetto ministeriale relativo al credito per gli scavi del foro Romano (24 marzo) e si interessò della condizione di alcuni sacerdoti perseguitati e incarcerati dai superiori (9 giugno); si distinse pure nei combattimenti, preferendo le barricate all’incarico, assegnatogli dai triumviri, di commissario straordinario in Macerata. Il 4 luglio il M. fu uno dei 25 deputati marchigiani che firmarono la protesta contro l’invasione francese.
Dopo la caduta della Repubblica, esule a Parigi, si mantenne inizialmente dando lezioni di italiano. Politicamente, era rimasto in contatto con G. Mazzini, e dunque aderì al Comitato nazionale italiano, organismo creato per tenere in vita la prospettiva della rivoluzione repubblicana in Italia. Il legame si fece più stretto nel 1851, quando, trasferitosi a Londra, visse con Mazzini, M. Montecchi e M. Quadrio in una «casuccia rustica» posta all’estremità occidentale della città.
Divenne così intimo della famiglia Ashurst – che Mazzini aveva conosciuto in Inghilterra e iniziato a frequentare alla metà degli anni Quaranta – guidata dal patriarca William Henry (avvocato, libero pensatore e attivista politico) e vivacemente animata dalle sue quattro figlie, tra cui Emilie, la più devota a Mazzini, e poi andata in sposa a C. Venturi, e Caroline, maritatasi con il parlamentare James Stansfeld. Agli inizi del 1853 – partito Mazzini per la Svizzera per preparare il moto milanese del 6 febbr. 1853 – il M. lo sostituì nella ricezione della corrispondenza: un lavoro complesso che lo mise in contatto con A. Saffi, A. Herzen, L. Kossuth e altri patrioti: avendo il M. scritto di avere «tutto il mondo sulle sue spalle», Mazzini incominciò a soprannominarlo Atlante. Da parte sua, il M. sbrigò efficacemente l’intenso lavoro di segreteria e di corrispondenza e collaborò al Partito d’azione, al prestito nazionale e alle altre iniziative mazziniane dei primi anni Cinquanta; Mazzini non gli fece mancare qualche rimprovero, ma alla fine gli diede atto dell’ottimo lavoro svolto («ho avuti da te conti esatti e soddisfacenti», gli scrisse il 28 febbr. 1853).
Nel novembre 1853 il M. si ritirò a Saint-Hélier, capoluogo dell’isola di Jersey, nella Manica, che aveva accolto esuli da tutta Europa e dove ebbe modo di stringere relazioni familiari con A.A. Ledru-Rollin e V. Hugo; dovendo far fronte a difficoltà economiche continue, passò successivamente in Svizzera dove rimase tre anni, prima a Neuchâtel e, dal 3 genn. 1855, a Zurigo: qui una commendatizia di Mazzini per il direttore del collegio di Küssnacht gli fece ottenere un posto come insegnante di francese.
Tuttavia per il momento il M. non abbandonò il lavoro patriottico e si tenne in contatto con altri esuli mazziniani (F. Caronti, F. De Boni, P. Cironi); finalmente, nell’autunno del 1856 si spostò a Berna dove, oltre a insegnare in un istituto privato, diede pure lezioni di italiano a diplomatici inglesi e statunitensi.
Dopo un ultimo ritorno a Londra nel 1857, il M. decise di rientrare nella penisola e dimorò successivamente a Torino e Firenze, rinsaldando vecchie amicizie e creandone di nuove; nel giugno 1859 fu testimone dell’insurrezione popolare di Perugia contro le truppe papaline. Interruppe allora il rapporto con Mazzini e guardò fiducioso, alla stregua di altri patrioti, alla piega degli eventi che stavano collocando il Piemonte al centro della nuova azione patriottica. Nel 1859, all’indomani del trattato di Villafranca, fu inviato da L.C. Farini a reggere Cesena, città nella quale – dopo un breve periodo a Forlì – divenne intendente e si distinse come saggio amministratore e navigato politico, ricevendo la nomina a cittadino benemerito. Su decreto di L. Valerio del 29 sett. 1860 fu mandato ad Ascoli Piceno come commissario regio e ricoprì incarichi delicati presso la giunta governativa delle Marche.
Il nuovo Regno d’Italia ebbe nel M. un servitore esperto e fedele nel settore amministrativo: nei primi anni Sessanta il governo lo destinò dapprima come sottoprefetto ad Acqui, poi consigliere delegato di prefettura a Ravenna; nominato prefetto di Arezzo (1866-67), ricoprì tale carica anche a Ravenna (1867-71), Campobasso (1871-72), Vicenza (1872-77), Udine (1877), Ancona (1877-78), e infine a Roma. Nella capitale si era da tempo trasferito con la moglie, Emilia Fioretti (dalla quale ebbe un figlio, Alessandro) pur mantenendo affari e relazioni nelle Marche e in particolare ad Ancona, Macerata e Ascoli.
Assunta la carica di prefetto della capitale il 29 luglio 1878 in seguito alla formazione del primo ministero Cairoli, il M. si sentì rassicurato sia dall’orientamento di sinistra democratica della nuova compagine governativa, sia dalla direttiva del ministro dell’Interno G. Zanardelli che richiedeva un’imparziale conduzione degli affari amministrativi; così egli si dimostrò uomo di Stato e non di partito e mantenne un ruolo di mediazione nei rapporti istituzionali con il Municipio capitolino.
Secondo il nuovo prefetto l’ordine pubblico a Roma – con i clericali che si andavano rafforzando, ma si mostravano pure maggiormente disponibili ad alleanze con i conservatori – non destava particolari preoccupazioni, mentre impellente appariva la necessità di combattere l’apatia delle masse, la povertà, l’ignoranza e le difficili condizioni economiche, a suo parere tutte concause del diffuso malcontento sociale. L’autorità pubblica, a detta del M., era perciò chiamata non tanto a un’attività di repressione quanto a educare civilmente la popolazione secondo le nuove regole dello Stato liberale e a promuovere politiche di lavori pubblici. Ma il suo dirigismo liberale trovò ostacoli nei rapporti con la Deputazione provinciale e, più in generale, con il circondario della capitale che versava in una condizione desolante, dominato com’era da un granitico sistema di potere clientelare. Il suo intervento fu volto quindi a controllare i bilanci e a contenere abusi e illeciti da parte delle autorità locali, promuovendo un ricambio dei segretari comunali (e assicurandosi della qualificazione dei nuovi assunti). Contro i Comuni renitenti ricorse a misure drastiche cosicché, tra 1878 e 1879, furono sciolti nove consigli comunali e in altri dieci furono inviati ispettori; un’azione non meno incisiva il M. esplicò nel potenziamento dei servizi pubblici (istruzione, viabilità, sanità, opere pie). Esaurendo però le proprie energie nella revisione di conti e bilanci, l’azione prefettizia incise limitatamente sulla realtà locale, anche perché contro il «liberalismo educatore» del M. si appuntarono proteste e polemiche di una parte della stampa romana (con in testa Il Popolo romano) che rimproverò al prefetto l’eccessiva indulgenza verso i clericali, un certo disinteresse nei confronti di Roma e la mancanza di energia.
Nel febbraio 1880, A. Depretis, titolare dell’Interno nel terzo ministero Cairoli, sollevò il M. dall’incarico. Tempestivamente, il 15 febbraio, sopraggiunse la nomina a senatore per la 17ª categoria. Prestato giuramento il 21 febbraio, era sua intenzione rientrare a Jesi, dove aveva fatto ristrutturare «con passione e gusto» un suo casino di campagna, ma, il 15 marzo 1880, morì a Roma.
Fonti e Bibl.: Necr.: Il comm. P. M., in Corriere delle Marche, 16-17 marzo 1880; A. Moretti, Sulla salma del senatore P. M., Imola 1880; G. Guglielmi, Nelle onoranze solenni rese dalla città di Jesi al senatore P. M. il 10 maggio 1880, Jesi 1880; Ed. nazionale degli scritti editi ed inediti di G. Mazzini, Indici, II, Imola 1973, ad nomen; lettere del M. e un profilo biografico in Fedele Lampertico. Carteggi e diari 1842-1906, III, a cura di G. Fontana - R. Camurri (in corso di stampa); G. Leti, Roma e lo Stato pontificio dal 1849 al 1870, Ascoli Piceno 1911, pp. 382 s.; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Roma 1989, ad nomen; P. Salvatori, Un prefetto a fine carriera: P. M., in La prefettura di Roma (1871-1946), a cura di M. De Nicolò, Bologna 1998, pp. 229-240; R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Roma-Bari 2000, ad ind.; Studi sulla Repubblica Romana del 1849, a cura di M. Severini, Ancona 2002, pp. 44, 60, 75, 79, 81; L. Pupilli, La voce della stampa. Quotidiani e periodici nella Repubblica, in La primavera della nazione. La Repubblica Romana del 1849, a cura di M. Severini, Ancona 2006, pp. 197 s.; G. Gasperoni - R. Barchiesi, Jesi nel Risorgimento, a cura di G. Piccinini, Jesi 2008, pp. 33 s.