PENTATEUCO (dal greco πέντε "cinque" e τεῦχος "utensile, astuccio")
Denominazione della prima parte della Bibbia, che nella versione greca detta dei LXX è divisa in cinque libri, designati con gli speciali nomi di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Gli Ebrei la chiamano con il nome complessivo tōrāh "legge"; ma anche presso di essi è antichissima la divisione in cinque parti (donde la locuzione ḥamiššāh ḥumšēha-tōrāh "i cinque quinti della legge") della medesima estensione, ma con altri nomi che in greco.
La divisione dovette aver origine dalla necessità, per l'uso del papiro presso gli antichi, di spezzare gli scritti più voluminosi in più rotoli di mediocre lunghezza, di solito custoditi ognuno nel suo astuccio o borsa (τεῦχος). Per altro l'oggetto stesso e l'indole letteraria separa nettamente dagli altri il primo (Genesi), che racconta la primitiva storia del mondo e della razza ebrea, e l'ultimo (Deuteronomio), che riassume e mette a punto i tre precedenti. Quelli di mezzo formano un tutto abbastanza omogeneo: l'emigrazione ebrea dall'Egitto alla frontiera di Palestina, intersecato da lunghe serie di leggi, spesso occasionali. Tuttavia anche qui il terzo (Levitico) spicca per un particolare colore ieratico, rituale; e quindi si può conchiudere che la divisione in cinque libri corrisponde abbastanza bene alla varietà dell'argomento. Bastino qui, dove dobbiamo occuparci della questione letteraria, questi pochi cenni; per maggiori notizie intorno al contenuto si vedano gli articoli sui singoli libri.
Il Pentateuco giunse a noi in tre redazioni leggermente differenti fra loro: l'ebraica (o meglio giudaica), la samaritana e la greca (nella versione dei LXX). La più tardiva, in complesso, è la samaritana, sebbene abbia conservato elementi più arcaici che la giudaica; la greca è la più prossima all'originale, al punto di divergenza, che si vuol porre di là dalla rottura fra Giudei e Samaritani (circa il 535 a. C.; cfr. Esdra, IV,1-4).
Intorno al Pentateuco due questioni fra loro ben distinte, ma pure intimamente connesse, si dibattono da oltre un secolo: chi abbia composto il Pentateuco e di quali elementi lo abbia composto. Per la loro strettissima connessione però si sogliono concepire ed enunziare come una sola questione: la questione mosaica.
Il protagonista della maggior parte, cioè degli ultimi quattro libri, è Mosè (v.), di cui ci si racconta per ordine la vita e l'attività dalla nascita (principio dell'Esodo) alla morte (fine del Deuteronomio); le gesta e le leggi intermedie s'incardinano tutte sulla persona del grande condottiero. Di Mosè parla qui ogni pagina, ma sempre in terza persona. Tale forma letteraria non impedirebbe menomamente, come nel caso dell'Anabasi e dei Commentarî della guerra gallica, di ritenere Mosè medesimo per autore, che vi avrebbe scritto le memorie e come il diario dell'opera sua, premettendovi, come introduzione, il Genesi, e così attribuire a lui tutto il Pentateuco.
Tale fu infatti l'universale opinione dell'antichità e del Medioevo, dei cristiani e degli stessi pagani, non meno che dei Giudei. Si fondava questa su un triplice ordine d'argomenti: 1. nel Pentateuco stesso a più riprese si afferma che Mosè ebbe ordine di scrivere, e scrisse di fatto "nel libro" (bassefer) questo o quell'avvenimento, questa o quella legge (Esodo, XVII, 14; XXIV, 4; XXXIV, 27 seg.; Deut., IV, 13; XXXI, 9, 22, 24). È ovvio pensare che la redazione allora scrittane da Mosè sia in sostanza quella appunto che a noi giunse nel Pentateuco; né d'altra parte tali espressioni si hanno necessariamente da intendere in senso esclusivo; sicché diventava naturale estendere ad altre parti del Pentateuco l'attività letteraria di Mosè da esse attestata; 2. la capitale importanza dell'opera personale di Mosè nella formazione e legislazione della società israelitica, documentata appunto dai quattro ultimi libri del Pentateuco; 3. infine un'antica tradizione nazionale. Ogni ramo della letteratura ebraica ricorda qualche tratto del Pentateuco facendo il nome di Mosè: la storica (Giudici, I, 20; III, 4; I Samuele, XII, 6-8; I Re, II, 3; VIII, 53; II Re, XIV, 6; I Cronache, XV, 15; Esdra, III, 2, ecc.), la profetica (Michea, VI, 4; Isaia, LXIII, 11, segg.; Daniele, IX, 11-13; Malachia, IV, 4), la lirica e didascalica (Salmi, CIII, 7; CVI, passim; Ecclesiastico, XXIV, 23). Della posteriore letteratura basti ricordare Filone e Flavio Giuseppe, presso i quali Mosè è in possesso di tutta la sua aureola di legislatore e di scrittore. A tutto questo per i cristiani si aggiungeva l'autorità di Gesù e degli apostoli, che senza ombra di dubbio alcuno citano come di Mosè le prescrizioni del Pentateuco (Matteo, VIII, 4; XIX, 7 segg.; Marco, VII, 10; X, 3; Luca, II, 22; Giovanni, I, 45; V, 46; Atti, III, 22; Romani, X, 5, ecc.).
Tuttavia nel blocco attribuito così a Mosè si riconobbe per tempo qualche screpolatura. Una vecchia tradizione rabbinica raccolta dalla Mishnāh (v.) sottraeva a Mosè gli ultimi otto versetti del Deuteronomio, che narrano la morte del grande legislatore, il conseguente lutto e l'entrata di Giosuè, suo successore, a capo della nazione; la ragione è trasparente. La lista dei "re che regnarono in Edom, prima che gli Israeliti avessero un re" (Genesi, XXXVI, 31) parve a un rabbino medievale (Isacco ben Jasos, morto verso il 1058) portar in quel suo titolo marca sufficiente di aggiunta posteriore; e si toccava così un tasto documentario di alta risonanza. Il dotto Aben Esra (morto nel 1167), che confuta tale opinione, ebbe però dubbî su altri passi del Pentateuco, sebbene non osasse formularli chiaramente; tanto era profondamente radicata la persuasione che Mosè avesse scritto il Pentateuco e arrischiato l'opporsi all'unanime tradizione.
Per veder prendere consistenza a quei primi vaghi sospetti bisogna scendere sino ai tempi moderni. Dopo le avvisaglie del secolo XVII, specie di B. Spinoza e dell'oratoriano Richard Simon, venne la prima carica a fondo col libro del medico cattolico J. Astruc (v.): Conjectures sur les Mémoires originaux dont il paroit que Moyse s'est servi pour composer le livre de la Genèse, pubblicato anonimo nel 1753 ("à Bruxelles" nel titolo, in realtà a Parigi), dal quale propriamente comincia nella storia letteraria la "questione mosaica". Cavallo di battaglia per l'Astruc è la diversità dei nomi divini Jahvè ed Elohim. È un fatto che nel Genesi (e nei primi due capi dell'Esodo) a capi o sezioni in cui Dio (l'unico Dio dell'autore ebreo) è chiamato costantemente col termine comune di Elohim, si avvicendano altri che con altrettanta costanza gli dànno il nome proprio di Jahvè (v.). L'Astruc spiegò il fatto col supporre che Mosè, per comporre nel Genesi la storia delle origini, avrebbe tratto i materiali da due scritti più antichi, l'uno dei quali faceva uso di Elohim, l'altro di Jahvè, prendendo or dall'uno or dall'altro e completandoli con notizie brevi tolte qua e là da varie fonti (una decina).
Già nel titolo stesso del libro la tesi del medico francese si restringeva (come la diversità dei nomi divini) al primo libro del Pentateuco e non ne negava l'origine mosaica, appunto perché nel Genesi si raccontano fatti assai anteriori a Mosè. Ma quando, con la Einleitung in das Alte Testament di J. G. Eichhorn (Lipsia 1780-1783), l'afferrò la critica tedesca (che cominciava allora ad affermarsi), le conclusioni furono estese agli altri libri del Pentateuco (più tardi anzi anche a Giosuè, donde in tempi recenti si preferisce parlare di Esateuco) e al medesimo tempo fu negato, o almeno messo in questione, che Mosè ne sia l'autore. Si osservò, infatti, che differenze linguistiche e stilistiche (alcune già rilevate dall'Astruc) accompagnano il diverso uso dei nomi divini e queste non si fermano alla soglia dell'Esodo, ove cessa l'uso di Elohim, appunto perché allora l'autore elohista racconta che il nome Jahvè fu rivelato a Mosè e raccomandato qual distintivo del Dio adorato dagl'Israeliti. L'elohista non fu più un solo, ma due se ne distinsero: dall'uno verrebbe il fondo e come la trama dell'opera, dall'altro (al pari che dallo jahvista) i complementi (ipotesi complementare). Il Deuteronomio, rimanendo distinto per la sua singolare struttura, entrava come quarto elemento nella composizione del tutto. Con questi quattro fattori, ritenendosi come il più antico il primo elohista (quello del libro fondamentale, detto poi "codice sacerdotale" e designato con P = Priestercodex), lo stato della critica intorno alla metà del sec. XIX si esprimeva nella formula P E J D, che indicherebbe la successione, per ordine di tempo, dei quattro documenti (ipotesi documentaria), dalla cui fusione risulta l'attuale Pentateuco, cioè: 1ª elohista (sacerdotale), 2ª elohista, jahvista, deuteronomista.
Quest'ordine fu da capo a fondo rovesciato nel nuovo sistema di K. H. Graf (1866), perfezionato poi da J. Wellhausen (1876 segg.) che diede alla tesi critica la sua forma più divulgata e meno instabile sino ai nostri giorni. In questa il codice sacerdotale (P) non è il primo, ma al contrario l'ultimo in ordine di tempo dei quattro documenti o scrittori che concorsero a formare il Pentateuco; è posteriore ad Ezechiele (prima metà del sec. VI a. C.), che nei capi 40-48 del suo libro ne dà in parte il primo abbozzo, e non ebbe la sua forma attuale che al tempo e per opera di Esdra (sec. V a. C.). Il Deuteronomio viene quasi precisamente datato dal racconto II Re, XXII segg., dell'anno 18° di Giosia (621 a. C.). Infatti i caratteri del libro che ivi si narra trovato nel tempio, designano il Deuteronomio, composto allora (per una "pia frode", dicono gli uni, per una prosopopea rettorica consentita in antico, dicono gli altri) per introdurre la riforma religiosa attuata appunto in conseguenza da Giosia. Abbiamo così due punti fissi nel tempo. Gli altri due documenti sono più antichi: l'elohista, formatosi nel regno settentrionale (Israele) nel sec. VIII; lo iahvista (il più ingenuo di tutti) nel regno meridionale di Giuda nel sec. IX a. C. La formula, per numero e successione, sarà quindi J E D P. È chiaro che con tali conclusioni non si può parlare di Mosè autore, nonché di tutto il Pentateuco, neanche d'alcuno di quei documenti che entrarono direttamente nella sua formazione; solo non è escluso che i raccoglitori di antiche memorie (JE) abbiano incorporato nell'opera loro qualche elemento che risale a Mosè, p. es. il Decalogo (Esodo, XX).
Nel valutare questo sistema (che s'inquadra in tutta la concezione del Wellhausen della storia ebraica, per la quale v. Wellhausen), vanno tenute separate la distinzione dei quattro documenti e la loro datazione, che è la parte più largamente rivoluzionaria, ma anche più vulnerabile, del sistema. A stabilire la successione J E D P s'invocarono i principî teorici dell'evoluzione, concepita come rettilinea: il più semplice al principio, il più complesso alla fine. A sua volta quella datazione delle varie parti del Pentateuco importò una profonda revisione di tutta la storia del popolo d'Israele, riassunta in tre grandi fasi: all'epoca dei giudici e dei primi re (delle età precedenti poco o nulla si saprebbe di certo) puro diritto consuetudinario e una vaga religione nazionale, monolatria più che monoteismo; con i profeti (secoli IX-VI a. C.) subentra il vero monoteismo iahvistico, morale e spirituale; dopo l'esilio viene il legalismo, il culto della legge scritta, che forma propriamente il giudaismo. La massa di leggi che dà al Pentateuco il suo carattere più spiccato e il suo nome presso gli Ebrei (tōrāh) sarebbe il prodotto non della prima (come ce la presenta la Bibbia), ma dell'ultima età dell'antico popolo ebreo.
In quanto distinzione delle fonti in genere (poiché nei particolari c'è infinita varietà d'opinioni), questa teoria ebbe la più larga accoglienza presso i protestanti. A tacere della Germania, essa fu propagata in Inghilterra specialmente da S. D. Driver, in Francia da A. Westphal e L. Gautier, in Italia da S. Minocchi e G. Luzzi. Ma, specialmente per le età assegnate alle fonti, non le mancarono, nella Germania stessa, oppositori, critici di prima forza e di vario indirizzo. L'avversavano per diverse ragioni già sullo scorcio del sec. XIX filologi e storici come A. Dillmann, Fr. Hommel, R. Kittel; al principio del sec. XX la scuola delle religioni comparate e delle tradizioni popolari (Gunkel, Gressmann), e la scuola assiriologica, segnatamente la panbabilonista (Winckler); le scoperte in Oriente ne demolivano ora questo ora quel puntello; critici come Volz e Rudolph negano ora un elohista distinto dallo iahvista, e anche (Cassuto) dal codice sacerdotale, mentre altri, spingendo ancor più oltre i principî e il metodo del Wellhausen, portano a maggiori dissezioni l'analisi dei documenti o ad età più bassa la composizione. Così O. Eissfeldt trova, oltre alle quattro note, una quinta fonte "laica" (L); J. Hempel nel Deuteronomio distingue tre strati principali, oltre ai secondarî, e H. Hölscher lo fa scendere al sec. V a. C. Quindi un wellhauseniano tenace e convinto doveva scrivere: "Oggi la scuola del Wellhausen è costretta alla difensiva; essa deve proteggere non più solo i posti avanzati, ma le stesse posizioni centrali dagli assalti di destra e di sinistra" (W. Baumgartner, in Theologische Rundschau, 1930, p. 288). E più recentemente E. Sellin (Einleitung in das A. T., 6ª ed., 1932, p. 20): "Ci troviamo in un tempo di fermento e di transizione".
Infatti, per le circostanze del tempo, la brillante costruzione del Wellhausen può dirsi prematura. Poco dopo la sua pubblicazione e diffusione, in Oriente si succedettero una all'altra inaspettate scoperte di documenti che col Pentateuco o con l'età mosaica hanno molteplici e stretti vincoli e nella grave questione vogliono essere ascoltati. I principali sono: 1. l'archivio di Tell el-‛Amārna (1887), che tanto ci svela dello stato della Palestina proprio alla vigilia dell'invasione ebrea; 2. il codice di Hammurabi (1901), nel quale fu subito riconosciuto un parallelo, di tanti secoli più antico, al "codice d'alleanza" del Pentateuco (Esodo, XXI-XXIII); 3. i papiri di Elefantina (v.); 4. gli archivî di Boğazköy (v.) in Asia Minore (1907); 5. i sarcofagi dei re di Biblos (1923), prova palpitante che all'epoca mosaica l'alfabeto semitico adoperato dagli Ebrei nelle loro scritture era già pienamente costituito; 6. ancora ai giorni nostri le tavolette di Rās Shamrā, non ancora integralmente pubblicate, ma in cui già si annunziano tanti punti di contatto con i racconti, i costumi, le leggi del Pentateuco. Aggiungasi l'esplorazione propriamente archeologica, che ci mette sott'occhio la civiltà della Palestina fin dai tempi più remoti. Per questo medesimo che le operazioni sono ancora, si può dire, in corso e il prossimo avvenire può riserbarci altre sorprese, non sembra ancora venuto il tempo d'uno studio definitivo del Pentateuco, nonché di dir l'ultima parola sulla dibattuta questione della sua composizione. Qui, mirando anzitutto a informare dello stato presente degli studî, esporremo le caratteristiche più salienti che si adducono a mostrare la struttura composita del Pentateuco, mettendole nei loro limiti e nel loro giusto valore.
1. I nomi divini. - È la prima prova per ordine di tempo, la più patente e accessibile, e anche la più comunemente invocata, sebbene si convenga anche dai wellhauseniani che non è l'unica né la più convincente.
Per dare un'idea sufficiente del fenomeno diamo in cifre la frequenza dei nomi divini nei varî capi o racconti del Genesi: Gen., I (la creazione) 33 Elohim, 0 Jahvè; IV (Caino e posteri) 1 Elohim, 10 Jahvè; V (Seth e posteri) 5 Elohim, 1 Jahvè; VI-IX (diluvio) 19 Elohim, 12 Jahvè; X-XI (posterità di Noè) 0 Elohim, 7 Jahvè; XII-XVI (Abramo sino alla nascita d'Ismaele) 0 Elohim, 27 Jahvè (2 Adonai); XVII (circoncisione) 7 Elohim, 1 Jahvè; XVIII-XIX (Sodoma e Gomorra) 16 Jahvè (6 Adonai), 2 Elohim alla fine (le figlie di Lot); XX-XXIII (Abramo sino alla morte di Sara) 23 Elohim, 8 Jahvè (i Adonai); XXIV (Rebecca) 0 Elohim, 19 Jahvè; XXV-XXVII (Isacco) 2 Elohim, 14 Jahvè; XXIX-XXXII (Giacobbe) 21 Elohim, 10 Jahvè; XXXIII-XXXVII (Esaù, Sichemiti, Giuseppe venduto) 21 Elohim, 0 Jahvè; XXXIX (Giuseppe e Putifar) 1 Elohim, 8 Jahvè; XL-L (trionfi e morte di Giuseppe) 29 Elohim, 1 Jahvè; Esodo, I-II (gli Ebrei in Egitto) 8 Elohim, 0 Jahvè; III-IV (missione di Mosè) 10 Elohim, 32 Jahvè. Da indi in poi domina quasi esclusivamente Jahvè. Da notare in Genesi, II, III il nome composto Jahvè Elohim (20 volte, caso unico in tutta la Bibbia) adottato, sembra, per segnare il passaggio dall'Elohim del capo I al Jahvè del IV ossia per denotare l'identità dei due termini.
Questo il fatto; la spiegazione critica l'abbiamo udita in parte: qui si ha l'opera di due autori almeno, alternata nei più dei casi, fusa insieme dove i due nomi, come nel diluvio (Genesi, VI-IX), si equilibrano. Gli avversarî negano l'illazione. Tralasciando, come troppo artificiose, le risposte di quelli che fanno derivare quella varietà o dalla lettura pubblica delle varie pericopi (Dahse) o da non so qual giuoco di numeri (Hontheim), due tendenze si battono oggi per eludere la forza dell'argomento. Gli uni (Dahse, Hoberg, Wiener) oppongono che l'attuale testo ebraico non ha conservato fedelmente l'originale, avendosi nella versione greca dei LXX numerose varianti circa i nomi divini. Inoltre è certo che taluni libri hanno ricevuto ritocchi sotto questo aspetto; basta paragonare fra loro certi salmi o talune pericopi dei libri di Samuele con le corrispondenti delle Cronache per convincersi che in certi libri a un primitivo Jahvè fu sostituito sistematicamente Elohim. Però le sporadiche varianti dei LXX, che si trovano per lo più in manoscritti o gruppi secondarî, data anche l'indole non servile della versione, non hanno forza contro la regolarità e intrinseca armonia del testo masoretico, più fedele, più conservatore in questa parte. L'analogia dei Salmi e dei libri di Samuele tenderebbe a provare che le pericopi elohistiche ebbero un tempo esistenza (cioè tradizione) separata, senza implicare con ciò diverso autore. Certo non sembra potersi negare la connessione dell'uso di Elohim con la rivelazione del nome di Jahvè riferita in Esodo, VI. Ma rimarrebbe sempre la possibilità che quell'uso sia dovuto non al primo autore, bensì a sistematico ritocco posteriore, come nei Salmi.
Altri (Möller, Jacob, Bea, Cassuto) derivano l'alternanza dei nomi divini sia dal loro proprio significato, sia da certe leggi stilistiche e letterarie. È ben certo che i due nomi Elohim e Jahvè non sono perfettamente equivalenti, né si possono sempre porre l'uno per l'altro. Elohim è nome di natura, generico; Jahvè quasi nome personale, individuale; Elohim si dice di preferenza come autore dell'ordine fisico, Jahvè come autore dell'ordine morale e della rivelazione; Elohim, universalistico, abbraccia tutto il genere umano, Jahvè, specificamente israelita, è nume tutelare del popolo ebreo; Elohim è più astratto, oggetto della speculazione teologica, Jahvè più vicino all'uomo, oggetto del culto e della divozione popolare. Oltre queste sfumature di senso, l'uso vivo della lingua in certe frasi adopera costantemente un termine a esclusione dell'altro; così dice sempre īš ha-Elōhīm (uomo di Dio), ma dĕbar Jahveh (parola di Dio); la distruzione di Sodoma, raccontata in una sezione iahvistica del Genesi (XVIII-XIX) è detta con locuzione stereotipa mahpekat Elōhīm (in Isaia, Geremia, Amos). Osservazioni giustissime, di cui è da tener conto. Tuttavia a voler con esse sole spiegare in ogni caso il vario uso dei nomi divini nel Pentateuco si deve sovente sottilizzare di troppo. Rimane però sempre luogo all'arbitrio dell'autore, che si coglie sul fatto in altri libri (p. es., in I Samuele, IV-V l'arca santa ora è ărōn Jahveh, ora ărōn Elōhīm e altro ancora). E infine anche i difensori della distinzione delle fonti ormai convengono che la diversità dei nomi divini non è criterio da sé sufficiente a provare diversità di autore o di fonte.
2. Lingua e stile. - Infatti, dicono, all'alternare dei nomi divini si accoppia una simile diversità di altre parole e costrutti: per dire "io" lo jahvista usa anōkī, il 2° elohista anī; l'azione creativa in Gen., I è un bārā', in Gen., II, 4 segg. è yāṣar; la fantesca per J è šifḥāh, per E amāh; l'atto generativo (del padre) Gen., IV è yalad (forma kal), Gen., V hōlīd (forma hiphil); gli abitanti della Palestina prima degli Ebrei da J son detti Cananei, da E Amorrei. Il terzo patriarca dall'elohista è sempre chiamato Giacobbe, dallo iahvista anche, e spesso, Israele. La diversità si prolunga oltre il Genesi: il monte della teofania quando è detto Sinai, quando Horeb; il suocero di Mosè ora ha nome Jetro, ora Raguel, e così via.
Però anche qui sottili differenze di senso, di argomento o di situazione hanno spesso influenza decisiva sul variare dell'espressione. Il Cassuto fa valere l'uso del genere letterario; nel linguaggio del diritto, p. es., la serva si dice amāh, ed è perciò questo il termine preferito nelle leggi, e quindi in P (2ª elohista). Presso i critici la ripartizione dei vocaboli caratteristici fra le varie fonti non è poi sempre costante o rigorosa. È tutt'altro che raro il caso che si consideri, almeno praticamente, come esclusivo d'una fonte ciò che soltanto è in essa più frequente, e pertanto di scarso o niun valore a servir di criterio per la distinzione delle fonti. È insomma anche questo un argomento di delicato impiego e da non usare mai solo.
3. Duplicati. - I medesimi avvenimenti o le medesime leggi, si osserva, vengono riferiti in forma poco diversa due e fin tre volte: la creazione Gen., I, 1-II, 3 e II, 4-24; le due genealogie di Caino (IV) e di Set (V) hanno comune la maggior parte dei nomi; nel diluvio (VI-IX) due racconti s'intrecciano; due volte è cacciata Agar (XVI e XXI), due volte è in pericolo l'onestà di Sara (XII, XX) e una terza quella di Rebecca (XXVI). La vocazione di Mosè Esodo, III e VI; la manna e le quaglie nel deserto Esodo, XVI e Numeri, XI; la prova alle acque di Meriba Esodo, XVII e Numeri, XX; il Decalogo Esodo, XX e Deuteronomio, V; la legislazione delle feste Esodo; XXIII, 14-19; Levitico, XXIII; Numeri, XXVIII: inoltre tutto il Deuteronomio ci si presenta appunto come una "ripetizione" della legge con adattamenti e ritocchi.
Alcune di tali ripetizioni sono più apparenti che reali e si possono spiegare come due fatti simili, ma diversi. Nel testo medesimo, il ritorno di una serie parallela a Esodo, XIX-XXIV in XXXIV (salita di Mosè al monte, le tavole della legge, il patto giurato fra Dio e popolo) è spiegato con la rottura del primo patto per l'apostasia temporanea del popolo (XXXII). Ma ce ne rimangono che resistono a ogni conato per distinguerli; la provvista di quaglie, p. es., non è meraviglia che si sia ripetuta nel lungo spazio di quasi quarant'anni; ma il fatto di Meriba fu certamente uno solo e lasciò un ricordo indelebile nella coscienza della nazione (cfr. Salmo LXXXI, 8; XCV, 8; CVI, 32; Ezechiele, XLVII, 19, ecc.). Tali veri doppioni sono l'argomento più forte per quelli che sostengono la struttura composita del Pentateuco. Essi tuttavia non si oppongono assolutamente a un'originaria unità d'autore, se teniamo conto degli usi orientali nel comporre e trasmettere le opere letterarie; e infatti simili ripetizioni e divergenze si riscontrano anche (sia pure in minor copia) nel Corano, sulla cui unità e sul cui autore non cade dubbio; ma domandano una spiegazione.
4. Variazioni nella legislazione. - Tra le ripetizioni speciale attenzione vuol farsi a quelle che in materia di legge portano insieme una modificazione; per il servizio di Leviti, ad es., si prescrive l'età di 25 anni (Numeri, VIII, 24); per i Leviti della stirpe di Caat se n'esigono 30 (Numeri, IV, 3). La più celebre e grave di tali modificazioni riguarda il luogo del culto o sacrificio (tempio e altare); Esodo, XX, 24 si può erigere un altare in qualunque luogo reso memorabile da qualche fatto divino e ivi s'immolano le vittime sacre (non si escludono altre mattazioni profane); Levitico, XVII, 3-9 non si permette alcuna uccisione d'animale se non presso l'altare su cui si deve versare il sangue, e questo altare, col sacro tabernacolo, è unico per tutti; Deuteronomio, XII,1-28 il tempio e l'altare è unico, e fuori di lì non si possono offrir vittime a Dio; ma si possono uccidere animali per uso della vita, la qual uccisione ormai è riguardata come profana (così la ovvia e comune interpretazione, recentemente negata da Oestreicher e altri, che intendono in senso identico a Esodo, XX, 24).
Questo è uno dei luoghi più evidenti in cui, mentre la prima legislazione (Esodo-Numeri) suppone le condizioni di vita nomade che si conduceva nel deserto sinaitico, il Deuteronomio espressamente si dà come un adattamento alla novella vita sedentaria che si sarebbe condotta nella Palestina conquistata. E l'unità di tempio e d'altare è (dicono) il carattere più saliente della legislazione deuteronomistica, della riforma preparata già da Ezechia (II Re, XVIII, 4), ma che fu compita poi da Giosia (v. sopra). Prima d'allora vigeva la legge di Esodo, XX, 24: moltitudine, legittima e riconosciuta, di altari, sparsi per tutto il paese. Levitico, XVII non è (sostiene la scuola critica) che una ricostruzione teorica, fatta dopo il ritorno dall'esilio, per far rimontare sino a Mosè la pratica già stabilita dell'unico luogo di culto. Infatti, osservano, nei libri dei Giudici (VI, 24-28; XIII, 15-23), di Samuele (I, VII, 9, 17; IX, 11; XI, 15; XVI, 2-5; II, XV, 7-12; XXIV, 18-25), dei Re (I, III, 2-4; XV, 14; XVIII, 30-32, ecc.) leggiamo di altari eretti e sacrifici offerti a Jahvè un po' per tutto, privati e pubblici, da re e da profeti; Elia persino fa gravi lagnanze perché gl'Israeliti, rotto il patto con Jahvè, ne abbiano distrutto gli altari (I Re, XIX, 10, 14). Dare una soluzione a questa che sembra la più grave difficoltà storica all'opinione tradizionale equivale a sciogliere la questione mosaica; donde si vede come il Deuteronomio sta, si può dire, al centro della questione.
Invero la soluzione della questione mosaica, per quanto possa darsi allo stato presente degli studî, non può formularsi in poche parole. Distinguiamo anzitutto il racconto o la storia dalla legislazione. È possibile, come vuole una recente scuola detta "della storia delle forme" (formgeschichtlich), che i singoli fatti, o meglio singoli cicli, della storia abbiano avuto da principio distinta origine ed esistenza letteraria (a voce o anche in scritto). Ma chi le unì insieme nel grandioso ciclo del Pentateuco fu certo una mente sola. L'unità fondamentale del Pentateuco è messa in bella luce dalla critica stessa che ne ha sezionato ogni particella per restituirla ai supposti autori. Risultato dell'analisi è la supposizione (in parte ricostruzione) di due o tre scritti (documenti), che narrano con lievi differenze le stesse cose nello stesso ordine. Non si compone così due volte senza dipendenza, senza riferimento a un punto comune. Nell'ipotesi critica dietro i documenti bisogna intravvedere una fonte unica, una grande epopea, sia pure in prosa popolare. La questione della mosaicità è così non sciolta ma spostata. Analogamente potrebbe dirsi della legislazione; dietro il cumulo di tante leggi sta un grande codice, che a tutte ha infuso il suo spirito animatore. Ma restiamo per ora nella parte narrativa.
Per chi propugna, sotto qualunque forma, la rinnovata ipotesi dei "complementi" (Volz, Heinisch), ovvero nega ogni diversità di fonti (Cassuto e i più rigidi conservatori) non resta che fare il nome del grande autore della nostra epopea: è lo jahvista per gli uni, è Mosè medesimo per gli altri. Ma per chi ammette (e sembra ancora il più verosimile) che le doppie relazioni e le diversità di stile o di lingua provino a sufficienza che un tempo esistettero due completi racconti paralleli, si va facendo strada da qualche tempo una spiegazione, che può confortarsi con altri esempî simili, ma più certi, nella letteratura ebraica; un medesimo originale fu tramandato per due vie diverse (p. es., in Giuda e in Israele), prendendo col tempo anche forme un po' diverse, come accade nella trasmissione di opere letterarie; così abbiamo nella stessa Bibbia ebraica due collezioni di salmi davidici (I-XL e LI-LXXII), due collezioni di sentenze (o proverbî) salomonici (Prov., X-XXII, 15 e XXV-XXIX); così le due recensioni del libro di Geremia (masoretica e greca dei LXX), così in greco le due recensioni del libro di Tobia. In uno dei due rami della trasmissione (il settentrionale?) al nome originario Jahvè fu sostituito il comune Elohim, come nella seconda collezione davidica dei Salmi. Più tardi un redattore (già forse ai tempi di Ezechia) riunì le due recensioni, fondendole in un solo racconto senza alterare le fattezze proprie di ognuna, talora contentandosi di giustapporle. Così si spiegherebbero i fenomeni che fecero credere all'esistenza di due fonti diverse, jahvista ed elohista. La questione più importante è qui: chi era e quando visse quel primo e unico vero autore? I critici, quali Volz e Cassuto, rispondono: un anonimo, che fiorì ai tempi di Davide o verso la fine dei giudici; Mosè, rispondono i più conservatori; né contro di loro può farsi valere argomento decisivo.
Nella legislazione bisogna ancora distinguere varie parti o (per dirla con termine giuridico passato in uso) codici: quattro sono nel testo medesimo nettamente distinti con proprî titoli al principio o alla fine e da speciali caratteri letterarî: 1. il Decalogo (Esodo, XX, 1-17; cfr., Deut., V, 6-21); 2. il "libro del patto" (Esodo, XXIV, 7) o codice dell'alleanza (Esodo, XXI-XXIII; riassunto XXXIV, 10-28); 3. le leggi di santità (Levitico, XVII-XXVI); 4. il Deuteronomio in stretto senso (Deuter., XII-XXVI); a questi si aggiungano: 5. le leggi cerimoniali o sacerdotali (Levitico, I-XVI e gruppi minori Numeri, III-VI; XV, XVIII, XIX). Il Decalogo, carta fondamentale della costituzione ebraica, codice religioso-morale di valore universale e perciò rimasto in vigore nella chiesa cristiana, è la parte che universalmente si ritiene autentica e solo pochi ostinati moderni la rifiutano a Mosè. Il codice dell'alleanza è un codice civile fatto per una società primitiva sedentaria; è quello che ha più somiglianza con il codice di Hammurabi e però sembra essere d'origine più antica di Mosè; forse era già applicato nella società israelita in Egitto; il grande legislatore lo avrebbe ritenuto e confermato. Nel Deuteronomio, adattamento delle leggi precedenti, come abbiamo già osservato, alle nuove condizioni della vita in Palestina, l'ispirazione mosaica per il fondo è non solo possibile, ma verosimile. La forma oratoria, date le circostanze, poté anche essere la veste primitiva. Ma appunto per essere la più acconcia alle pubbliche letture nelle adunanze festive, si prestava ad ampliamenti e ritocchi formali. Il non essere stata osservata fino alla tarda monarchia la legge dell'unico altare non è di per sé una prova che il Deuteronomio non possa nella sua sostanza risalire a Mosè. Promulgato, per il suo scopo, alla vigilia del passaggio in Palestina, non ebbe tempo a fissarsi né nella memoria né nella pratica, e fu travolto nella lunga e aspra lotta per la conquista, che disgregò la nazione, disperse le forze e distrasse le menti. In tali circostanze non desta meraviglia che cadesse in disuso, in oblio.
Infine le leggi rituali o cerimoniali hanno caratteri proprî anche formali. Ma è anche ovvio che il legislatore non le rediga egli direttamente, bensì ne incarichi qualcuno del ceto sacerdotale, riservandosene l'approvazione. Di qui altra fonte di differenze stilistiche, senza pregiudizio dell'unità della legislazione e della suprema autorità del legislatore. Ma è pur vero che la pratica stessa con lo sviluppo del culto induce facilmente in tali leggi variazioni e aggiunte.
Quando siano fatte nello spirito del codice iniziale e nella direzione da esso impressa, non rompono l'armonia del codice stesso, e vengono facilmente attribuite nella pubblica stima al primo legislatore. Quando questi varî corpi di leggi siano stati uniti fra loro e con l'epopea già detta in un sol libro, l'attuale Pentateuco, è difficile dire. La critica moderna s'incontra in sostanza con l'opinione frequente, se non comune, già nell'antichità cristiana col farne definitivo redattore Esdra, "lo scriba esperto nella legge di Mosè", come lo chiama il sacro testo nel libro che ne porta il nome (I Esdra, VII, 6), dando a questa sentenza un qualche appoggio. Tuttavia è un ostacolo, ci sembra, insormontabile il Pentateuco samaritano (v. sopra). Ci sembra che gli sforzi, che sappiamo sostenuti per secoli da Ezechia, da Giosia, e continuati durante l'esilio, per l'unità e purezza della religione fra tutte le tribù e per la conservazione della letteratura sacra, abbiano maturato ancor prima questo gran frutto del Pentateuco attuale, in un tempo cioè in cui i Samaritani poterono senza difficoltà e diffidenze accettarlo di mano dei Giudei.
Ciò spiega come la scienza possa ritrovare nel Pentateuco un buon nucleo autenticamente mosaico frammezzo ad accrescimenti d'età posteriore. Né più sembra domandare la fede cattolica, quando vuol salva la sostanziale autenticità e integritâ del Pentateuco, e lascia passare aggiunte, purché ispirate, e mutazioni accidentali posteriori a Mosè (v. il decr. della Commissione biblica 27 giugno 1906).
Bibl.: La questione viene trattata più o meno ampiamente in ogni commento o introduzione all'Antico Testamento e nei Dizionarî biblici. La tesi critica è specialmente esposta in J. Wellhausen, Die Composition des Hexateuchs, 3ª ed., Berlino 1899; A. Kuenen, Historisch-critisch onderzoek, 2ª ed., Leida 1887 (trad. ted., Lipsia 1887; inglese, Londra 1886); H. Holzinger, Einleitung in den Hexateuch, Lipsia 1893; J. E. Carpenter, The Composition of the Hexateuch, Londra 1902; A. Westphal, Les sources du Pentateuque, voll. 2, Parigi 1888-92; O. Eissfeldt, Hexateuch-Synopse, Lipsia 1922. La conservativa in E. Mangenot, La mosaïcité du Pentateuque, Parigi 1907; A. Šanda, Moses u. d. Pentateuch, Münster 1924; A. Lipman, Authenticité du Pentateuque, Parigi 1929; W. Möller, Die Einheit und Echtheit der 5 Bücher Mosis, Salzuflen 1931; A. Bea, De Pentateucho, Roma 1933. Ultimi studî: M. G. Kyle, Moses and the Monuments e The Problem of the Pentateuch, Oberlin 1920; W. T. Pilter, The Pentateuch: A historical Record, Londra 1928; P. Volz e W. Rudolph, Der Elohist als Erzähler ein Irrweg der Pentateuchkritik?, Giessen 1933; U. Cassuto, La questione della Genesi, Firenze 1934; B. Jacob, Das erste Buch der Tora, Berlino 1934.