perdono
Nonostante la limitatezza delle occorrenze, è attestato per un campo semantico più ampio di quello del verbo ‛ perdonare ' (v.).
Nella sua accezione più frequente, indica la rinuncia, suggerita da un sentimento d'indulgenza e di comprensione, a punire chi si è macchiato di una colpa, e implica quindi l'idea che il male commesso non sia grave, anche se la coscienza del colpevole ne avverte rimorso. Individuate le cagioni che distraggono l'uomo dall'amore per la scienza, D. osserva che due di esse, e cioè l'inadeguata attitudine fisica ad affrontare gli studi e il peso delle cure familiari e civili, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne (Cv I I 5): locuzione, quest'ultima, che per il fatto stesso di presentarsi nella forma di una dittologia sinonimica, conforta la definizione semantica ora data. Lo stesso valore attenuato il vocabolo ha in IV XXVI 14 lo adolescente... per minoranza d'etade lievemente merita perdono, nell'analogo esempio del § 12 e in Pg V 21 Che potea io ridir, se non " io vegno "? / Dissilo, alquanto del color consperso / che fa l'uom di perdon talvolta degno. Virgilio ha rimproverato D. di aver prestato orecchio con eccessiva e inopportuna attenzione alle parole di alcuni spiriti negligenti: lieve la colpa e vivo il pentimento del poeta, attestato dal suo rossore; e sono proprio questi due elementi a determinare, anche qui, il significato esatto del sostantivo.
In Rime CIV 88-90 D. fa un cenno fuggevole a una sua colpa contro i Fiorentini, della quale si dichiara pentito; lo stesso motivo è ripreso nel secondo congedo della canzone, quando D. esprime la speranza di vedersi rimessa la colpa, purché i suoi concittadini ricordino che (v. 106) camera di perdon savio uom non serra, / ché 'l perdonare è bel vincer di guerra. Una sottile esperienza retorica, rilevabile nell'uso della figura etimologica e nel ricorso alla topica metafora della ‛ camera ', presiede alla costruzione dei due versi; anche per questo, p. acquista maggior peso e assume un valore espressivo più intenso di quello constatato negli esempi precedenti.
In relazione all'atto religioso di rimettere i peccati p. compare una sola volta, e anche qui in senso estensivo: in Pg XIII 42 è chiamato passo del perdono il luogo dove principia la scala che sale dal secondo girone a quello successivo, il punto cioè dove l'angelo, cancellando dalla fronte di D. il P corrispondente all'invidia, ne consacra l'effettuato perdono.
Come ‛ perdonare ' (v.) può avere il valore di " far grazia ", " condonare ", così la locuzione ‛ aver p. ' assume il significato di " essere risparmiato ", in Rime XC 67 gli spiriti miei son combattuti / da tal [la donna amata] ch'io non ragiono, / se per tua [di Amore] volontà non han perdono; e si confronti a riscontro Guittone Amor merzé 3 " Lasso, morte perdona om per merzede / a quel che di morir servito ha bene ".
Analogamente, secondo un'ipotesi formulata dal D'Ovidio e ripresa da Scartazzini-Vandelli ma esplicitamente respinta dal Chimenz, p. avrebbe il senso di " scampo " e non quello di " remissione ", in Pg I 12 quel suono / [della lira di Calliope] / di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono, " persero ogni speranza di trovare scampo ".
Come risulta dalla chiosa del Buti (" stanno a' perdoni, cioè delle chiese, dove vanno le persone per li perdoni "), è usato come sinonimo di ‛ perdonanza ' (v.) con riferimento a quei santuari ai quali accorrevano i pellegrini per lucrare determinate indulgenze, dette anch'esse ‛ perdoni ' o ‛ perdonanze ': Pg XIII 62 Così li ciechi... / stanno a' perdoni a chieder lor bisogna.
Bibl.-F. D'Ovidio, Nuovi Studii Danteschi, I: Il Purgatorio e il suo preludio, Milano 1906, 9.