Percorsi orientali di scrittura femminile
Tentare di delineare gli sviluppi più recenti di una produzione letteraria, partendo da una prospettiva di genere, comporta l’inevitabile rischio di racchiudere la scrittura femminile all’interno di un universo letterario separato e non osmoticamente comunicante con la sua controparte maschile. Se poi quella analizzata è la produzione di Paesi di area o influenza islamica, ci si imbatte in una categoria ancora più complessa. Il cosiddetto mondo islamico – seppure si restringa, come in questo caso, il punto d’osservazione ai soli Paesi musulmani del Vicino Oriente – è attraversato da profonde differenze linguistiche, storiche, politiche, culturali, come anche religiose, le quali, però, soprattutto in Occidente, sono troppo spesso ignorate a favore di approcci semplicistici e riduttivi. È opinione diffusa, per es., che le società islamiche siano sclerotiche e refrattarie alla modernità e che releghino le proprie donne in un mondo subalterno e marginale, dove poco spazio rimane anche alla scrittura, se non quando essa si esprime in termini di denuncia contro l’oppressione femminile. Tali approcci, se da una parte continuano a cedere terreno all’esotismo o ad alimentare paure e pregiudizi, dall’altra assumono erroneamente l’islam quale unica possibile chiave di lettura, restituendone un’immagine monolitica e distorta.
Parlare di scrittura femminile in aree in cui l’islam rappresenta la tradizione religiosa e culturale prevalente, significa senz’altro riferirsi a società in cui le donne – che, peraltro, a volte musulmane non sono, e se lo sono, spesso non si definirebbero innanzitutto come tali – sperimentano tuttora varie dimensioni di esclusione, oppressione e marginalità. Questa condizione, tuttavia, va inquadrata all’interno di contesti che sono solidamente patriarcali, ma anche socialmente ed etnicamente gerarchizzati, e le cui norme comportamentali, più che derivare unicamente dalla religione, trovano piuttosto in essa un’autorevole giustificazione e un efficace strumento di diffusione. Partendo da quest’ottica, dunque, è possibile prescindere da analisi condotte attraverso la sola lente dell’islam o da categorizzazioni letterarie basate meramente sull’appartenenza religiosa, e tracciare, invece, una linea di contiguità tra la tanto esecrata ‘condizione della donna musulmana’ e analoghe dinamiche di marginalizzazione femminile che caratterizzano altre società di stampo patriarcale o comunità in cui l’appartenere a una classe sociale inferiore o a una minoranza etnica o religiosa costituisce una discriminante. Allo stesso modo, analogo potrà intendersi il ruolo fondamentale che la letteratura ha avuto, e continua ad avere, nel dare voce alle donne in situazioni di marginalità.
Nuove voci, recenti tendenze
Sin dal loro affermarsi sulla scena letteraria, tra la seconda metà del 19° e l’inizio del 20° sec., le scrittrici del Vicino Oriente islamico hanno sfruttato lo spazio di manovra offerto dalla letteratura soprattutto per ridefinire la propria posizione nella sfera pubblica e privata, minando dall’interno, e con diversi livelli di consapevolezza e attivismo politico, il monolitismo del sistema patriarcale. Per le pioniere della letteratura al femminile ricorrere alla scrittura usando i nuovi generi letterari importati dall’Occidente – innanzitutto il romanzo e il racconto – cominciò a profilarsi sin da subito quale mezzo per eludere la fissità di un ruolo determinato dalla propria appartenenza a un genere e, al tempo stesso, rivendicare la parola ribadendo in primo luogo una tale specificità (M. Cooke, Arab women writers, in Modern Arabic literature, ed. M.M. Badawi, 1992, pp. 443-62).
In tempi più recenti la scrittura femminile ha cominciato progressivamente a rappresentare molto di più che un’eco letteraria di problematiche di genere, per svelare le molteplici potenzialità espressive che la letteratura prodotta dalle donne può assumere sia sul piano formale sia per quanto concerne il dilatarsi delle tematiche e delle prospettive narrative. Da questo punto di vista, appare significativo il fatto che molte autrici delle ultime generazioni siano accomunate da un fermo rifiuto a essere relegate in un ambito letterario esclusivamente femminile o femminista, mentre il loro, pur frequente, condurre la narrazione in prima persona, riversare nei loro scritti la propria esperienza biografica e indagare tematiche intrinsecamente connesse all’‘essere donna’ – la maternità, il rapporto con il proprio corpo e la sessualità, la presenza/assenza maschile, il peso delle norme e delle aspettative sociali – è rivendicato quale naturale trasposizione letteraria di un punto di osservazione legato a una imprescindibile identità di genere.
Quanto all’esplorazione di tematiche che prescindono da dimensioni più propriamente connesse alla subalternità femminile, la produzione letteraria delle scrittrici del Vicino Oriente appare, invece, tuttora inestricabilmente legata ai diversi contesti sociopolitici e culturali in cui le varie scrittrici si trovano a vivere e a operare. Essa va, pertanto, valutata tenendo conto non solo di tali diversità, ma anche del profondo condizionamento che questioni di carattere politico e sociale, così come le relative rivendicazioni che ne conseguono, hanno da sempre esercitato sugli esiti delle singole letterature nazionali. Partendo da questa prospettiva, nell’analizzare le più recenti tendenze della letteratura femminile vicinorientale, non si può non tener conto di come, in passato, elementi esterni abbiano fortemente influenzato l’evolversi dei vari discorsi letterari. In Paesi come l’Egitto, il Libano o la Palestina, per es., la produzione letteraria femminile è stata profondamente segnata dal dominio coloniale e dalle lotte per l’indipendenza nazionale, accogliendo spesso, e in varia misura, le istanze di protesta contro la penetrazione e l’egemonia politica e culturale esercitate dai Paesi colonizzatori (Intersections, 2002, pp. XX-XXI). In altri Paesi come la Turchia, invece, la scrittura femminile, muovendo i suoi primi passi sotto gli auspici del nuovo Stato repubblicano, fondato da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, ha a lungo sostenuto la necessità della modernizzazione così come i principi del laicismo e del nazionalismo su cui si basava l’ideologia kemalista, difendendo un modello di ‘femminismo di Stato’ imposto da un’élite maschile e concepito in modo da non intaccare le strutture patriarcali della società (Saraçgil 2001).
Attualmente, tuttavia, la propria realtà esterna di riferimento si configura per molte scrittrici soprattutto quale punto di partenza, e i loro laboratori di scrittura diventano spesso spazi da cui condurre rappresentazioni e analisi che, pur restituendo i contorni di specificità locali e individuali, tradiscono al tempo stesso l’urgenza di superare quei confini e trasmettere messaggi più universali.
Uno dei tratti più interessanti – ed è questa la prospettiva che si intende qui proporre – che informa gli scritti di molte autrici contemporanee è, del resto, il costante tentativo di scardinare e ridefinire il concetto stesso di appartenenza, quando tale appartenenza sottende un’adesione univoca e acritica, sia essa a un genere, a un ruolo, a un gruppo, a una nazione, a una causa, a una lingua. Nel farlo, varie scrittrici si sperimentano con una pluralità di contenuti e forme narrative che riflettono l’estrema diversità dei loro percorsi di vita e altrettanti modi diversi di utilizzare la parola scritta e di intenderla. Alcune scrittrici, come nel caso di molte giovani saudite, si impadroniscono del discorso letterario sulla sessualità proponendo di sé un’immagine difficilmente collocabile all’interno della loro società d’origine così come negli orditi della retorica occidentale sulla donna musulmana. Quando a fare da sfondo alla scrittura vi è il protrarsi di dolorosi e irrisolti conflitti come quello israelo-palestinese, altre autrici sottraggono la letteratura alle logiche della militanza ridefinendola quale ricerca individuale di un percorso alternativo di sopravvivenza. Vi sono scrittrici che, invece, ridisegnano gli incerti confini del proprio appartenere a un Paese esplorando la dimensione liminare dell’esilio. Per altre, infine, la lingua stessa diventa un mezzo mediante cui rivendicare l’esigenza di una pluralità espressiva o attraverso il quale rivelare l’inadeguatezza delle costruzioni identitarie che si fondano su base nazionalistica o religiosa. Resta costante, per tutte, l’eccentricità del punto d’osservazione.
Scrivere il corpo
Parlare di letteratura femminile in Paesi come l’Arabia Saudita trova una sua ragion d’essere, e sembra particolarmente pregnante, se si considera il peculiare modello organizzativo di questa società. Sebbene nel Regno saudita sia stato promosso negli ultimi decenni un progressivo e irreversibile processo di inclusione delle donne nell’ambito della sfera pubblica, volto a garantire loro l’accesso all’istruzione così come la possibilità di affermarsi professionalmente al di fuori delle mura domestiche, è stata mantenuta pressoché intatta un’organizzazione sociale basata ancora su una rigida separazione dei sessi. Le donne saudite gravitano in un universo parallelo dotato di luoghi (ospedali, scuole, università, ma anche biblioteche, uffici, banche) riservati esclusivamente a loro (I. Camera d’Afflitto, introduzione a Rose d’Arabia, 2001, pp. 8-9), mentre la loro visibilità pubblica continua a essere offuscata dall’obbligo di indossare l’abāya, il lungo manto nero che ne avvolge anonimamente il corpo, celandolo dalla testa ai piedi. Nonostante questa apparente immobilità sociale, considerata del tutto anomala anche dagli altri Paesi arabi, il ruolo tradizionale della donna viene comunque continuamente rimesso in discussione attraverso vivaci dibattiti nei circoli e sulla stampa locale e, recentemente, anche sul web. Negli ultimi anni, peraltro, si è registrato un audace irrompere sulla scena letteraria di una nutrita schiera di scrittrici, le cui opere rafforzano il plasmarsi di una fioritura letteraria timidamente emersa nella penisola araba solo a partire dagli anni Sessanta del 20° sec. e, dunque, relativamente giovane rispetto alle più consolidate tradizioni letterarie del resto del mondo arabo.
E la letteratura, da questo punto di vista, sta pienamente sfruttando la possibilità di farsi portavoce di bisogni e rivendicazioni non solo emozionali ma anche di tipo politico e sociale. Scrive Isabella Camera d’Afflitto, curatrice della prima raccolta di racconti di scrittrici saudite pubblicata in Italia: «Nei paesi in cui non esiste ancora una forma di partecipazione politica delle donne, la letteratura viene subito trasformata in un foro, le cui istanze seppur limitate e camuffate da espedienti letterari, forniscono alle interessate la speranza o l’illusione di una partecipazione attiva alla vita del paese, con l’intima convinzione di conseguire diritti ancora negati» (introduzione a Rose d’Arabia, 2001, p. 10). Al tempo stesso scrivere rappresenta per molte donne la possibilità di proiettare e restituire, anche al di fuori del proprio Paese, una diversa, e talvolta disorientante, immagine di sé.
Emblematico, da questo punto di vista, il grande successo internazionale riscosso dal romanzo opera prima della giovane scrittrice saudita Rajaa Alsanea (Raǧā῾ al-Ṣāni῾, n. 1980) Banāt al-Riyāḍ (2005; trad. it. Ragazze di Riad, 2008), divenuto in breve tempo un caso letterario internazionale. Affidato dall’autrice per la stampa a una casa editrice libanese – come spesso sono costretti a fare scrittrici e scrittori sauditi che sfuggono in tal modo alle strette, seppur non codificate, maglie della censura di Stato – il romanzo è stato inizialmente vietato dalle autorità del Regno, sebbene copie di esso abbiano immediatamente cominciato a circolare sul mercato nero. La storia è quella di quattro giovani studentesse universitarie appartenenti a famiglie privilegiate della capitale saudita che si dibattono tra l’esigenza di dar voce al proprio desiderio di amore, alle proprie pulsioni sessuali, al bisogno di affermazione sociale e la necessità di non superare i limiti loro imposti dalle regole della tradizione culturale e religiosa della società in cui vivono. Nel romanzo, del resto, anche sul piano formale, l’audacia dei contenuti viene arginata dal ricorso a una voce narrante la cui identità non viene mai svelata, mentre le vicende e le riflessioni delle protagoniste sono raccontate sotto forma di e-mail, quasi a ricreare uno spazio di scrittura privato all’interno di una realtà alternativa e trasversale come quella del web. Etichettato come esempio saudita di chick-lit, e dall’impostazione senz’altro ‘leggera’, il romanzo ha tuttavia avuto il merito di accendere l’interesse verso la crescente produzione letteraria saudita al femminile. Altre voci, infatti, sono emerse in questi ultimi anni e si distinguono soprattutto per la determinazione nel voler offrire delle donne una rappresentazione del tutto eccentrica rispetto allo stereotipo mediante cui sono di solito rappresentate. Nel farlo, esse sembrano voler mettere innanzitutto l’accento sul corpo femminile, parlandone apertamente, al di là di ogni autocensura e, soprattutto, sottraendolo all’esclusiva fruizione maschile. Se le narrazioni della generazione di scrittrici che le aveva precedute s’incentravano soprattutto sulle problematiche legate alla segregazione e al ruolo passivo della donna, investigando, in varia misura, le dimensioni, anche emotive, dell’oppressione maschile e del complice vittimismo femminile, le nuove autrici saudite si contraddistinguono per il loro indulgere a temi più scabrosi quali i rapporti prematrimoniali e l’aborto, come nel romanzo di Laila al-Giuhni (Laylā al-Ǧuhnī, n. 1969) Firdaws al-Yabāb (1998; trad. it. Il canto perduto, 2007), oppure la sessualità e l’omosessualità descritte senza reticenze nel romanzo dal titolo al-Āḫarūn (2006; trad. it. Gli altri, 2007) di una giovanissima autrice che scrive con lo pseudonimo di Siba al-Harez (Ṣabā al-Ḥīrz).
Sessualità e censura
Sebbene i toni spregiudicati delle giovani autrici saudite destino ancora molto interesse e scalpore, il corpo e la sessualità sono stati da tempo variamente indagati dalla scrittura femminile. Molte sono state le scrittrici che si sono confrontate con questi temi nel tentativo di sottrarli all’egemonica trattazione maschile e di elaborare forme espressive che consentissero loro di dare parola al corpo femminile, rivendicandone pubblicamente la dimensione erotica. Impadronirsi del discorso sulla sessualità ha significato, però, cominciare a intaccare un’intangibile norma sociale, corroborata da altrettanto radicate prescrizioni religiose, che associa la sessualità femminile alla parola fitna (lett. «caos», «disordine», ma anche «rivolta», «guerra civile»), per indicare la potenzialità, anche involontaria, che essa ha di scatenare istinti irrefrenabili nell’uomo, mettendo in questo modo a repentaglio sia l’ordine sociale sia l’integrità morale dell’intera comunità (Saraçgil 2001, pp. 18-20). Per questo motivo, la scelta deliberata di alcune scrittrici di rappresentare liberamente sé stesse in una sfera in cui le donne erano concepite quale silenzioso oggetto di desiderio, di rappresentazione e di controllo ha assunto, sin da subito, la valenza di un tabù violato, scatenando immediate e intense reazioni di indignazione e censura.
Nel 1959 gli ‘espliciti’ riferimenti al desiderio e alla sessualità femminile contenuti nel romanzo Āyyām ma῾ahu (Giorni con lui) della scrittrice siriana Colette Khouri (n. 1937) avevano suscitato grande clamore in tutto il mondo arabo. Nel 1964 era stata la volta della scrittrice libanese Laylā Ba῾albakī (n. 1936) che, a seguito della pubblicazione della raccolta di racconti Safīnat ḥanān ilā ’l-qamar (Un’astronave di tenerezza per la luna), fu processata con l’accusa di oscenità e oltraggio alla pubblica morale (Stephan 2006, pp. 165-67). Questo solo per citare alcuni tra i primi e più famosi casi di censura letteraria. Nei decenni successivi ha iniziato a consolidarsi in tutto il mondo arabo la notorietà di due scrittrici molto prolifiche, l’egiziana Nawal al-Sa‘dawi (Nawāl al-Sa῾dāwī, n. 1931) e la siriana Ghada Samman (Ġāda al-Sammān, n. 1942), presto affermatesi anche sulla scena letteraria internazionale – tra i romanzi della controversa Nawal al-Sa‘dawi tradotti in italiano, ricordiamo il libro di memorie A daughter of Isis (1999; trad. it. Una figlia di Iside, 2002), pubblicato contemporaneamente sia in arabo sia in inglese, mentre di Ghada Samman, tra gli altri, è apparso in traduzione italiana il romanzo Bayrūt ’75 (1974; trad. it. Un taxi per Beirut, 1995). Entrambe le scrittrici, pur partendo da prospettive ed esperienze di vita e di scrittura molto diverse, hanno contribuito in modo rilevante alla rimessa in discussione del dogmatico discorso sul corpo femminile. Nello scardinare l’ossimoro sessualità/moralità, hanno portato al centro del dibattito pubblico temi ritenuti tabù quali la verginità, le mutilazioni genitali femminili, il diritto delle donne a esprimere e soddisfare i propri desideri sessuali, le gabbie di solitudine e oppressione rappresentate dalle unioni matrimoniali non basate sull’amore, oltrepassando spesso i limiti della censura ufficiale e scontrandosi anche con le reticenze del pubblico di lettori (Stephan 2006, pp. 167-78). Nawal al-Sa‘dawi, in particolare, è stata da più parti accusata di rivolgere i propri scritti soprattutto a un’audience occidentale, alimentando in tal modo gli stereotipi sulla donna araba (v. in partic. A. Amireh, Framing Nawal El Saadawi. Arab feminism in a transnational word, in Intersections, 2002, pp. 33-67, che offre, tra l’altro, un’interessante analisi delle problematiche legate alla ricezione della scrittura femminile araba in Occidente).
Anche in tempi più recenti, e in altri Paesi del Vicino Oriente, il discorso letterario femminile sulla sessualità ha dovuto fare i conti con molteplici meccanismi di controllo, non sempre innescati dalle autorità religiose. Nella pur ufficialmente laica Turchia, il romanzo autobiografico della scrittrice Duygu Asena (1946-2006) Kadının Adı Yok (La donna non ha nome, 1987), a un anno dalla pubblicazione, veniva censurato per i suoi contenuti osceni, per essere poi riabilitato solo nel 2000. Sempre nel 2000 la scrittrice kuwaitiana Laylā al-῾Uṯmān (n. 1945) è stata condannata a due mesi di carcere – pena commutata poi nel pagamento di un’ammenda – per oltraggio al pudore e uso di un linguaggio empio a causa di alcuni passaggi del suo romanzo al-Rāḥil (L’emigrante), pubblicato in Libano nel lontano 1979 e poi in Kuwait nel 1984. Sono ancora oggi proibite in Irān gran parte delle opere scritte da Shahrnush Parsipur (Šahrnuš Pārsipur, n. 1946), entrata nel mirino della censura di Stato, agli inizi degli anni Novanta, per il suo romanzo Zanān-e bedun-e mardān (1990; trad. it. Donne senza uomini, 2004) in cui la scrittrice affrontava, attraverso una narrazione pervasa da una sorta di ‘realismo magico’, i delicati temi della verginità, della prostituzione e della violenza sessuale sulle donne.
Dal punto di vista della libertà d’espressione, del resto, quella dell’Irān si configura attualmente come una delle situazioni più preoccupanti. Malgrado ciò, le scrittrici iraniane della nuova generazione sembrano non voler rinunciare a esplorare nei propri romanzi la dimensione erotica e amorosa, sebbene, nel farlo, siano costrette a ricorrere a un linguaggio fortemente allusivo e intriso di innocue quanto intricate circonlocuzioni. I censori del Ministero della Cultura e della Guida Islamica, che devono approvare ufficialmente ogni libro prima che possa essere pubblicato, proibiscono, infatti, ogni esplicita menzione al sesso, tanto da vietare l’uso di parole quali ‘nudità’ o ‘petto’, anche se usate metaforicamente e senza riferirsi direttamente al corpo (Fathi 2005).
Negli ultimi anni, un segnale decisamente opposto arriva, invece, dalle scrittrici della variegata diaspora musulmana, ovvero da quelle autrici che si trovano a operare in ambiti culturali e linguistici diversi da quello di provenienza. In questi casi, la sessualità appare, al contrario, un tema che sembra deliberatamente affrontato nel testo letterario, al fine di scalfire quegli stereotipi sulla negazione di una libera espressione della dimensione sessuale femminile che accompagnano spesso la percezione e la rappresentazione della donna musulmana in Occidente. Nel tentativo di fornire un’immagine alternativa di sé e delle proprie radici culturali, alcune cercano di scomporre e analizzare tali stereotipi per rivelarne l’inconsistenza, altre di rovesciare diametralmente i termini del discorso, altre ancora scelgono invece un approccio più ironico e provocatorio. È questo il caso, per es., della scrittrice Mohja Kahf (n. 1967).
Di origine siriana e trasferitasi da bambina con la famiglia negli Stati Uniti, dove ora insegna letteratura comparata alla University of Arkansas, Mohja Kahf ha dato sinora alle stampe una raccolta di poesie (E-mails from Sheherazad, 2003) e un romanzo (The girl in the tangerine scarf, 2006). Negli ultimi anni alcuni suoi racconti, pubblicati nell’irriverente rubrica Sex and the umma dell’ormai solo parzialmente funzionante sito web Muslim wake up! (http:// www.muslimwakeup.com), hanno suscitato molta attenzione così come adirate reazioni da parte degli ambienti musulmani più conservatori (Nosková 2005, p. 117). La peculiarità di questi racconti risiede nella sapiente abilità dell’autrice (che, peraltro, si dichiara apertamente di fede musulmana) di decostruire tematiche connesse al corpo e alla sessualità, usando e rivisitando un immaginario e un linguaggio propriamente islamici. Ne deriva una narrazione tanto dissacratoria quanto efficacemente comunicativa. In uno dei suoi ultimi racconti dall’eloquente titolo The polyandry fatwa (http://www.muslimwakeup.com/main/ archives/2007/03/the-polyandry-f.php), per es., la scrittrice ridiscute la validità di alcune prescrizioni coraniche, come quella della poligamia maschile, che si fondano su una chiara discriminazione tra i due sessi e la alimentano. In esso mette in scena, con toni da reportage giornalistico, la decisione di alcuni ulema siriani di autorizzare anche le donne a contrarre matrimonio con più uomini, sulla base, tra l’altro, di una poco soddisfacente vita sessuale.
I tentativi della scrittura femminile di ridelineare i confini tradizionali del discorso pubblico sulla sessualità, aggirando, mediante il ricorso a una lingua implicita, l’autorità maschile, o mutuandone e dilatandone i linguaggi e le forme espressive, rappresentano senz’altro una delle novità più dirompenti emerse in questi ultimi anni.
Scrivere i conflitti
L’improvviso imporsi sulla scena letteraria internazionale, a partire dalla seconda metà del 20° sec., di scrittori e scrittrici palestinesi, libanesi, iracheni, curdi ha dolorosamente coinciso con l’accendersi di quei conflitti che continuano a travolgere i loro rispettivi popoli. La guerra, la distruzione, lo strazio di società dilaniate al loro interno da squarci insanabili, l’orrore che invade la vita di tutti, la perdita della libertà in alcuni casi, e la conseguente necessità di affermare e difendere la ‘giusta’ causa del proprio popolo – pur nella consapevolezza delle ulteriori inevitabili conflittualità derivanti dal contrapporsi di rivendicazioni del tutto antitetiche – hanno rappresentato, e per molti versi rappresentano tuttora, un forte sprone alla scrittura e una drammatica fonte di ispirazione letteraria.
Ne è derivata una scrittura, come quella palestinese, che è stata a lungo pervasa da un forte impegno sociale e, in qualche modo, è risultata sacrificata alle logiche della militanza politica. La parola fattasi denuncia, grido di protesta, è stata spesso brandita come un’arma, concepita e usata quale strumento per risvegliare la coscienza dei connazionali sui propri destini e per far arrivare la propria voce anche all’esterno. In altri casi, come in quello del Libano, sprofondato in una lunga guerra civile e tuttora solo precariamente pacificato, o dell’Irāq attraversato da due guerre, assediato da anni di dittatura, cui sono seguite le non meno devastanti conseguenze dell’embargo e dell’occupazione angloamericana, scrivere è diventato una forma di sopravvivenza intellettuale, un modo per tramandare il ricordo del proprio vissuto e fissare sulla pagina scritta una ferma opposizione all’incomprensibile logica della guerra (Avino, in Pace e guerra nel Medio Oriente, 2008, pp. 165-66).
Tale scrittura però, in tempi più recenti, ha cominciato a profilarsi quale mezzo alternativo per interrogarsi su una realtà che è arduo interpretare o descrivere razionalmente, e ancor più, quale ultimo luogo incolume in cui poter trovare rifugio dalla desolazione. E nel cercare un’alternativa letteraria a un atteggiamento di complicità con l’orrore della guerra, determinante è stato il contributo delle donne.
La letteratura come resistenza
Un amaro vocabolario scandisce le tappe più drammatiche della recente storia del popolo palestinese, così come le pagine più significative della sua produzione letteraria: al-nakba («il disastro») per riferirsi alla fondazione dello Stato d’Israele nel 1948; al-naksa («la ricaduta») per ricordare la sconfitta seguita alla guerra dei Sei giorni nel 1967; al-intifāḍa (lett. «scuotersi») per definire la cosiddetta Rivolta delle pietre esplosa nel 1987 e riaccesasi poi nel 2000 (seconda intifada o al-intifāḍa al-Aqṣā). A queste si aggiungono altre date e un susseguirsi di tragici eventi – il massacro di Sabra e Shatila del 1982, i fallimentari accordi di Oslo del 1993, la pericolosa ascesa di Ḥamās con il corollario di violenze che ne sono derivate – che hanno lasciato tracce indelebili nella memoria individuale e collettiva. Ed è essenzialmente a tali memorie che per lungo tempo la produzione letteraria palestinese, femminile come anche maschile, ha dato voce, accompagnando alla loro rimodulazione denunce e rivendicazioni volte ad affermare con forza il diritto di un popolo a esistere e a preservare la propria identità, non soltanto politica.
Questa scrittura votata innanzitutto alla militanza – lo scrittore Ghassan Kanafani (Ġassān Kanafānī, 1936-1972), all’indomani della sconfitta della guerra dei Sei giorni, l’aveva definita, propugnandola, adab al-muqāwama, ossia letteratura della resistenza – ha inciso nella letteratura palestinese un profondo solco lungo il quale continua ad articolarsi la produzione letteraria di affermate scrittrici, prima fra tutte l’ancora attivissima Sahar Khalifa (Saḥar Ḫalīfa, n. 1941).
Quella di Sahar Khalifa è stata una delle prime voci che, a partire dagli anni Settanta, è riuscita a travalicare i precari confini dei Territori occupati, affiancando la sua produzione a quella dei palestinesi della diaspora e dei palestinesi residenti in Israele. Sin dai primi romanzi – alcuni dei quali apparsi anche in traduzione italiana: al-Ṣubbar (1975; trad. it. Terra di fichi d’India, 1996), Muḏakkirāt imra᾿a ġayr wāqi῾iyya (1986; trad. it. La svergognata. Diario di una donna palestinese, 1989), Bāb al-sāḥa (1990; trad. it. La porta della piazza, 1994) – Sahar Khalifa ha tradotto in letteratura il suo forte impegno politico, affidando alla scrittura innanzitutto il compito di ricomporre e custodire i brandelli della storia interrotta del suo popolo. Tale scrittura si fonda su intrecci narrativi in cui la tragicità delle storie individuali confluisce inevitabilmente nel destino collettivo del popolo palestinese, laddove ai singoli personaggi sembra quasi essere preclusa la possibilità di affermarsi individualmente al di fuori di una dimensione collettiva e di lotta (Ruocco, in Il romanzo del divenire, 2007, pp. 116-23). L’impegno di Sahar Khalifa si è da sempre rivolto anche all’analisi dei conflitti interni alla propria società privilegiando soprattutto una prospettiva di genere. L’attenzione verso le questioni femminili nasce dalla consapevolezza, anche autobiografica, che le donne palestinesi, oltre a combattere l’occupazione esterna di Israele, sono in lotta contro i pregiudizi misogini della propria cultura. E le donne, che, come ricorda la stessa autrice, sin da bambine «si abituano a vedere che altri prendono le decisioni per loro» e «scelgono le parole anziché l’agire e si accontentano di singhiozzi, preghiere e maledizioni piuttosto che di azioni» (Khalifa 2002), rappresentano uno degli elementi centrali anche del suo ultimo romanzo Rabī῾ ḥārr (2004; trad. it. Una primavera di fuoco, 2007). La ‘primavera di fuoco’ è quella del 2002, segnata da eventi quali l’attacco israeliano alla città di Nablus, l’assedio dell’Autorità palestinese a Ramallah e la costruzione del muro. Su questo sfondo bruciante si innestano le vite di vari personaggi, ciascuno alle prese con le proprie inquietudini personali. Lo sguardo della scrittrice indulge soprattutto sulle donne, ritratte quali tenaci custodi della memoria del popolo e motore invisibile di una società in cui gli uomini sono sempre più assenti (Ruocco, in Il romanzo del divenire, 2007, pp. 124-25).
Nei suoi più recenti sviluppi, la scrittura palestinese ha però segnato una svolta significativa verso la sperimentazione di nuove tematiche e strategie letterarie. All’interno di tale produzione particolarmente interessante appare il modularsi delle nuove voci femminili. Se da una parte l’irrisolta questione palestinese continua inevitabilmente a dominare il discorso letterario delle scrittrici dell’ultima generazione, queste stesse scrittrici, nel confrontarsi inermi con una realtà politica che appare tragicamente immutabile e con un vissuto quotidiano scandito da guerra, distruzione, muri invalicabili e checkpoint sempre più numerosi, operano una scelta che privilegia innanzitutto la dimensione estetica del testo. Sul piano formale si tratta della presa di coscienza di dover colmare lo scarto tra le esigenze artistiche della scrittura e l’imprescindibilità della situazione palestinese. Dal punto di vista narrativo tale scelta si traduce in una consapevole rinuncia alla storia collettiva per recuperare percorsi individuali, rintracciati spesso nelle pieghe del quotidiano, nei piccoli gesti, in dettagli apparentemente insignificanti. In tal modo si intende contrapporre alla necessità di preservare la memoria di tutti il bisogno tutto personale di dimenticare per potersi assicurare uno spazio minimo di sopravvivenza. La scrittrice più rappresentativa di questa nuova tendenza è Adania Shibli (῾Adaniyya Šiblī, n. 1974), il cui primo romanzo Masās (2003) è recentemente apparso anche in Italia (Sensi, 2007). La scrittura di Adania Shibli è pervasa da quello che lei stessa definisce una sorta di autismo, cioè un’indifferenza emotiva, che si profila come unico strumento per difendersi dall’orrore (Ruocco, in Pace e guerra nel Medio Oriente, 2008, p. 186). La sua ricerca estetica si rivolge, invece, innanzitutto alla lingua, curata nei suoi testi con un’attenzione maniacale. Nel cercare di sfruttare al massimo le potenzialità espressive, sonore e visive di ciascuna parola, Adania Shibli plasma una lingua di pregnante semplicità attraverso cui fotografa da angolazioni del tutto inusuali la recente storia palestinese. Nel romanzo Masās, la narrazione segue le percezioni sensoriali di una ragazzina il cui sguardo si posa inconsapevole ovunque: «Ogni sera la ragazzina va a letto per ubbidire al sonno, stasera va a letto per ubbidire alla madre. Di tanto in tanto, attraverso la porta che separa la stanza, dove tutta la famiglia è riunita, sente degli spezzoni di parole ‘lzoni’, ‘ttana’, ‘Dio’, ‘gazzini’, ‘acciona’, ‘atila’. Quest’ultima non è per niente facile da completare. Poi sente il tasto del televisore che viene schiacciato. Riesce appena a sentire da dietro la porta, e ‘atila’ si trasforma in ‘abra e atila’. Con qualche sforzo diventa ‘Sabra e Shatila’» (trad. it. 2007, p. 75). Tuttavia, per la ragazzina queste parole rimarranno un puro suono di cui non riuscirà a comprendere il significato. Del resto, come ci ricorda Monica Ruocco nell’introduzione all’edizione italiana di Māsas (L’estetica come resistenza, pp. 5-11), anche il tentativo di recuperare e far emergere, pur nella tragedia, la dimensione più propriamente estetica della scrittura può essere interpretato come una «forma estrema di resistenza» (p. 8).
L’esilio come dimensione interiore
Confrontarsi con i conflitti può anche significare allontanarsene e rivolgere a essi lo sguardo di chi ne è ormai lontano. È il caso dei tanti intellettuali della diaspora che hanno dovuto, o spesso voluto, recidere in qualche modo il legame con la propria terra. Esili seguiti a una militanza politica, come nel caso dell’irachena Haifa Zangana (n. 1950), residente a Londra dal 1976, o distacchi volontari, come quello della scrittrice e giornalista libanese Hoda Barakat (Hudā Barakāt, n. 1952) che, rimasta a Beirut per tutta la durata della guerra, si è trasferita a Parigi solo nel 1989. Una scelta, quest’ultima, fatta – come la scrittrice stessa dichiara – con la consapevolezza di voler «appartenere soltanto alla scrittura e alla lingua» e nel rifiuto di sentirsi «in alcun modo un’esiliata, se non per il fatto che la scrittura implica un esilio nei confronti dell’ordine stabilito» (Pagani, in Pace e guerra nel Medio Oriente, 2008, p. 175). E infine, per le generazioni più giovani, legami interrotti per scelte ereditate dai padri o dalle madri, come nel caso di Randa Jarrar (n. 1978), di padre palestinese e madre egiziana, nata negli Stati Uniti dove attualmente risiede, o di Betool Khedairi (Batūl al-Ḫuḍayrī, n. 1965) che, nata da padre iracheno e madre scozzese, dopo aver trascorso l’infanzia e la prima giovinezza in ῾Irāq, si è trasferita prima in Gran Bretagna e poi in Giordania.
La scrittura di autrici con vissuti e universi narrativi così diversi appare attraversata da un analogo sentire che va rintracciato nel loro comune tentativo di rappresentare, nelle sue molteplici modulazioni, la condizione dell’essere e del sentirsi straniero. Il distacco voluto o imposto dal proprio Paese diventa per loro innanzitutto ġurba, ovvero un insanabile esilio interiore. Questo sentimento assume gli indefiniti contorni di uno spazio intimo, prima ancora che fisico, abitato da solitudine, straniamento, alienazione.
Il sentirsi straniera, in alcuni scritti, affiora nella necessità di ricordare per ristabilire un legame con la propria terra, dissotterrando e ricomponendo i frammenti ancora intatti della propria memoria. «Quando ritornerò a Bagdad – scrive Betool Khedairi nel racconto Umm al-qabāqīb (2003; trad. it. La madre di tutte le ciabatte, in Parola di donna, corpo di donna, 2005, pp. 55-57) – la prima cosa che farò sarà lavarmi i capelli nel lavandino come faceva mia madre, che è scozzese. Sento la necessità di far rivivere i riti della mia infanzia. Mi aiuterà a rendermi conto che sono tornata nella mia patria. Ma, un attimo, il lavandino non c’è più. I miei genitori se ne sono andati. La nostra vecchia casa è stata distrutta» (p. 55). Fortemente ispirato alla sua esperienza biografica è anche il primo romanzo di Betool Khedairi Kam badat al-samā᾿ qarība (2001; trad. it. Un cielo così vicino, 2004), in cui si ripercorrono le vicende di una ragazza durante gli anni del conflitto Irān-῾Irāq e il suo allontanamento dal Paese alla vigilia della prima guerra del Golfo. Il suo più recente romanzo, Ġā᾿ib (Assente, 2004), è, invece, ambientato negli anni Novanta sullo sfondo di una Baġdād devastata dalla guerra e dalla frammentazione sociale, con le conseguenze che tale situazione provoca sul destino collettivo di un popolo e, soprattutto, sui percorsi di vita individuali.
Per altre scrittrici essere straniera si traduce nella presa di coscienza di sperimentare un’insanabile condizione esistenziale. Sentendosi straniere ‘a casa’ così come nell’esilio, tra i connazionali della diaspora, ma anche tra coloro che sono rimasti in patria, l’unico luogo abitabile rimane quello della ‘non appartenenza’. Ma anche questa dimensione tutta interiore dell’esilio non offre uno spazio catartico.
Hoda Barakat, già nota in Italia per i suoi romanzi Ahl al-hawā (1993; trad. it. Malati d’amore, 1997) e Ḥāriṯ al-miyāh (1998; trad. it. L’uomo che arava le acque, 2003), offre un’intensa esplorazione di questo sentimento in vari passaggi del volume Rasā᾿il al-ġarība (2004; trad. it. Lettere da una straniera. Da Beirut a Parigi. Diario di una vita altrove, 2006), in cui, in una sorta di ‘diario pubblico’, sono raccolti alcuni degli articoli che la scrittrice ha pubblicato tra il 2001 e il 2002 sul giornale «al-Ḥayāt». Da queste pagine emerge tutta l’ambivalenza della condizione di straniero e la dolorosa indissolubilità del legame con il Paese d’origine: «La notte in cui l’ho lasciato – scrive Hoda Barakat –, ho giurato che non sarei più tornata […] in quel paese che rinnegherò tre volte ogni mattina, anche se dovessi piangere per lui fino all’ultima ora della notte» (trad. it. 2006, p. 73; cfr. anche Pagani, in Pace e guerra nel Medio Oriente, 2008).
Lingue matrigne
L’esplorazione della propria appartenenza identitaria, del rapporto con l’alterità e del senso di smarrimento, ma anche di arricchimento, che ne deriva, ha assunto, per molte scrittrici, così come per la loro controparte maschile, anche una dimensione più propriamente linguistica. Sconfinare in un altro spazio linguistico, esprimendosi in una lingua diversa da quella materna, comporta, per chi scrive, il problema di confrontarsi, da una parte, con lo spazio letterario della propria terra d’origine, che il più delle volte sente a sé estranee queste produzioni, e, dall’altra, con la marginalità cui si è relegati nell’ambito della letteratura d’adozione. Esprimersi in una lingua ‘matrigna’ è, tuttavia, una tradizione ormai consolidata per molte scrittrici di lingua araba – prima fra tutte la prolifica scrittrice francofona di origine algerina Assia Djebar (n. 1936) – e continua a essere accompagnata da un vivace dibattito volto a ricostruire l’appartenenza plurima e la natura ibrida di questa produzione letteraria. Tale produzione, peraltro, se inizialmente si esprimeva innanzitutto in lingua francese – si pensi, per es., alla vasta produzione prodotta in Maghreb o da autori di origine maghrebina (Camera d’Afflitto 20072, pp. 299-301) – e in lingua inglese, ed era intrinsecamente connessa al passato coloniale e postcoloniale dei rispettivi Paesi, negli ultimi anni, invece, appare legata a una molteplicità di fattori. Dalle nuove traiettorie ed evoluzioni dei processi migratori, all’eventuale desiderio dei singoli scrittori di affidarsi a una lingua più universale per avere, in tal modo, maggiore visibilità in Occidente; dalla crescente, e per molti versi uniformante, esposizione mediatica cui il variegato universo islamico, soprattutto femminile, è stato sottoposto in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, alle aspettative circa la maggiore ricezione di un certo tipo di testi letterari che ispirano e informano molte politiche editoriali.
Emblematico da questo punto di vista il caso delle scrittrici iraniane. Uno dei fenomeni più interessanti del panorama editoriale iraniano contemporaneo è rappresentato dal considerevole quanto vivace aumento della produzione letteraria a firma femminile. Tale fenomeno è tanto più significativo se si considerano le notevoli, e tuttora vigenti, restrizioni imposte alla libertà delle donne – dall’obbligo di indossare il velo, alla segregazione nei luoghi pubblici – a opera del repressivo regime islamico instaurato all’indomani della rivoluzione khomeinista del 1979. Questi eventi, cui sono seguite le disastrose conseguenze del lungo conflitto con l’Irāq, se da un lato hanno posto più limiti oggettivi all’espressione pubblica delle voci femminili – per es., gli scarsi mezzi finanziari e la natura patriarcale dell’industria editoriale o il pressante controllo della censura –, dall’altro hanno preparato il terreno per i suoi più recenti sviluppi. In una situazione in cui gli spazi pubblici di discussione e dibattito risultavano sempre più limitati e limitanti, la letteratura si è progressivamente profilata come un importante strumento di autoespressione. Le scrittrici emerse negli ultimi anni sono molte, e tra esse vanno senz’altro menzionate Farxonde Āqā᾿i (n. 1957), Faribā Vāfi (n. 1962) e Zuyā Pirzād (n. 1952), autrice quest’ultima di vari best seller tra cui Chirāgh-hā rā man khāmush mikunan (Spegnerò le luci, 2002). Altrettanto interessanti e variegate sono le strategie compositive che ciascuna adopera per affidare al testo letterario le problematiche dell’essere donna oggi in Irān (Āqā᾿i 2003). Eppure queste scrittrici, al di fuori degli ambiti accademici, sono pressoché sconosciute in Occidente (da segnalare, tuttavia, la presenza di voci femminili nella recente antologia Strange times, my dear. The PEN anthology of contemporary Iranian literature, curata da N. Mozaffari, A. Karimi-Hakkak e pubblicata a New York nel 2005), mentre molto più affermate sulla scena letteraria mondiale sono autrici di origine iraniana che vivono all’estero e che compongono le loro opere solitamente in francese o in inglese. Dopo il travolgente successo internazionale di Persepolis, la serie di romanzi a fumetti di ispirazione autobiografica di Marjane Satrapi (n. 1969) pubblicati in Francia tra il 2000 e il 2003 e trasposti sul grande schermo nel 2007, e dell’autobiografia-denuncia Reading Lolita in Tehran. A memoir in books (2003; trad. it. Leggere Lolita a Teheran, 2004) di Azar Nafisi (n. 1955), negli ultimissimi anni è proliferata la pubblicazione di scritti a sfondo autobiografico. Persian girls. A memoir (2006) di Nahid Rachlin (n. 1944), Lipstick Jihad. A memoir of growing up Iranian in America and American in Iran (2005; trad. it. Lipstick Jihad, 2006) di Azadeh Moaveni (n. 1976), Even after all this time. A story of love, revolution, and leaving Iran (2005) di Afschineh Latifi (n. 1969) sono solo alcuni titoli delle opere recentemente apparse e basate essenzialmente su una narrativa di testimonianza e sopravvivenza, legata inevitabilmente agli anni della rivoluzione khomeinista. Le autrici sono donne iraniane, di prima o seconda generazione, che scrivono guardando indietro al loro Paese d’origine con l’imprescindibile prospettiva di chi ormai ne è lontano. Nello scegliere il lettore occidentale come interlocutore privilegiato, usano infatti la lingua del Paese d’adozione che, per molti versi, sentono senz’altro propria e che, al tempo stesso, rende le loro opere più immediatamente fruibili dal mercato mondiale.
Di là dei meriti letterari di queste opere è indubbio, tuttavia, che questo tipo di narrativa contribuisca, anche involontariamente, ad alimentare una visione a tinte fosche della condizione della donna in Irān, e nel mondo islamico in generale, già tanto radicata in Occidente, senza lasciare intuire le evoluzioni che hanno avuto luogo negli ultimi decenni.
Dal punto di vista linguistico, un’attenzione particolare merita, infine, la produzione letteraria di un Paese dalla ‘solida’ identità nazionale come la Turchia, laddove le scelte linguistiche messe in atto nella scrittura, per la forte valenza ideologica che esse assumono, rappresentano da sempre un nodo centrale del testo letterario. Oltre al recente affermarsi della letteratura prodotta dai turchi residenti in Germania, che nelle loro espressioni letterarie scelgono di adottare, e spesso contaminare, il tedesco al fine di affermare la propria duplice appartenenza linguistica e identitaria, è interessante notare come, anche per scrittori che operano in Turchia, o nella parte turcofona di Cipro, effettuare una determinata scelta all’interno della propria lingua madre rappresenta un mezzo per ridiscutere, a quasi un secolo di distanza, la nozione, di matrice kemalista, di una lingua turca ‘pura’ (öz Türkçe) i cui confini espressivi, nell’intenzione dei primi legislatori repubblicani, dovevano coincidere perfettamente con quelli di un’identità nazionale sentita come omogenea e inattaccabile.
Il dibattito in corso sulla lingua si accompagna a quello su una ridefinizione dei contenuti e delle forme espressive del testo letterario. Anche in questo caso si tratta di disancorare la letteratura da una vocazione essenzialmente autoreferenziale, e legata innanzitutto alle complesse vicende politiche e sociali del Paese, per farne strumento investigativo di dimensioni culturali, sociali e individuali non conformi agli indeclinabili modelli importati dall’esterno o imposti dall’alto e mai completamente interiorizzati.
In entrambi i casi, fondamentale è stato il ruolo svolto dalle scrittrici che, negli ultimi anni, pur con scelte formali e approcci molto diversi, hanno interpretato la pagina scritta non solo quale luogo intimo e condiviso cui affidare i propri contributi per la decostruzione dell’univocità dell’appartenenza di genere, ma anche quale punto d’osservazione della complessa realtà che le circonda. Attualmente, accanto a scrittrici già da tempo affermate come Latife Tekin (n. 1957), Nazlı Eray (n. 1945), Pınar Kür (n. 1943), una nuova generazione di giovani autrici si sta imponendo con forza sulla scena letteraria: da Perihan Mağden (n. 1960), il cui controverso romanzo tutto al femminile İki Genç Kızın Romanı (2002) è stato tradotto anche in italiano (Due ragazze, 2005), ad Aslı Erdoğan (n. 1967); da Şebnem İşigüzel (n. 1973), approdata in Italia con il romanzo Sarmaşık (2002; trad. it. Edera, 2008), all’ormai nota Elif Şafak (n. 1971), la quale, dopo essersi cimentata con la scrittura in inglese nei due romanzi The saints of incipient insanities (2004) e The bastard of Istanbul (2007; trad. it. La bastarda di Istanbul, 2007) – che le sono costati, peraltro, l’imputazione di aver pubblicamente offeso l’identità turca per i riferimenti in essi contenuti al genocidio armeno –, è recentemente tornata a scrivere in turco con il romanzo Siyah Süt (Latte nero) pubblicato nel 2007.
Ed è proprio Şafak una delle scrittrici che, anche attraverso le sue opere, esprime più fermamente la necessità di scalfire l’attuale polarizzazione e politicizzazione della lingua turca, laddove l’uso di parole ‘antiche’ – ovvero quelle di derivazione araba o persiana appartenenti al ricco patrimonio linguistico ottomano e condannate all’oblio dall’euforia repubblicana – o ‘nuove’, frutto del processo di ‘turchizzazione’ della lingua, rivela irrimediabilmente una chiara appartenenza politica, ideologica o religiosa. «La mia scrittura – afferma E. Şafak (2007) – è piena di parole sia ‘antiche’ che ‘nuove’ […]. Mi rifiuto di sradicare parole dalla lingua e memorie dall’identità collettiva». Un rifiuto, quest’ultimo, cui aderiscono, con i loro scritti, anche altre autrici come, per es., la poetessa Bejan Matur (n. 1968) o Suzan Samancı (n. 1962), entrambe curde, le quali pur scrivendo in turco, la lingua che affermano di conoscere meglio, rivendicano di infondere in esso tutta la forza espressiva del curdo, il cui uso è stato fino a tempi recenti vietato in Turchia, ma che per loro rappresenta la familiare lingua del privato, quella attraverso cui percepiscono il mondo.
Nei suoi racconti, Samancı, che ha recentemente dato alle stampe il suo primo romanzo Korkunun ırmağında (Nel fiume della paura, 2004), con toni di sommessa e delicata tragicità descrive il dramma del suo popolo e della sua terra. Le sue sono storie intime e collettive, cariche di distacchi e di malinconia, sullo sfondo di una natura di una bellezza accecante in cui la guerra e la morte fanno continue e sempre inattese irruzioni nel quotidiano. Pur essendo la lingua in cui è abilmente condotta la narrazione, il turco viene descritto in questi racconti come la ‘lingua imparata dopo’, quella da tradurre, che si parla in città, con i gendarmi, la lingua che tradisce sempre la pronuncia stentata di chi la parla: «Una volta il capo l’aveva fatto chiamare: ‘Un poliziotto non dovrebbe parlare in modo così rozzo! Le tue k sono troppo gutturali, e anche le ö le pronunci come fossero ü. Esercitati a casa, ogni tanto. Non si dice signora Günül, ma signora Gönül!’» (Reçine Kokuyordu Helin, 1993; trad. it. Helin profumava di resina, 2002, p. 96). Il curdo, invece, echeggia nelle parole ancestrali, in stralci di conversazioni private, nelle urla dei venditori ambulanti, nelle nenie e nelle ninnananne delle donne: «Mahmut si schiarì la gola e cercò di infondere forza alla sua voce. ‘È un ordine dall’alto. Ci danno due giorni per andarcene’. Le lacrime sgorgarono a fiotti dagli occhi di Hezar. Si prese la testa tra le mani e attaccò una nenia curda. Fuori gli spari risuonavano sempre più forti» (p. 118).
Il ricorso a una lingua fluida, una lingua che «non ha ossa» e pertanto può muoversi in qualsiasi direzione, come scriveva in un racconto della raccolta MutterZunge (1990; trad. it. La lingua di mia madre, 2007), parafrasando un vecchio detto turco, la scrittice d’adozione tedesca Emine Sevgi Özdamar (n. 1946), riflette appieno la necessità condivisa da molte scrittrici contemporanee di adeguare il testo letterario alle proprie esigenze espressive, farne strumento di conoscenza e di indagine e, dunque, contaminarlo nello stile così come nei contenuti per infondervi la complessità del proprio sguardo sul mondo.