Vedi PERGAMO dell'anno: 1965 - 1973 - 1996
PERGAMO (Περγαμον, Pergamum)
Capitale del regno degli Attalidi nell'Asia Minore, uno dei maggiori centri culturali ed artistici dell'ellenismo.
Fino al III sec. a. C. fu una piccola fortezza sulla sommità di un alto colle (m 330) dominante la fertile valle del Caico e chiuso fra i torrenti Ketios e Selinus. Ivi l'eunuco Filetero, dipendente dal re Lisimaco, custodì la cospicua somma affidatagli di 9000 talenti. Dopo la morte di Lisimaco essa fu impiegata dai successori di Filetero, cioè da Eumene I (263-241 a. C.) e da Attalo I (241-197 a. C.), per costituire un regno indipendente, per difendersi dai Galati invasori dell'Asia Minore e per costruire una città di vera magnificenza. L'opera fu continuata da Eumene II (197-159 a. C.) e Attalo 11 (159-138 a. C.). Alla morte di Attalo III nel 133 a. C. il regno diventò provincia romana. P. fu ancora città prospera e popolosa fino alla distruzione da parte degli Arabi del 716 d. C. Nel Medioevo la fortezza fu ricostruita interamente con materiali antichi. Gli scavi furono iniziati nel 1873 da C. Humann e condotti prima per conto dei Musei di Berlino e poi dell'Istituto Archeologico Germanico. Gran parte delle sculture, fra cui quelle del grande altare, furono trasportate a Berlino; altre sono al museo di Istanbul.
A) Topografia. - La città, all'epoca del suo maggiore sviluppo, cioè nell'età romana, era divisa in due principali complessi edilizi, quello della pianura e quello della collina. Il primo, costruito nell'età impenale romana, non ancora scavato, comprendeva abitazioni, terme, l'anfiteatro e lo stadio più antico. Dal teatro un'ampia strada porticata conduceva all'Asklepieion, grandioso complesso di edifizi comprendenti il tempio di Asklepios, portici, un teatro, varie sale e una fonte salutare. Fiorì nel II sec. d. C. e fu illustre per l'opera del famoso medico Galeno.
La città ellenistica ha inizio dalla cinta muraria costruita da Eumene II in regolare opera isodomica ai piedi della collina e comprende tre gruppi di edifici: il primo dell'agorà inferiore e delle abitazioni, il secondo della fontana della città, dei ginnasi, dei santuari di Demetra e di Hera, il terzo della vera e propria acropoli con la reggia e i monumenti principali. Il complesso non si presentava con valore scenografico a chi si trovasse nel piano, perché, oltre alla cinta muraria di Eumene II, esistevano una intermedia di Attalo I e una più antica sulla sommità del colle, sicché la città aveva un carattere di fortezza. I tre nuclei erano collegati con una strada serpeggiante lastricata in trachite.
La porta principale della cinta eumenica era costituita da un passaggio a vòlta fiancheggiato da due torri immettenti in un cortile quadrato. La agorà inferiore era un grande rettangolo circondato da portici dorici e da botteghe; sul lato S il dislivello permise la costruzione di un piano inferiore pure porticato. I ginnasî furono eretti su tre terrazze parallele nel rapporto di altezza di m 12 l'una dall'altra. Nella prima si esercitavano i pàides, nella seconda gli èpheboi, nella terza i neòi. Nell'una il muro di fondo era ornato con nicchie e statue, nell'altra era un piccolo tempio tetrastilo dorico del II sec. a. C., l'ultima fu completamente rifatta nell'età romana. Il centro di essa è occupato da un portico a due piani di colonne corinzie; nel lato O sono varie sale e un tempio tetrastilo ionico, a N è un auditorium che poteva ospitare mille persone ed è la sala biabsidata per il culto degli imperatori; ad E sono terme disposte in undici ambienti. Sovrasta il complesso il recinto sacro di Hera con un portico, un'esedra, e un tempio dorico tetrastilo dedicato da Attalo II che per la posizione elevata ha aspetto scenografico. Una statua colossale acefala ivi ritrovata si ritiene simulacro di Zeus, ma potrebbe essere anche di Attalo II, sỳmbomos di Hera; essa ha ancora dinamicità e colorismo di gusto barocco, ma le pieghe hanno già una frigidità linearistica. Il contiguo santuario di Demetra esisteva nel 270 a. C. e fu ampliato da Apollonide moglie di Attalo I e poi dai Romani che, in età antoniniana, fornirono il tempio ionico in antis di un vestibolo corinzio. Esso è racchiuso fra portici e una scalinata, da cui si assisteva ai misteri.
Gli edifizi dell'acropoli guardano verso O, cioè verso la valle del Selinus, e sono disposti seguendo un arco di cui la corda sottesa è costituita dalla terrazza del teatro. La parte orientale del complesso, comprendente il palazzo reale, le caserme e gli arsenali con cui si raggiunge la sommità della collina, è chiusa dal muro della fortezza superiore. Nella parte occidentale sono invece il teatro e le terrazze, che gradatamente si elevano, del mercato, dell'altare, del recinto di Atena, del Traianeum. La divisione fra gruppi orientale e occidentale è data dalla strada lastricata già menzionata la quale entra nella fortezza per una porta, detta dell'acropoli. Sulla strada sono gli ingressi monumentali alle varie terrazze. La prima di queste contiene la più antica agorà porticata a un solo piano. Sul lato S, dove la strada piega a gomito e il dislivello è forte, la facciata è a tre piani, il primo con porte, il secondo con finestre, il terzo con pilastri. Nell'agorà è un tempietto in antis con colonne doriche dove le scanalature sono unite con ponticelli. Quattordici metri più in alto, collegata con una scala, è la terrazza dell'altare dedicato a Zeus e Atena Nikephòros che aveva certamente un pròpylon sulla strada, del quale però non si conosce l'aspetto.
Grande Altare. - L'altare fu eretto in marmo asiatico su un'area di m 36,44 × 34,20; su cinque gradini si eleva uno zoccolo potente dove, fra un'alta base sagomata e un cornicione fortemente sporgente è la fascia ad alto rilievo con scene della gigantomachia. A O lo zoccolo forma due spalle racchiudenti una scalinata di 20 m di fronte la quale conduce ad un cortile pavimentato. Sopra lo zoccolo e davanti alla scalinata è un colonnato ionico con un muro di fondo ornato da un fregio continuo in cui sono raffigurate le scene della vita di Telefo (v.), l'eroe fondatore di Pergamo. Secondo l'integrazione più comunemente accettata dell'iscrizione votiva, che è lacunosa, l'altare fu dedicato dal re Eumene II a Zeus e ad Atena Nikephòros. Taluno pone l'esecuzione nei primi anni del regno, il Kähler fra il 181 e il 159 a. C.
L'altare con la sua terrazza non fu costruito, infatti, prima del 190 a. C. perché, per renderne possibile la costruzione, furono abbattute le mura dell'acropoli che avevano molta importanza prima che Eumene II costruisse la cinta inferiore. È certo che queste ultime furono erette soltanto dopo la battaglia di Magnesia del 190 a. C. e, poiché è ovvio pensare che il monarca non si sarebbe privato della cinta precedente per costruire un altare se non quando avesse provveduto ad una nuova difesa, ne viene di conseguenza che l'altare è posteriore a quella data. L'anno dell'inizio della costruzione fu probabilmente il 181 a. C. quando furono istituite o rinnovate, secondo M. Segre (Hellenica, pubbl. da L. Robert, Parigi 1948, p. 102 s.), le feste Nikephòria per la corona d'oro della dea Atena, riconnettendosi così i Pergameni con la tradizione delle Panatenee ateniesi nelle quali si offriva ad Atena una corona d'oro per la vittoria sui giganti. Appunto per questo riferimento fu probabilmente scelto a decorare lo zoccolo dell'altare la gigantomachia, mito rappresentato da Fidia nel Partenone al posto d'onore fra le metope, ma che non compare più nelle decorazioni di monumenti dei secoli successivi. La gigantomachia del grande altare pergameno nel concetto ispiratore simboleggiava pertanto sia la vittoria della civiltà sulle barbarie, ossia degli Attalidi sui Galati, sia la rinascita della cultura di Atene nella nuova capitale del sapere, Pergamo.
Lo zoccolo era già finito e si era iniziata la costruzione del colonnato superiore quando si apportò una modificazione al progetto, e cioè fu deciso di costruire intorno al muro del portico un alto podio per doni votivi. Il podio, lungo quasi 100 m, non era certamente contemplato nel progetto iniziale perché fu appoggiato contro il muro quando questo aveva già la sua base sagomata, la quale rimase così nascosta. La decisione di arricchire l'altare col podio e col donano deve essere stata presa dopo qualche avvenimento glorioso; è verosimile che si tratti della vittoria su Perseo del 165 a. C.
Il fregio di Telefo fu costruito dopo lo zoccolo perché fu lavorato sul posto e probabilmente anche dopo il podio. La costruzione dell'altare non fu ultimata secondo il progetto originario perché non fu innalzato il colonnato interno del cortile, del quale si erano già preparati alcuni elementi architettonici, poi reimpiegati nel palazzo di Attalo II; inoltre le parti messe in opera da ultimo, ossia il colonnato sulla scala, ricevettero una lavorazione affrettata; anche il fregio di Telefo non fu del tutto rifinito. Il Kähler spiega tale fretta pensando che alla morte di Eumene II il successore Attalo II abbia voluto por termine in breve tempo alla costruzione dell'altare per dedicare le cure al nuovo palazzo. Per tutte queste ragioni la cronologia dell'altare si può ritenere stabilita fra il 181 e il 159 a. C. Essa contribuisce forse a datare anche il cosiddetto "piccolo donario pergameno" composto di molte statue alte due cubiti, di cui parleremo più innanzi.
L'altare di P. è ricordato da Ampellio (c. 14) e forse è da riconoscerlo nel "Trono di Satana" dell'Apocalisse di S. Giovanni (2, 113). Secondo il von Salis una menzione si troverebbe nel poemetto di Ausonio, la Mosella. Ivi (v. 307) fra sette sommi architetti, autori di grandi monumenti, è ricordato un Menekrates senza la citazione dell'opera da lui eseguita. Il von Salis pensa che si tratti del Menekrates che compare nell'iscrizione fra gli artisti dell'ala tre e riconosce in lui il padre adottivo degli scultori Apollonios e Tauriskos da Tralles i quali lavorarono a Rodi. Nell'ipotesi che Menekrates sia stato un rodio egli è di opinione che l'ispirazione alla composizione architettonica dell'altare pergameno gli sia venuta dalla scalinata del santuario di Atena a Lindo (v.) nell'isola di Rodi, che sta appunto fra le spalle di uno zoccolo sormontato da un portico. L'ipotesi non è verosimile per ragioni storiche e stilistiche e anche perché l'artista Menekrates, al quale si dovrebbe attribuire tutta la costruzione dell'opera, nell'iscrizione dell'altare appare in coppia con Dionysiades, ma collocato al secondo posto non al primo, sicché è evidente che gli era subordinato.
La composizione architettonica dell'altare non è condotta secondo i canoni delle proporzioni dell'arte greca, non solo di quelli classici, ma neppure dei canoni ellenistici. Il rapporto fra l'altezza dello zoccolo e quella del colonnato è infatti invertito rispetto a quello che generalmente si ritrova, perché l'altezza del portico è appena un terzo dell'altezza totale. Nell'altare dell'Asklepieion di Coo, della prima metà del sec. III a. C., dove già appare lo schema dell'altare pergameno, è esattamente il contrario e così negli altari di Magnesia e di Priene che sono imitazioni dell'altare di Pergamo. Non si possono dunque spiegare le strane proporzioni di questo monumento come una deviazione dai canoni classici dovuta a un gusto barocco e particolarmente asianico, ma occorre trovare una diversa giustificazione. Nell'Asia Minore, a Capo Posidone (ora Capo Monodendri) presso Mileto lo schema della grande Ara di Posidone, del VI sec. a. C., è quello che sarà ripetuto nell'altare pergameno, ossia è un alto zoccolo con la base e la cornice poderose e la scalinata centrale; manca peraltro il colonnato superiore. Da Pausania (v, 13, 9) sappiamo che a P. esisteva un altare di cenere come ad Olimpia. Non è escluso che la grande ara di P. altro non sia che la traduzione in una fastosa forma, voluta da Eumene II, del piccolo antico altare. Nella parte superiore del nuovo monumento l'architetto potrebbe aver conservato una caratteristica dell'altare più antico, ossia i pilastrini che contenevano l'ammasso delle ceneri, trasformandoli in colonne di modesta altezza. I pilastrini sono supponibili nella primitiva ara perché si trovano in un altare di cenere a Camiro.
La decorazione marmorea dell'altare fu rinvenuta frammentaria, murata in gran parte nelle fortificazioni bizantine. La ricomposizione del fregio della gigantomachia si deve a O. Puchstein e a R. Bohn che furono aiutati dagli scultori italiani Freres e Possenti. Essa fu resa possibile dal fatto che le lastre del fregio della gigantomachia erano numerate con cifre accoppiate, di cui una d'indice e l'altra di catena. Al di sotto del fregio sulla base erano iscritti i nomi dei giganti e quelli degli artisti; sulla cornice al di sopra del fregio i nomi degli dèi. Anche questi elementi resero possibile la ricostruzione che nel complesso è ben riuscita. Sulla decorazione plastica si parlerà in seguito quando si tratterà della scultura pergamena.
Santuario di Atena e altri monumenti. - La terrazza del tempio di Atena Poliàs Nikephòros era contigua ma 25 m più in alto. Il tempio, modesta opera in trachite, esastilo, dorico riferibile al tempo di Filetero in quanto ha il carattere tardivo delle tre metope negli interassi, fu rispettato come monumento vetusto, ma gli edifici costruiti all'intorno non si allinearono su di esso, bensì sui monumenti delle altre terrazze. Si tratta di un portico a due piani, dorico nell'inferiore, ionico nel superiore, disposti sui lati N-S ed E. Sulla strada principale era lo splendido propileo anch'esso a due piani con fregio ionico ornato da festoni e bucranî. Nella balaustrata sia dei propilei sia del portico interno sono raffigurate in rilievo armi greche, galliche e orientali di tipi diversi. L'insieme architettonico è di straordinaria levità e insieme di una ricchezza piena di eleganza; esso costituisce un caposaldo per la conoscenza dell'architettura dell'ellenismo, in quanto la cronologia è assicurata dall'iscrizione del propileo che menziona Eumene II. A questo monarca si deve la trasformazione dell'edilizia pergamena dalla trachite al marmo. Il suo predecessore Attalo I aveva innalzato nella terrazza gruppi scultorei celebranti le vittorie sui Galati; ne restano le basi, di cui una era di forma rotonda e sopportava numerose statue di dimensioni superiori al normale. La terrazza più alta è occupata dal Traianeum, tempio corinzio esastilo su alto podio, con profondo vestibolo, costruzione adrianea. Per ospitare il tempio la terrazza precedente fu ampliata verso O costruendo undici poderose concamerazioni a vòlta. Intorno erano portici. Di età romana è anche la terrazza del teatro sostenuta da un poderoso muro a cinque riseghe e contraffortato. Nella terrazza era un tempio esastilo ionico di età ellenistica, col fastigio del tempo di Traiano, dedicato a Dioniso Kathegemòn, protettore degli Attalidi. Dopo un incendio fu ricostruito agli inizî del III sec. e dedicato a Caracalla. Il teatro, di età ellenistica, aveva 83 ranghi di sedili di trachite e originariamente la scena in legno. Eumene II costruì la tribuna reale e i Romani la scena stabile in pietra.
L'ultimo palazzo reale, che rispondeva alla tipologia della casa con peristilio, fu costruito da Attalo II. Per completare la conoscenza del quadro storico ed urbanistico di P. si citano i grandi magazzini sulla sommità del colle con vasti depositi di proiettili sferici d'artiglieria, in pietra e l'acquedotto, parte in galleria parte all'aperto, uno dei maggiori dell'antichità.
B) Arte pergamena. - 1. - Scultura. La notevolissima produzione artistica di P. si comprende solo se inserita nel programma ambizioso degli Attalidi di costituire il più importante stato asiatico, tale da emulare per potenza e vigore d'arte l'egemonica Atene dell'età classica. E come Atene trovò i motivi ideali della sua preminenza nella gloria ottenuta per la vittoria sui barbari persiani, così Attalo I e i suoi successori posero a fondamento della potenza dinastica la gloria ottenuta nelle guerre contro i Galati che avevano invaso l'Asia Minore. Ma le analogie non vanno più oltre perché la gloria di Atene, cioè di una pòlis, vincitrice dei Persiani ispirò il grande Fidia, mentre quella degli Attalidi fu celebrata da artisti di diversa provenienza fra cui anche ateniesi. Il nuovo linguaggio celebrativo trasse origini dalla più recente esperienza dei ritmi centralizzati, quale ad esempio quello della Tyche di Eutychides, fiorì nel gusto del suo tempo delle espressioni coloristiche e dinamiche, e si alimentò anche nello studio degli antichi, ossia di Fidia e di Skopas. Il linguaggio non può essere definito peraltro classicheggiante, perché non si imitarono le creazioni dei due maestri, bensì si trassero dai caratteri essenziali delle loro opere ispirazioni per costruzioni di diversa sostanza, rispondenti al gusto passionale dell'ellenismo di mezzo. La grandiosità dei nudi fidiaci ritorna nelle opere pergamene ma trasfigurata nella sintassi coloristica dei volumi; l'espressione dolorante di Skopas diviene enfasi barocca. A rilevare il carattere celebrativo della scultura di P. sono l'erudizione espressa nel gusto per l'esotico e per gli aspetti patologici del reale e la precisione talora meccanica dei particolari; tale giudizio non deve peraltro condurre all'errore di ritenere l'arte di P. come una costruzione artefatta ed episodica, come si potrebbe dire di una lingua aulica. La violenza con cui si espresse ebbe origine dalla spontaneità e fu consentanea alle tendenze dell'epoca; né quell'arte fu esperienza localizzata e presto dimenticata perché il barocco di P. defluì nel virtuosismo veristico dell'ultimo ellenismo (v. rodi) il quale a sua volta influì sull'arte romana, senza contare che molti schemi e motivi, invenzioni e rielaborazioni della scultura e della pittura pergamena appaiono sia nella più tarda arte etrusca sia nell'arte romana.
Nomi di scultori attivi a P. sotto la dinastia degli Attalidi sono tramandati dalle iscrizioni e da Plinio (Nat. hist., xxxiv, 84) il quale ci ricorda che "le battaglie di Attalo e di Eumene contro i Galli furono rappresentate da Isigonos, Phyromachos, Stratonikos e Antigonos. Il primo nome non è noto mentre si trovano a P. altre iscrizioni col nome di Epigonos, scultore citato da Plinio (Nat. hist., xxxiv, 88) come autore di un tibicine e di un gruppo di una madre morta e di un fanciullo che l'accarezza. È probabile che il testo pliniano precedentemente riferito sia corrotto e che si debba leggere Epigonos anziché Isigonos, tanto più che il suo nome si integra, per l'identità dei caratteri epigrafici, anche su una base del donario di Attalo I nel recinto sacro di Atena Poliàs che, come si è detto, era composto di gruppi di Greci in lotta con Galati. Non è ben sicuro se il suo "tibicine" si debba identificare nell'archetipo del Gallo capitolino, certamente replica di un bronzo esistente nell'Asia Minore, perché il marmo è asiatico. Egli è caratterizzato come galata dal tipo etnico, dai forti zigomi, dalla chioma ispida, dai baffi, dal torques al collo. Ferito e caduto a terra siede sullo scudo di forma gallica e sulla tromba guerresca. Questa indicazione non è sembrata sufficiente a taluno per riconoscere nel Gallo capitolino una copia del tibicine di Epigonos, perché l'anatomia non appare sufficientemente curata per un grande scultore. In realtà l'invenzione è bella sia per il ritmo concentrato, sia per il rendimento dell'espressione psicologica del combattente ferito e agonizzante e non può essere di un artista minore.
Allo stesso donario di Attalo I apparteneva anche l'archetipo del Gruppo Ludovisi (Museo Nazionale Romano), pure di marmo asiatico, del Galata che, dopo avere ucciso la moglie s'infigge la spada nel petto, secondo un costume diffuso fra i barbari quando venivano sconfitti. Il gruppo, di costruzione piramidale, non ha una centralità tale per cui tutte le vedute siano utili, ma ha forza passionale espressa nell'impeto ascensionale, contrasto drammatico di luce ed ombra nell'anatomia e nel paneggiamento e forza realistica nel rendimento dell'aspetto barbarico dei volti e delle chiome. Ad esso si accosta per lo schema costruttivo e il vigore drammatico il gruppo di Menelao e Patroclo, detto del Pasquino dalla replica assai mutila che è su di un angolo di Palazzo Braschi a Roma; notevole differenza è però fra il Pasquino e il Gruppo Ludovisi nella grande cura con cui sono resi i particolari e nella minore corporeità. Ove si accetti l'attribuzione fatta dallo Schweitzer dell'archetipo ad Antigonos di Karystos, artista che ha lavorato a P. ed erudito letterato, oltre che scultore, si comprenderebbero la finezza e il senso di misura atticizzante dell'opera.
La rappresentazione è ispirata al libro xvii dell'Iliade per quanto non concordi esattamente con la narrazione omerica. Ivi il cadavere di Patroclo è sollevato e portato via da Menelao e da Merione, nel gruppo solo Menelao sostiene il cadavere; nell'ansiosa attesa dell'aiuto dei compagni d'armi, nella concentrazione dello sguardo, come di chi cerca di vedere attraverso la caligine, l'artista è stato peraltro aderente al testo omerico, poiché nel racconto dell'Iliade la battaglia per il cadavere di Patroclo si svolse in una oscura nebbia suscitata dagli dèi. Il contrasto fra la nudità giovanile del morto e il muscoloso corpo del maturo Menelao è reso con grande sapienza. Dalla pregevole ricostruzione dello Schweitzer si giunge con buona approssimazione alla rievocazione di una delle più belle creazioni dell'arte antica.
Per la somiglianza nel rendimento del nudo e del tipo esotico dei Galati si ricollega l'archetipo dell'Arrotino di Firenze, ossia dello Scita che arrota il coltello per depellare Marsia (v.) vinto nel canto da Apollo. Del Marsia appeso restano due serie di repliche, l'una d'intonazione più classica, l'altra che per il vigore coloristico potrebbe essere della scuola pergamena, ma non dell'artista dell'Arrotino. Il ritratto di Attalo I (v.) è di un misurato colorismo e ad esso Si può avvicinare il bell'Alessandro (v.) di P. (Altertümer von Pergamon, vii, tav. xxxiii). Nello stile delle sculture dell'altare pergameno è il cosiddetto Posidone (Alt. v. Perg., viii, tav. xxxvi), mirabile per l'impeto drammatico, per l'agitata espressione psicologica, per il trattamento coloristico dei particolari. Nell'età del grande altare pergameno l'esperienza del barocco era già pienamente formata e si esprimeva in ritmi ascensionali e tortili, in ampie masse a forte rilievo ben contornate dell'anatomia, con duri contrasti fra zone in ombra e zone in luce, in chiome e barbe a grosse ciocche serpentine, in espressioni psicologiche che raggiungono il più alto grado della passionalità, in pieghe tumultuose con andamenti ad elica, grossi rotoli trasversali di stoffa e profondi sottosquadri. Il carattere colto di quest'arte appare nella grande minuzia con cui sono resi i particolari degli abiti, delle armi o di animali o di mostri.
Accanto al fregio della gigantomachia del grande altare si devono collocare alcune statue di donne panneggiate sedute o in piedi, ritrovate sull'acropoli, fra le quali si può citare come uno degli esempi migliori la cosiddetta Tragedia (Alt. v. Perg., vii, tav. xiv) col chitone altocinto e la spada a tracolla. Due grossi rotoli di stoffa convergono sul fianco sinistro, le ampie pieghe dell'abito si allargano ai piedi formando una vasta base. La statua è in sostanza frontale ma l'impeto ascensionale si dichiara nella parte superiore più mossa. Possiamo immaginare su quel corpo una testa simile alla cosiddetta Bella testa di Pergamo (Alt. v. Perg., vii, tav. xxv) che è nei Musei di Berlino, con volumi accentuati e una calda espressione patetica.
2. - Si è già ricordato il "piccolo donario pergameno" come un complesso statuario contemporaneo al grande altare. Il donario, composto di figure di due cubiti di altezza, è citato da Pausania (i, 25, 3) come esistente sull'acropoli di Atene e dedicato dal re Attalo, senza precisare se si tratti del I o del II monarca di questo nome. Ad esso gli studiosi riferiscono circa 40 repliche marmoree che ornano varî musei d'Europa e soprattutto quelli di Venezia e di Napoli. Le repliche non sono di marmo pentelico o pario, come ci si dovrebbe attendere, bensì asiatico e quindi risalgono a originali che erano nell'Asia Minore.
L'ipotesi che questi fossero collocati sul podio di 100 m nel porticato superiore del grande altare pergameno attrae perché risolve i maggiori problemi che riguardano la cronologia, lo stile e l'entità del complesso. Sul lungo podio infatti potevano trovare ospitalità le numerose sculture del donario che, come si sa da Pausania, formavano quattro gruppi di combattenti, di dèi contro giganti, di amazzoni contro Ateniesi, di Persiani contro Greci, di Galati contro Pergameni. La grande somiglianza delle grafie figurative delle repliche che possediamo con quelle della decorazione plastica del grande altare sarebbe giustificata dalla contemporaneità e dall'appartenenza allo stesso centro artistico, inoltre si risolverebbe il problema cronologico. Si potrebbe infatti pensare che Eumene II avesse dedicato gli originali in bronzo a P. nel grande altare e che il suo successore Attalo II, il re menzionato da Pausania, ne avesse tratte delle repliche da dedicare sull'acropoli di Atene. Sarebbe anche lecito credere che egli avesse fatto una selezione di sculture non potendo certo l'acropoli ateniese, già colma di opere d'arte, ospitare un donario così vasto come quello che si trovava a Pergamo. Il fatto che gli originali in bronzo non erano ad Atene spiegherebbe come le repliche marmoree che possediamo siano di marmo asiatico anziché ellenico. Il complesso, per quanto espressione dello stesso gusto dei ritmi dinamici e della sintassi coloristica, non era stilisticamente omogeneo perché nelle copie sono linguaggi figurativi che seguono una tendenza realistica ancora stringata, altri che tendono all'idealizzazione, altri aderenti più strettamente al barocco pergameno quale l'abbiamo descritto. Queste diversità non ostano alla ipotesi che gli artisti del piccolo donario possano essere stati gli stessi del grande fregio, perché anche ivi si riconoscono diverse tendenze artistiche; senonché, per la disciplina la quale imponeva una intonazione generale più omogenea e per il fatto che il grande fregio fu ideato e disegnato da un solo maestro, le varie personalità appaiono colà meno chiaramente. Tutto ciò potrà essere meglio riconosciuto, quando sarà compiuto uno studio accurato sul complesso, noto fin dal Rinascimento, ma che non è stato ancora oggetto di attento esame.
3. - Il fregio della gigantomachia del grande altare era formato di più di 100 lastre alte m 2,30, ma molto strette, da 0,70 m a 1 metro. Questa circostanza, dovuta probabilmente alle condizioni della cava, impose una grave limitazione al maestro ideatore, ossia quella di evitare il più possibile gli schemi diagonali perché le suture non cadessero su parti preminenti del corpo, ad esempio sui volti; inoltre l'obbligò a disegnare il progetto del fregio con grande esattezza per dare l'ordinazione alla cava delle singole lastre con le misure precise. Il fregio fu lavorato fuori opera, in varî cantieri; ciò è dimostrato dal fatto che nessuna figura oltrepassa l'angolo e che in alcuni luoghi si nota lo sforzo compiuto per contenere le figure nell'esiguo spazio di una sola lastra. Ivi si deve collocare il limite di una sezione. Le lacune impediscono di stabilire la lunghezza e il numero delle sezioni lavorate in cantiere; con buona approssimazione si può pensare che fossero 12. Gli scultori che le lavorarono, secondo le iscrizioni purtroppo molto frammentarie giunte fino a noi, appartennero a diversi centri artistici, a P. stessa, ad Atene, a Tralles e forse anche a Rodi. Noi conosciamo i nomi di Dionysiades, Menekrates, Melanippos, Orestes e Theorretos e frammenti d'iscrizioni per almeno altri 7 artisti, ma cetto furono di più, seppure non sia accettabile l'ipotesi che ad ogni gruppo di figure abbia corrisposto uno scultore perché, in tal caso, si giungerebbe al numero eccessivo di 40 artisti. Dalle iscrizioni sappiamo che almeno 6 maestri lavorarono in coppia; possiamo immaginare altre coppie e possiamo anche pensare che nelle iscrizioni oltre a un maestro dirigente lavorassero uno scultore a lui subordinato e uno scalpellino buon decoratore. A quest'ultimo devono essere stati affidati i particolari accessorî, come armi, calzari, velli d'animali che ovunque appaiono rifiniti con precisione quasi meccanica. È probabile che gli scalpellini fossero tratti dalle squadre che eseguirono il bellissimo fregio delle armi, nella balaustrata del portico nel recinto di Atena. Gli scultori furono, fra maggiori e minori, 23 o 24 e per quanto di diverso temperamento si sentirono astretti ad una disciplina collettiva stilistica, sicché solo l'esame del competente rivela la diversità delle mani. Essa appare oltre che nei linguaggi più o meno pittorici, più o meno linearistici, nella diversa sensibilità per i volumi e nella maggiore o minore predilezione per l'impiego del trapano. Gli scultori più giovani dovettero essere quelli del lato occidentale, perché si deve a loro l'esecuzione del fregio di Telefo che, come si è detto, fu lavorato in posto e quando cioè lo zoccolo con la gigantomachia era già finito.
La necessità di progettare il fregio con la massima esattezza, la difficoltà dell'organizzazione del lavoro sia per l'ordinazione di lastre di esigua larghezza e tutte diverse fra loro, sia per la sorveglianza di così grande numero di esecutori sarebbero già elementi sufficienti per concludere che un solo maestro fu l'ideatore e il direttore della mirabile opera. Lo dimostra però anche il pensiero conduttore della composizione ch'è del tutto unitario. Il maestro, probabilmente aiutato da un mitologo e cosmologo, forse dallo stesso grande Cratete di Mallo, caposcuola dei grammatici pergameni, tenne presente solo in parte l'iconografia classica della gigantomachia dove compaiono i giganti e gli dèi maggiori aiutati da Eracle, come voleva la leggenda. Egli ha concepito l'epica lotta come una convulsione cosmica cui partecipano tutte le creature del cielo, della terra, del mare e dell'Olimpo; solo pochi giganti hanno aspetto interamente umano, i più hanno le estremità serpentiformi che li caratterizzano come figli di Gea, altri sono ancora più mostruosi. La narrazione parte dagli estremi confini del mondo, rappresentati nelle due spalle della scala dove sono l'Oceano, gli dèi degli abissi marini da un lato, e dall'altro Dioniso, viaggiatore infaticabile che giunse fino all'India col suo corteggio di divinità terrestri. Dal mare si sale attraverso la lotta delle divinità della notte fino all'Olimpo, che è sul lato E, e sempre all'Olimpo si giunge dal gruppo di Dioniso attraverso le divinità del cielo luminoso. Nell'un caso il collegamento è dato da Posidone cui seguono le nere figlie della notte, nell'altro da Rhea-Cibele e dai Cabiri, divinità asiatiche ossia dell'Oriente, donde viene Eos, l'Aurora. Le iscrizioni con nomi di divinità conservate dimostrano che esse erano raggruppate per genealogie.
Con l'aiuto di quelle iscrizioni e per congetture si riconoscono a partire dal fianco meridionale della scala, proseguendo lungo i lati S, E e N, e ritornando a O le seguenti divinità: le ninfe, Sileno, i satiri, Dioniso, Semele, Rhea-Cibele, Efesto, con Cabiró e Cadmilo, Eos, Helios, la titana Theia, Selene, i titani Astreo e Iperione (tutte divinità della luce), le titane Themis, Phoibe e Asteria (attestate dalle iscrizioni), la titanide Ecate, Artemide, Latona, Apollo e, nella vasta lacuna, altre divinità dell'Olimpo, ma fors'anche le Parche perché il nome Klotho appare nelle iscrizioni, Hera col cocchio trainato da quattro cavalli alati, ossia dai quattro venti, Eracle (al posto d'onore, perché secondo il mito gli dèi vinsero per il suo intervento), Zeus, Atena, Nike, Ares, Afrodite, Eros, Dione, varie costellazioni, fra cui sicure l'Engonasin (oggi Hercules), Orione, la Vergine e probabile Boote. Nel centro del lato N è la Notte che impegna come arma la costellazione dell'Idra, alla sua sinistra le sue oscure creature, l'Erinni e le Graie (perché nelle iscrizioni si trova il nome Enyò); delle Gorgoni forse solo Medusa. Appare quindi il brutto pesce Ketos, moglie di Phorkys il quale doveva precedere Posidone rappresentato sul carro trainato da ippocampi. Ultimi sono Tritone, Anfitrite, Nereo con la moglie Doris, l'Oceano e Teti.
Gli dèi sono accompagnati dai loro animali, impugnano le diverse armi date dall'iconografia; ove questa non esisteva altre armi furono attribuite per ragioni analogiche: Rhea-Cibele ha l'arco, come gli orientali, Phoibe, divinità della luce, una fiaccola così come Dione. Gli aspetti patologici del reale sono resi con attenzione e c'è anche il gusto dell'episodico, ma la ricchezza elegante delle vesti e dei particolari e la violenta corporeità dei nudi, concepiti come costruzioni d'arte, dimostrano che l'artista ideatore aveva tutt'altro che intenzioni veristiche. È probabile che si debba riconoscere come ideatore il Maestro dei gruppi di Zeus e di Atena che emerge su tutti per il vigore della personalità artistica; egli ha formato il suo linguaggio ispirandosi alle sculture partenoniche e anzi, per le figure di Zeus e di Atena, ha derivato lo schema dal Posidone e dall'Atena del frontone occidentale del Partenone. L'ipotesi che egli fosse un ateniese è ammissibile, purché si premetta che egli ha inserito la formazione avuta in patria nella nuova esperienza del barocco pergameno. Il maestro ha riservato a se stesso i gruppi delle due divinità principali ma non li ha collocati nel centro del lato E bensì verso un'estremita. Ciò viene spiegato col fatto che la porta del recinto non si trovava esattamente di fronte all'altare ma più a N, perché il muro in cui si apriva non era parallelo al monumento, come si è detto, ma seguiva il tracciato della strada dell'acropoli. Lo spettatore pertanto entrando nel recinto non centrava immediatamente con lo sguardo l'altare ma colpiva la metà N. Ivi l'autore ha posto appunto i gruppi principali.
4. - Il fregio minore, alto m 1,57, si stendeva per m 79 sulle pareti del portico superiore. Si sono ritrovati frammenti di 125 figure e si possono ricostruire m 34,60 di fregio. Dalle ricomposizioni del Robert e dello Schrader appare che tutta la bella storia delle avventure di Telefo (v.) era narrata nel fregio; dalla consultazione dell'oracolo da parte di Aleo re di Tegea alla nascita di Telefo, all'arrivo di Auge in Misia, seguita più tardi da Telefo, che non conosceva la madre, fino alla lotta di Telefo coi Greci sbarcati in Misia, alla riconciliazione con loro, alla fondazione di P. e dei culti della città. È il primo esempio di composizione narrativa continua nella scultura, derivata certamente da esempi della grande pittura e, come tale, costituisce il precedente più importante delle vaste raffigurazioni romane di avvenimenti storici. Nel fregio è evidente l'intenzione dell'artista di rendere illusivamente lo spazio ambientale, collocando le figure su varî piani, largheggiando nell'indicazione del paesaggio e costruendo figure più piccole nella parte più alta del rilievo e maggiori in quella inferiore, in modo da raggiungere l'effetto della lontananza. Per tale procedimento pittorico il fregio di Telefo si distingue da quello maggiore della gigantomachia, dove le figure non sono immerse nel paesaggio ma sono rilevate su un fondo neutro; sarebbe peraltro errato trarre da questa diversità argomento per riconoscere nelle due composizioni l'espressione di scuole diverse e addirittura antitetiche. Il fregio di Telefo fu opera di scultori più giovani di quelli della gigantomachia e quindi non esistettero differenze di indirizzo artistico; esso fu reso con una grafia figurativa pittorica perché doveva idealmente sostituire dei dipinti; quello della gigantomachia fu un rilievo tettonico, cioè composto con figure di uguale altezza su un fondo neutro, perché era in indissolubile unità architettonica con lo zoccolo. Una composizione pittorica in cui il fondo si perde, per effetto illusivo, distrugge la struttura del supporto quindi nessun artista lo adotterebbe in un elemento portante come uno zoccolo. Dalle due diverse destinazioni deriva la diversità dei due fregi. A dimostrare tuttavia come anche i maestri del grande fregio, per la temperie passionale in cui vivevano, consideravano il rispetto del fondo tettonico come una costrizione e sentissero il bisogno di liberarsene stanno la corporeità delle figure, che è eccessiva ove si consideri il fregio nell'economia della composizione architettonica, le frequenti impostazioni oblique dei corpi e, ancor più chiaramente, quel modo, che più volte si ritrova, di staccare dal fondo le immagini col lavoro del trapano. Sul fianco sinistro della scala, dove manca la base inferiore, una figura sembra uscita del tutto dal fondo ed è veramente inginocchiata su un gradino.
5. - Dell'età del fregio di Telefo è una bella testa di giovane (Alt. v. Perg., vii, tav. xxxiv), dal modellato morbidissimo e dall'espressione patetica contenuta in una misura classicheggiante. Di questo tempo fu anche l'artista pergameno Menas che scolpì una statua di Alessandro ritrovata a Magnesia sul Sipilo.
Nella seconda metà del II sec. a. C. a P., come altrove, si seguì il gusto neoclassico, che si espresse anche in forme arcaistiche, ma con volumi più ampi di quelli della corrente neoattica. Tale è una bellissima figura di danzatrice (Alt. v. Perg., vii, 1, p. 23). Ritornarono in quel tempo gli schemi di figure appoggiate scomparsi durante il barocco. Così è ad esempio l'Ermafrodito. Fra le copie di opere d'età classica ritrovate a P. vanno ricordate l'Hermes propỳlaios di Alkamenes e l'Atena Parthènos fidiaca, più rielaborazione che replica. Nel I sec. a. C. si pone il gruppo di Eracle che libera Prometeo (Alt. v. Perg., vii, tav. xxxvii), per la sua frontalità e la composizione paratattica. Si pensa che sia un monumento votivo per Mitridate Eupatore (88 a. C.). Dell'età romana sono, fra l'altro, ritratti. Ne va citato uno molto bello di Domiziano (Alt. v. Perg., vii, 2, p. 280).
6. Pittura. - Sappiamo che nel programma culturale degli Attalidi fu compresa anche la valorizzazione della pittura, che si formò una grande collezione di quadri e che artisti pergameni furono mandati in Grecia per copiare pitture. Un piccolo dipinto pompeiano, dove un guerriero riccamente armato e coronato alza insieme a Nike un trofeo, deriva probabilmente da un dipinto pergameno dove il generale vincitore era Attalo I; una celebre pittura ercolanese, quella del ritrovamento di Telefo da parte di Eracle in presenza della personificazione dell'Arcadia, si riferisce sia per il soggetto sia per la grandiosità dei nudi e del panneggiamento a un dipinto pergameno.
Da un ciclo pittorico col mito di Telefo esistente a P. derivano con probabilità dipinti pompeiani, fra cui uno della Casa dei Vettii, che rappresentano Auge scoperta da Eracle. Un altro ciclo pittorico di artisti pergameni fu fatto eseguire da Eumene II e da Attalo II, in onore della loro madre Apollonide, nel tempio a lei dedicato a Cizico, sua patria. Era anche questa arte celebrativa come appare dalla descrizione contenuta in 19 epigrammi i quali, sotto il nome di Carmina Cyzicena, si trovano nell'Anthologia Palatina. A partire dall'angolo S-O del tempio erano rappresentati appunto 19 esempî di pietà filiale, fra i quali appariva anche quello di Romolo e Remo che salvavano la madre Silvia.
Senza poter stabilire la patria dei pittori che lavorarono a P., dallo studio delle tarde derivazioni popolari, contenute nei dipinti pompeiani ed ercolanesi e nei rilievi delle urne etrusche, si può intravvedere che, come per la scultura, così per la pittura il fervore di attività artistica voluto dagli Attalidi agì sui maestri indirizzandoli verso la formazione di un linguaggio intensamente coloristico, dinamico e insieme pomposo. Per quanto riguarda i mosaici va ricordato che Sosos eseguì a P. il suo asàrotos òikos, imitato nell'età imperiale romana. Hephaistion firmò un mosaico pavimentale del palazzo di Attalo II. I frammenti musivi ritrovati nei palazzi reali pergameni rivelano maturità artistica e una sensibilità potentemente coloristica che in parte ci illumina sugli aspetti della contemporanea pittura. È stato dimostrato (Wellmann, Buberl) che i disegni di piante medicinali contenute nei migliori codici bizantini dell'opera di Dioscuride (Vienna, databile al 512 d. C., Napoli) risalgono alle illustrazioni del tardo ellenismo, i cui modelli sono da cercarsi nell'ambito dell'arte pergamena tarda, specialmente per quanto riguarda l'erbario del medico Kratenas.
Bibl.: La pubblicazione dei ritrovamenti pergameni sta nella grande collezione: Altertümer von Pergamon, Belrino, di cui sono comparsi i seguenti volumi: I, A. Conze e coll., Stadt u. Landschaft, i, 1912; 2, 1913; 3, 1913; II, R. Born, Das Heiligtum der Athena Polias Nikephoros, 1885; III - i. J. Schrammen, Der grosse Altar, Der obere Markt, 1906; 2. H. Winnefeld, Die Friese des grossen Altares, 1910; IV, R. Born, Die Theaterterasse, 1896; V, i. G. Kawerau-Th. Wiegand, Die Paläste der Hochburg, 1930; 2. H. Stiller, Das Traianeum, 1895; VI, P. Schazmann, Das Gymnasium, 1923; VII, F. Winter, Die Skulpturen, 1908; VIII, M. Frankel, Die Inschriften von Pergamon, i, 1890; 2, 1895; IX, E. Boehringer-F. Krauss, Das Temenos für den Herrscherkult, 1937; X, A. von Szalay-E. Boehringer, Die Hellenistischen Arsenale, 1937. Inoltre: A. Bayatli, Bergama Tarihindi Asklepion, Jznur 1947.
Per la storia delle scoperte si veda: C. Schuchhardt - Th. Wiegand, Der Entdecker von Pergamon; C. Humann, Ein Lebensbild, Berlino 1930.
Lavori complessivi sono: M. Collignon, Pergame, Parigi 1908; W. von Massow, Führer d. das Pergamonmuseum, Berlino 1932; W. Zschietschmann, in Pauly-Wissowa, XIX, i, 1937, c. 1235 ss., s. v. Pergamon; E. Hansen, The Attalids of Pergamon, Ithaka 1947.
Per la datazione delle costruzioni di Eumene: A. Schober, in Öster. Jahreshefte, XXXII, 1940, p. 151 ss.
Per il grande fregio si vedano: C. Robert, in Hermes, XXXXVI, i, p. 217 s.; Kat. Mus. zu Berlin, Beschr. d. Skulpt. aus Pergamon, I Gigantomachie; A. von Salis, Der Altar von Pergamon, Berlino 1912; C. Schuchhardt, Die Meister des grossen Frieses von Pergamon, Berlino 1925; M. Falkner, in Öster. Jahreshefte, 1946, p. i; H. Kähler, Der grosse Fries von Pergamon, Berlino 1948; D. Thimme, in Amer. Journ. Arch., 1956, p. 345 s.; G. Bruns, Der grosse Altar von Pergamon, Berlino 1949; A. Schober, Die Kunst von Pergamon, Innsbruck-Vienna 1951; E. Rohde, Pergamon, Burgberg und Altar, Berlino 1961; E. Schmidt, Der grosse Altar zu Pergamon, Berlino 1961; H. Luschey, Neue Funde zum Fries von Pergamon, in Berlin. Winckelmannspr., 1962, nn. 116-117.
Per le sopravvivenze della gigantomachia pergamena: G. Kleiner, in Berl. Wincklemannspr., 1949. Per il piccolo fregio: H. Schrader, in Jahrbuch, 1900, p. 97 s.; W. Klein, Vom antiken Rokoko, Vienna 1921. Per la scultura pergamena: G. Mendel, Mus. Imp. Ottomans, Cat. des Sculptures grecques etc., Costantinopoli 1912; M. Schede, Meisterwerke d. türk. Mus. zu Konstantinopel, Berlino 1928; G. Krahmer, in Röm. Mitt., 1923-24, p. 138 s.; id., 1925, p. 67 s.; id., in Jahrbuch, 1925, p. 183 s.; id., in Nachr. d. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, 1927, p. 53 s.; H. Horn, Stehende weibl. Gewandstatuen, in Röm. Mitt. Ergänzungsb., 2; A. Schober, in Jahrbuch, 1938, p. 136 s.; id., in Öster. Jahreshefte, 1938, p. 142 s.; L. Laurenzi, in Arti figurative, I, 1944, p. 7 ss. Per i due donarî dei galati si vedano: P. von Bienkowski, Die Darstellungen d. Gallier in der hellenist. Kunst, Vienna 1908; A. Schober, in Röm. Mitt., 1936, p. 104 ss.; id., ibid., 1939, p. 82 s.; B. Schweitzer, in Abh. d. sächs. Akad. d. W., XXXXIII, 1936 (soprattutto per il gruppo del Pasquino); R. Horn, in Röm. Mitt., 1937, p. 140 s. Per la pittura: W. Klein, Gesch. d. griech. Kunst, Lipsia 1907, III, p. 138 s.; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichn. d. Gr., II, par. 891; G. E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Roma-Milano 1929, p. 42 s. Miniature: M. Wellmann, in Hermes, XXXIII, 1898, 374; P. Buberl, Die antiken Grundlagen der Miniaturen der Wiener Dioskurideskodex, in Jahrbuch, LI, 1936, p. 144 ss.
(L. Laurenzi)
Iconografia. - La personificazione di P. appare sulle monete della città associata di preferenza alla personificazione di Smirne, rappresentata come amazzone: sulle serie dell'età di Caracalla con la leggenda Σμυϕναίων ῾Ομόνοια Περγαμηνῶν P. porge la mano a Smirne, è eretta di profilo a sinistra, ha la corona turrita, un lungo chitone e il peplo e si appoggia allo scettro. L'iconografia è assai simile a quella della dea della città di Perinto (v. perinthos).
Bibl.: Höfer, in Roscher, III, 2, 1902-1909, c. 1959, s. v., n. 2. Per le monete: B. V. Head, Catalogue of the Greek Coins of Jonia, Londra 1892, p. 305, nn. 501-502, tav. XXXIX, 9; G. Macdonald, Catalogue of Greek Coins in the Hunterian Collection, University of Glasgow, II, Glasgow 1901, p. 391, n. 287.
(A. Bisi)