Pensioni
Tra necessità economica
e sostenibilità sociale
La riforma
delle pensioni,
una necessità
non solo italiana
di Tiziano Treu
28 luglio
Dopo un acceso dibattito la Camera dei deputati approva in via definitiva, con 288 voti a favore e 119 contrari, la legge delega per la riforma del sistema previdenziale. Il nuovo assetto normativo si propone due obiettivi, largamente condivisi a livello europeo: elevare gradualmente l'età pensionabile e sviluppare la previdenza complementare, da affiancare a quella pubblica. La riforma avrà piena attuazione nel 2008, ma prima di quella data sono previsti incentivi economici per coloro che, in possesso dei requisiti richiesti per il pensionamento, decidano di continuare a lavorare.
Motivi di riforma e indicazioni europee
Gli ultimi anni hanno visto susseguirsi in tutta Europa interventi di riforma del sistema previdenziale, in special modo di quello pensionistico. Numerosi i provvedimenti adottati anche in Italia, il più recente dei quali quello varato il 28 luglio 2004. I motivi che hanno dato origine a queste riforme non sono contingenti ma strutturali: è per questo infatti che sono destinati a perdurare. Sono legati infatti alle trasformazioni del contesto economico e del mercato del lavoro: dal tasso di crescita, meno prevedibile che in passato, al mix occupazionale caratterizzato da lavori diversificati e variabili agli andamenti demografici (calo della natalità e allungamento della vita media).
Questi cambiamenti incidono su tutti gli aspetti del welfare, dalla sanità ai vari settori dell'assistenza, agli ammortizzatori sociali, al welfare familiare, ma hanno un impatto particolarmente diretto, talora esplosivo, sull'assetto pensionistico; perché le pensioni sono la componente non solo più rilevante del welfare ma anche la più complessa, dove si incrociano e si scaricano variabili diverse: quantità e qualità della ricchezza nazionale, i caratteri dell'occupazione e più in generale del modello economico e sociale delle comunità nazionali.
Non a caso le scelte in tema di pensioni e di welfare sono ritenute, anche nell'Unione Europea, competenza degli Stati nazionali e sottratti in quanto tali al potere legislativo dell'Unione. Tuttavia la materia sta assumendo una dimensione non più esclusivamente nazionale e sta diventando oggetto di riflessione anche in sede comunitaria (cfr. Adequate and sustainable pensions 2001; Economic policy committee 2000). Il motivo più pressante è che gli attuali sistemi di welfare hanno in molti paesi e per molti settori (pensioni, sanità) implicazioni dirette sul debito pubblico. Quindi il vincolo europeo è destinato a influenzare per questa via le politiche nazionali, anche al di là delle competenze direttamente attribuite all'Unione Europea. L'aumento dell'attenzione comunitaria a tale tematica deriva anche da una considerazione in senso lato politica, diversa e potenzialmente contrastante con la prima: cioè dal fatto che la costruzione di una 'dimensione sociale' comune, più ricca di quella attuale può rassicurare i cittadini europei, compensarli dei costi dell'unificazione (quelli effettivi e quelli temuti) e vincere le tentazioni (già visibili) a rifluire su opzioni nazionalistiche. Di questa dimensione comune fanno parte sia politiche economiche e dell'occupazione finalizzate a promuovere una competitività solidale nel progresso, sia politiche di welfare in grado di rispondere alle situazioni di incertezza causate dall'integrazione dei mercati.
Le indicazioni comunitarie sottolineano spesso questo secondo aspetto: la necessità di un approccio complessivo alla riforma del sistema, che non si riduca alla dimensione finanziaria, ma comprenda la sostenibilità sociale, cioè la capacità del sistema di rispondere ai mutevoli bisogni della società e degli individui. Ma la tensione fra le due spinte opposte, una al contenimento della spesa e l'altra al soddisfacimento dei bisogni sociali crescenti, è lungi dall'essere risolta: essa rende contrastati tutti i tentativi di riforma che si sono susseguiti nei vari paesi, anche quelli messi in atto da maggioranze politiche solide.
La soluzione del problema risente di diverse concezioni, presenti anche in Europa, riguardanti le modalità del soddisfacimento dei fondamentali bisogni sociali e le responsabilità relative: se e quanto esse competano allo Stato e alle istituzioni pubbliche, o invece debbano essere lasciate alle iniziative dei singoli sul mercato; più specificamente se la previdenza pubblica debba essere organizzata su base universalistica oppure categoriale.
Una caratteristica propria di vari paesi è che gli interventi di riforma sono stati per lo più realizzati a stadi successivi, anche quando hanno avuto l'ambizione di mirare a obiettivi organici (come illustra la Relazione congiunta della Commissione e del Consiglio in materia di pensioni adeguate e sostenibili, Bruxelles 2003). Questo modo di procedere è rischioso in una materia, come la previdenza, che proprio in quanto inerente la vita di milioni di persone, non dovrebbe essere continuamente tenuta 'in ebollizione'; e se ne possono vedere bene gli inconvenienti (non solo) nelle vicende italiane. Nel complesso si può peraltro rilevare che le correzioni introdotte nei sistemi previdenziali europei sono state graduali e non demolitorie: la quota di spesa sociale è rimasta costante nella generalità dei paesi.
Problemi comuni e anomalie italiane
La tendenza è stata semmai a contenere la crescita della spesa pensionistica, contrastando le spinte introdotte soprattutto dalle dinamiche economiche e demografiche (calo della natalità e allungamento delle aspettative di vita). Queste sono tendenzialmente dirompenti rispetto agli equilibri tradizionali costruiti nel secolo del fordismo.
Tali sono stati gli obiettivi delle principali riforme introdotte in Italia negli ultimi dieci anni - di cui dirò subito - e di analoghi tentativi attuati in vari paesi: la riforma svedese, che ha rivisto a fondo il sistema pensionistico adottando il metodo contributivo, anche se con utili varianti rispetto a quello italiano, le modifiche della Francia, basate soprattutto su un aumento graduale dei requisiti di contribuzione, e quelle in itinere della Germania.
Le riforme italiane rispondono in parte a motivi comuni, ma risentono di caratteristiche specifiche del nostro sistema pensionistico, che ne hanno aggravato i profili di criticità: il peso del debito pubblico pregresso, la debolezza e gli squilibri della crescita economica, il basso tasso di occupazione, i cambiamenti dell'equilibrio demografico e della struttura familiare, il peso rilevante della spesa pensionistica rispetto alle risorse dedicate agli altri istituti. Tali caratteristiche si combinano con alcune anomalie proprie del nostro sistema, rendendo ancora più difficile il cammino delle riforme (cfr. Treu 2000, p. 125 e sgg.).
Una prima anomalia consiste nel ritardo con cui l'attuale assetto di welfare, quello pensionistico in primis, è venuto a maturazione in Italia. Esso si è compiuto fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, proprio quando cominciavano già ad affacciarsi quegli elementi strutturali che stanno determinando la crisi degli attuali modelli di welfare in tutta Europa: il rapido invecchiamento della popolazione, le crescenti incertezze e i rallentamenti della crescita economica, i cambiamenti tecnologici e dei mercati, l'evoluzione delle strutture familiari. Il ritardo di maturazione del sistema ha accresciuto le difficoltà degli interventi riformatori, perché hanno dovuto incidere su aspettative appena riconosciute, dopo essere state a lungo coltivate in tutto il corpo sociale.
Una seconda anomalia italiana consiste nelle storture del nostro sistema pensionistico e degli ammortizzatori sociali, che presentano molteplici trattamenti differenziali, sovente slegati dalle caratteristiche professionali delle diverse categorie e correlati alla capacità di pressione politico-sindacale delle stesse. Le varie forme pensionistiche sono cresciute per successive estensioni e rincorse fra categorie, con un processo di imitazione tanto costoso quanto distorsivo. Il cosiddetto rapporto Onofri (Rapporto della Commissione per l'analisi delle compatibilità macro economiche della spesa sociale) del 1997, che costituisce ancora oggi un documento fondamentale di analisi e di proposta in materia di riforma del welfare, segnala con preoccupazione la gravità di questa caratteristica: la pensione di vecchiaia di un lavoratore 'forte', cioè dipendente regolare da un'impresa, può essere fino a quattro volte superiore alla pensione sociale, mentre negli altri paesi il rapporto tende a essere di due a uno.
Le riforme degli anni Novanta
Nonostante queste difficoltà, gli anni Novanta hanno prodotto risultati significativi; a cominciare dal primo intervento riformatore attuato da Giuliano Amato nel pieno della crisi del 1992-1993, quando il peso del costo pensionistico lasciava prefigurare, insieme agli altri problemi aperti, il rischio di un vero e proprio crollo finanziario del paese. Questo provvedimento introdusse misure 'tampone' ma di impatto strutturale ancora rilevante: come quelle dirette allo sganciamento della dinamica delle pensioni da quella delle retribuzioni, l'allungamento del numero degli anni utili per definire la retribuzione di riferimento cui commisurare la pensione, l'avvio del processo di avvicinamento delle pensioni del settore pubblico a quelle del settore privato, i primi provvedimenti rivolti a regolare e a sviluppare fondi di pensione complementare a capitalizzazione (cfr. in generale La riforma del sistema pensionistico 1996). Il punto centrale della revisione del sistema previdenziale in Italia è ancora oggi rappresentato dalla l. 8 agosto 1995, nr. 335 (cosiddetta legge Dini).
Fondamentale è stata l'introduzione del metodo di calcolo contributivo al posto del tradizionale metodo cosiddetto retributivo. Il metodo contributivo realizza il calcolo della pensione per tutti in modo eguale in base al cumulo dei contributi versati nel corso della vita e non all'ultima retribuzione, che può variare in modo arbitrario e non riflettere l'intera carriera retributiva. In secondo luogo il nesso strutturale che si è introdotto tra contributi e prestazioni, unito con il legame alle aspettative di vita, ha dato al sistema una capacità di stabilizzazione automatica. L'allungamento della vita media, che è stato eccezionale negli ultimi anni, è il principale fattore destabilizzante dei sistemi pensionistici tradizionali. Con la regola introdotta dalla l. 335/1995 tale fattore viene neutralizzato, adeguando periodicamente il coefficiente di trasformazione
del montante contributivo raggiunto al termine della vita lavorativa; quando la durata della vita si allunga si tiene conto di ciò, 'spalmando' il montante su più anni di pensione pagata, cioè dividendolo per tale durata. La legge prevede che l'adeguamento si faccia ogni 10 anni.
Tale automatismo del nesso contributi-prestazioni fornisce un criterio trasparente, che sottrae la dinamica pensionistica alla discrezionalità politica, o perlomeno ne riduce l'influenza. Infine, il sistema acquisisce flessibilità, perché la correlazione della pensione con la vita passata del soggetto e con la sua aspettativa di vita futura non rende più necessaria la definizione di limiti fissi al licenziamento. La l. 335/1995 stabiliva infatti una fascia di età pensionabile, da 57 a 65 anni, entro i quali il singolo poteva decidere, a seconda delle sue esigenze, con la conseguenza peraltro di avere pensioni più o meno alte a seconda di dove si collocasse nella fascia.
Gli interventi di riforma degli anni Novanta sono stati condotti in parallelo con l'introduzione di modifiche nella disciplina della previdenza complementare. Avviate quasi in sordina, o comunque in tono minore nel 1992-1993, le innovazioni della previdenza complementare si sono rivelate di rilevanza crescente e hanno manifestato un potenziale di influenza decisivo per l'intero assetto del welfare pensionistico, compreso quello pubblico. L'insieme di queste riforme ha consentito una forte omogeneizzazione delle regole vigenti (si pensi agli importanti risultati raggiunti circa le regole del pubblico impiego) e un cambiamento di rotta del sistema. Secondo le stime del Ministero del Tesoro (Documento sulla convergenza della Commissione Brambilla, 1998), senza tali modifiche legislative la spesa pensionistica sarebbe salita al 23,37% del PIL nel 2040 mentre, con le nuove regole, è prevista una spesa pari al 16% nel 2033 per arrivare a regime nel 2040 al 14% del PIL.
Nonostante questi risultati l'opera di riforma attuata negli anni Novanta non si è potuta ritenere conclusa. Uno dei limiti di tali interventi, compresa la l. 335/1995, è stata giudicata l'eccessiva lentezza della loro entrata a regime. Come si dovesse proseguire, in continuità o discontinuità con le direttive precedentemente seguite, è stato controverso soprattutto a riguardo dell'oggetto e della portata, anche finanziaria, delle modifiche necessarie: lo dimostrano i contrasti sollevati dalla legge delega proposta dal governo a fine 2001 e approvata dal Parlamento solo nel luglio 2004. Alcune linee di convergenza sono peraltro emerse e sono quelle dirette a completare il percorso avviato dalla l. 335/1995 e continuato con la l. 27 dicembre 1997, nr. 449, e i relativi decreti attuativi.
Completare la riforma delle armonizzazioni
Una prima esigenza, ampiamente riconosciuta anche nel testo normativo approvato il 28 luglio 2004, è di portare a termine l'opera di armonizzazione cominciata con le citate normative. Si tratta di passare dalla parziale e graduale armonizzazione dei regimi pensionistici speciali realizzata nel 1997 a una vera e propria unificazione del sistema e delle sue regole fondamentali: tassi di rendimento, sistema di calcolo, accessi, metodi di perequazione ecc. L'operazione è difficile perché riguarda categorie professionali storicamente forti (elettrici, telefonici, ferrovieri, magistrati, parlamentari ecc.), ma risponde a evidenti ragioni di giustizia. Né va dimenticato che il deficit del bilancio INPS dipende in misura significativa proprio dal peso di alcuni regimi privilegiati. Il completamento di questi aspetti della riforma presuppone anche la migliore definizione delle ipotesi nelle quali si possono legittimamente mantenere trattamenti pensionistici differenziati, legandoli meglio alle effettive caratteristiche del lavoro e non a generiche posizioni di categoria o ad altrettanto generiche esigenze di 'assistenza' (lavori usuranti in primis).
Un ulteriore obiettivo utile a rafforzare entrambe le linee di riforma riguarda l'assetto istituzionale del sistema pensionistico, cioè la correzione dell'attuale pluralità di enti preposti alle varie forme pensionistiche: una pluralità istituzionale che ha operato a sostegno della frammentazione dei regimi e dei trattamenti. La proposta, avanzata da più parti, di perseguire l'unificazione di tutte le gestioni pensionistiche pubbliche in capo a un grande INPS è apparsa anche a chi scrive, non solo prematura, ma poco utile o controproducente; se non altro per gli effetti di concentrazione amministrativa e di potere in una sola realtà con i rischi di incontrollabilità conseguenti.
Una razionalizzazione è particolarmente urgente invece nell'area delle molteplici gestioni previdenziali professionali e di mestiere, anzitutto con la previsione di regole omogenee almeno per gli aspetti fondamentali, gli accessi, il metodo di calcolo, i principi di perequazione, al fine di evitare il riprodursi delle distorsioni tradizionali.
Inoltre, per contenere i rischi di crisi finanziarie, l'attuale assetto pluralistico degli enti richiede di essere riconsiderato alla luce dell'andamento qualitativo e quantitativo delle varie categorie professionali. È prevedibile che il peggioramento del rapporto tra attivi e pensionati comporti in molti enti una massa critica inadeguata a una gestione finanziariamente sostenibile. L'armonizzazione del sistema ha incontrato difficoltà particolari, oltre che nel rapporto fra le pensioni del settore privato e del settore pubblico, ancora più fra quelle del lavoro subordinato e quelle del lavoro autonomo. I motivi sono radicati nella storia del lavoro autonomo, che è sempre stato oggetto di considerazione separata, nel diritto previdenziale come in quello del lavoro. Esso è stato assoggettato ad alcune regole fondamentali comuni, ma ha mantenuto trattamenti specifici solo in parte fondati su effettive diversità.
Oltre che dal lato delle prestazioni, il sistema pensionistico va armonizzato anche dal versante dei contributi. Questi ora sono diversi tra i diversi tipi di lavoro: subordinato, autonomo, parasubordinato. Quelli del lavoro subordinato sono troppo alti, gli altri ingiustificatamente bassi. Il percorso di armonizzazione è stato avviato nella scorsa legislatura, nei due sensi, riducendo di circa il 4,5% gli oneri cosiddetti 'impropri' sul lavoro dipendente e prevedendo l'innalzamento graduale dei contributi sul lavoro autonomo e parasubordinato sino al 19%. Proseguendo su questo percorso un'ulteriore riduzione degli oneri sul lavoro subordinato (32,7%) è necessaria per contrastare una penalizzazione sul lavoro dipendente che ostacola lo sviluppo di settori ad alta intensità di occupazione e quindi l'innalzamento del nostro tasso di occupazione. L'incidenza negativa degli alti costi indiretti del lavoro sul tasso di occupazione, in particolare nei servizi, è ampiamente riconosciuta. Inoltre essa avrebbe l'effetto positivo di favorire la trasparenza del mercato del lavoro, eliminando la tendenza a impiegare con contratti parasubordinati, autonomi e anche di associazione in partecipazione, lavoratori che svolgono attività di tipo subordinato. Per evitare questo utilizzo distorto di contratti diversi al posto di quello tipico, non basta intensificare i controlli (pure necessari). Occorre togliere l'incentivo ad adottare forme di lavoro falsamente autonomo che è costituito dai costi minori. Per lo stesso motivo la riduzione del cuneo contributivo agevolerebbe l'emersione del lavoro nero, con recupero di base imponibile.
La riduzione dei contributi sul lavoro dipendente deve essere realizzata progressivamente e contemperata con l'esigenza di mantenere una copertura adeguata delle pensioni. Potrebbe cominciare e avanzare più rapidamente dai contributi sui bassi salari, come si è sperimentato in altri paesi, per esempio la Francia, con effetti positivi sul tasso di occupazione di tali lavoratori. D'altra parte va usata cautela nell'alzare i contributi di lavoratori autonomi e parasubordinati, che sono spesso economicamente fragili.
I margini di manovra sono ristretti e vanno verificati bene anche per le implicazioni economiche e politiche. L'obiettivo finale potrebbe essere di far convergere la generalità dei contributi per tutti i tipi di lavoro verso una fascia che si aggiri attorno al 24-27%. Nel dibattito sulla legge delega pensionistica non è stata accettata la proposta del centro-sinistra di alzare al 20% i contributi dei lavoratori autonomi, come strumento di riequilibrio dei costi previdenziali, nonostante si sia usata la cautela di lasciare a tale categoria l'opzione di mantenere l'attuale aliquota del 17,8%, ma allineando a questo livello anche il computo della pensione (che ora è fissato al 20%).
La previdenza complementare
Una seconda esigenza di riforma, largamente condivisa, è quella di accelerare lo sviluppo della previdenza complementare. È una direttrice recepita anche nel disegno di legge approvato nel luglio 2004, con misure che sono state largamente concordate fra le forze sociali e politiche.
L'innovazione più significativa è quella di favorire la destinazione ai fondi pensione del TFR (maturando) che costituisce una forma tradizionale ma anomala del nostro sistema di previdenza 'privata' individuale. L'originaria proposta del progetto governativo di imporre per legge tale destinazione del TFR è stata ampiamente criticata, in quanto contraria all'impostazione volontaristica della previdenza complementare propria nel nostro sistema, che richiede tradizionalmente l'assenso del singolo lavoratore per l'adesione ai fondi. D'altra parte una tale forzatura mal si concilierebbe con la natura dell'istituto, che costituisce una forma di retribuzione differita e che è stato per questo fondamentalmente oggetto di una regolazione contrattuale e non legislativa.
Esclusa la previsione ex lege, l'obiettivo di favorire l'afflusso del TFR ai fondi pensione si è realizzato attraverso la tecnica procedurale del cosiddetto silenzio-assenso, cioè prevedendo che l'offerta di adesione ai fondi nelle forme previste dai contratti collettivi nazionali si dia per accettata dai singoli lavoratori, ove non esprimano un formale rifiuto.
Un altro orientamento legislativo, che prosegue una linea già individuata negli anni passati, è di lasciare ai singoli libertà di scelta fra fondi collettivi di origine contrattuale e fondi cosiddetti aperti, costituiti da istituzioni finanziarie, al fine di stimolare una maggiore concorrenza fra varie forme di organizzazione della previdenza privata. Mentre resta non ancora del tutto soddisfatta l'esigenza di accentuare la convenienza finanziaria della previdenza complementare configurando un alleggerimento dell'imposizione fiscale sui fondi.
Il sostegno alla previdenza complementare non significa che essa possa diventare prevalente nel sistema, anche per motivi di efficienza. I vantaggi della previdenza a capitalizzazione privata, rispetto a quella pubblica, espressa in particolare nei tassi di rendimento, sono controversi e di difficile apprezzamento, a detta degli stessi esperti (cfr. Il futuro delle pensioni 2000). Anche autori inclini a favorire la capitalizzazione si domandano se e in che misura il divario di rendimento a favore dei fondi privati sia così marcato da compensare i maggiori rischi del mercato finanziario e quindi da convincere i singoli ad accettarli: il che è importante per i paesi come il nostro che prevedono una previdenza privata non obbligatoria. A essere cauti, come si conviene in questa materia, si può ritenere che il rafforzamento della previdenza privata, con il suo migliore rendimento, possa alleggerire i costi della previdenza pubblica, riducendo quindi i contributi, solo in misura contenuta.
Età pensionabile e copertura pensionistica
Il punto più controverso, non solo in Italia, delle proposte di riforma di questo settore riguarda la fissazione dei requisiti di accesso alle pensioni: un punto decisivo sia per l'equilibrio finanziario del sistema previdenziale, sia per la sua sostenibilità sociale.
La legge delega del governo, a seguito di vari adattamenti rispetto alla proposta originaria, ha scelto di stabilire un innalzamento graduale della soglia minima di età pensionabile: dai 58 anni attuali ai 60 anni previsti nel 2008, ai 61 nel 2013 e 62 dopo il 2013, mentre è rimasta immutata l'altra possibilità di accedere alla pensione prevista dalla legge Dini del 1995, sulla base del solo requisito contributivo: 40 anni, a prescindere dall'età anagrafica. Tale proposta ha ricevuto critiche diverse. Da una parte il differimento dell'intervento al 2008 è stato ritenuto contraddittorio con l'affermata urgenza della riforma e controproducente dal punto di vista finanziario in quanto rischia di indurre una fuga dal lavoro (prima del 2008) di persone che avrebbero potuto rimanere in servizio, con evidenti aggravi per il bilancio pubblico.
D'altra parte si è rilevato come tale intervento a scaglioni rigidi e di dimensioni consistenti comporti accentuate disparità di trattamento fra vari gruppi di persone: fra quelli che maturano i requisiti prima del 2008, che evitano qualunque aggravio della loro posizione, e quelli che invece subiscono l'effetto di un innalzamento brusco e non progressivo dei requisiti pensionistici.
Senza dire che un terzo gruppo di persone, i più giovani, vedono aumentare le difficoltà di arrivare a una pensione adeguata, in mancanza di interventi di sostegno che correggano le situazioni di precarietà e di intermittenza in cui molti di loro lavorano anche per lunghi periodi.
Si è osservato che le contraddizioni conseguenti a questo tipo di intervento si sarebbero potute superare proseguendo e accelerando le direttive della legge Dini del 1995, con possibili varianti. Una possibilità, ampiamente sostenuta dagli esperti, ma contrastata dalle organizzazioni sindacali, sarebbe stata la generalizzazione del metodo contributivo che nel 1995 fu applicato, con un compromesso discutibile ma reso necessario per acquisire il consenso sindacale, solo a una parte della platea di lavoratori aventi all'epoca meno di 18 anni di contributi. La generalizzazione di questo metodo a tutti i lavoratori avrebbe velocizzato l'entrata a regime della riforma del 1995 e accentuato i suoi effetti sui conti economici, perché avrebbe comportato una riduzione del tasso di copertura delle pensioni future di questi lavoratori sia pure di dimensioni graduali.
Una seconda possibilità, avanzata anche da chi scrive nel corso dei lavori parlamentari, era quella di applicare e accelerare il meccanismo previsto dalla legge Dini al momento della prima verifica decennale in coincidenza con la revisione del coefficiente di trasformazione per il calcolo della pensione, tenendo conto, oltre che dell'andamento finanziario del sistema, delle mutate aspettative di vita, che sono l'elemento strutturale più importante per mantenere in equilibrio il sistema. Orbene, poiché i dati esistenti indicano già un allungamento di due anni della durata media della vita e la modifica dei coefficienti rifletterà tale allungamento, il livello di prestazioni pensionistiche attuali si raggiungerà solo prolungando di due anni l'attività lavorativa, cioè la fascia di età pensionabile prevista dalla l. 335/1995, fra 57 e 65 anni, dovrà essere spostata a 59-67 anni.
Restando viceversa entro la fascia 57-65 si avrebbe un abbassamento delle prestazioni pensionistiche, dovuto al fatto che il montante di contributi accumulato nel corso della vita lavorativa sarebbe 'spalmato' su due anni di più di pensione fruibile, corrispondenti all'aumento della vita media. La riduzione è di circa due punti per ogni anno di età.
La proposta in questione prevedeva che fosse lasciata al singolo la scelta fra le due ipotesi: di prolungare l'attività di due anni, fino alla soglia dei 59 anni, al fine di mantenere lo stesso ammontare di pensione, ovvero di mantenere la soglia minima di 57 anni, accettando l'abbassamento della prestazione, opzione coerente con l'ispirazione della l. 335/1995, che aveva voluto lasciare flessibile l'età di pensionamento per adattarla alle diverse esigenze personali e professionali dei singoli: una flessibilità che invece è negata dalla legge delega, che impone un innalzamento rigido dell'età di pensionamento.
Questa modifica del sistema, conseguente al cambio di coefficiente, sarebbe stata automatica per i lavoratori già inclusi nel sistema contributivo. Per motivi di equità si era proposto di applicare lo stesso aggiustamento di parametri anche agli altri lavoratori, quelli inseriti nel regime retributivo e misto, che avrebbero avuto dunque la medesima opzione di prolungare di due anni l'attività o di vedersi abbassata (in misura proporzionale) la pensione.
Tali aggiustamenti sarebbero stati coerenti con le mutate condizioni non solo di vita ma anche del mercato del lavoro: la fascia di età fra 57 e 65 anni, calcolata allora per carriere lavorative iniziate a 15-16 anni, appare sempre meno adatta a una popolazione che, oltre a vivere più a lungo, entra nel mercato del lavoro al termine di un periodo scolare prolungato a 18 anni e che dovrebbe raggiungere i 22-23 anni, in considerazione della percentuale crescente di soggetti destinati ad accedere all'istruzione universitaria. Cambiando questi parametri si sarebbero adattati l'età e il calcolo della pensione alle nuove condizioni di vita, ma lo si sarebbe fatto in modo graduale e flessibile, non con un 'salto' rigido dei requisiti pensionistici, come vuole la legge delega. Questi correttivi sarebbero stati equi e avrebbero consentito allo stesso tempo di realizzare un maggiore controllo della spesa pensionistica.
L'obiettivo di riequilibrare i costi della previdenza, quali che siano state le proposte in campo, non si ottiene peraltro operando solo sui requisiti di accesso alla pensione, ma agendo sulle condizioni di lavoro e di contesto che permettono il prolungamento dell'attività lavorativa. La crescita della popolazione rappresenta una sfida per il mantenimento degli attuali ritmi di sviluppo e per la stessa stabilità sociale ed economica del nostro paese; qui più che mai occorrono interventi integrati di politica del lavoro e del welfare.
Un elemento essenziale per fronteggiare questa sfida è quello di valorizzare una 'vecchiaia attiva', alzando il tasso di occupazione degli anziani (cfr. ISFOL 2002, cap. 2). Si tenga presente che l'Italia è fra i paesi che registrano la più grave alterazione del rapporto fra popolazione in età di pensione e popolazione in età di lavoro (old-age dependency ratio). Tale rapporto, secondo le previsioni elaborate dall'ISTAT, è destinato a raddoppiare: dall'attuale 24,6% a oltre il 57% previsto per il 2050 (cfr. anche Economia e popolazione 2002).
Gli strumenti per valorizzare la 'vecchiaia attiva' possono essere molteplici: incentivi al prolungamento della vita attiva, per esempio tramite la riduzione dei contributi sociali per gli occupati anziani; sostegni al reinserimento al lavoro; transizione graduale fra lavoro e non lavoro (in parte favorita dalla recente normativa della l. 14 febbraio 2003, nr. 30, sul part-time); una formazione professionale che serva ad adeguare le competenze dei soggetti interessati; forme di lavoro part-time anche misto a pensione, rispondenti alle mutate esigenze della popolazione anziana. Si tratta di fare insomma il contrario delle pratiche di 'espulsione' che vengono proposte per i cinquantenni a ogni crisi industriale, anche da chi auspica il superamento delle pensioni di anzianità.
Pensioni e ammortizzatori sociali
Le innovazioni dell'assetto previdenziale approvate nel luglio 2004 lasciano aperti alcuni problemi critici del sistema, che in questa sede si possono solo accennare.
Un primo punto critico riguarda la tutela dei lavoratori, in particolare di quelli precari o intermittenti, nei periodi di inattività: cioè quella forma di welfare tradizionalmente nota come ammortizzatori sociali. La revisione di questa tutela, a fronte del diffondersi dei lavori cosiddetti atipici e della accresciuta turbolenza del mercato del lavoro, è una delle riforme più urgenti, purtroppo ancora inattuata, del nostro sistema di welfare. L'esigenza di bilanciare flessibilità e sicurezza è stata sottolineata fortemente dalle linee guida dell'Unione Europea ed è stata percepita già all'indomani della l. 24 giugno 1997, nr. 196, che diede una prima regolazione ad alcuni rapporti di lavoro flessibile, primo fra tutti il lavoro interinale. Ma le proposte di riforma degli ammortizzatori sociali allora elaborate non ebbero seguito, per la crisi del governo Prodi e per resistenze diffuse delle parti sociali. Ora l'esigenza è acuita a seguito della l. 30/2003, che ha moltiplicato i contratti di lavoro 'flessibile', accrescendo il rischio di insicurezza e instabilità per molti lavoratori.
La necessità più avvertita è quella, coerente con le indicazioni europee, di rafforzare le garanzie del reddito, correggendo le attuali disuguaglianze di trattamento esistenti fra le varie forme di tutela (come integrazioni di vario tipo, mobilità, prepensionamenti) e adeguandole alle esigenze dei nuovi lavori. Le innovazioni contenute in alcune proposte di legge sono molteplici: mirano a riformulare i presupposti per la fruizione delle tutele in modo tale da garantirne l'accessibilità universale, a uniformare i contenuti, garantendo un unico livello di prestazione in tutti i casi di inattività (incolpevole), a legare l'ottenimento a comportamenti attivi di ricerca di lavoro, a proiettare la funzione protettiva dalla mancanza di reddito attuale (dovuto all'inattività) al rischio di carenza pensionistica dovuta al mancato accumulo di contributi nei periodi di non lavoro. Quest'ultimo risultato si può respingere prevedendo contributi figurativi a copertura di questi periodi, finanziati dalla sola fiscalità generale o in parte dagli stessi lavoratori interessati (per esempio con un prestito garantito dallo Stato, da restituire senza interesse).
Una rete universale di sicurezza contro i rischi di inattività lavorativa è essenziale per stabilizzare le condizioni di reddito dei lavoratori e quindi per dare una base solida e necessaria a un sistema pensionistico fondato sul metodo contributivo.
Verso una pensione universalistica di base
Un secondo punto riguarda la definizione dei livelli minimi di prestazione pensionistica e le condizioni di fruizione della stessa. Nell'ordinamento italiano questo obiettivo viene perseguito da istituti che si sono sviluppati in modo alquanto disordinato (pensioni sociali, assegni sociali e in passato integrazioni al minimo) sicché ne sono derivati risultati diseguali e sostanzialmente inadeguati rispetto agli effettivi bisogni degli anziani.
Per correggere tale situazione si è avanzata la proposta di istituire nel nostro sistema, come in altri paesi europei, una pensione di base universalistica, garantita a tutti i cittadini in egual misura a prescindere dalla loro storia lavorativa. Essa andrebbe finanziata non più su base contributiva riferita al costo del lavoro, come le pensioni contributive, ma alla fiscalità generale, come si conviene a ogni istituto di welfare universalistico. Tale ipotesi è rimasta finora sullo sfondo del dibattito, perché è estranea a tutta la evoluzione categoriale del nostro sistema. Ma ha cominciato a farsi strada, anche se in versioni diverse. Dal lato delle prestazioni l'esigenza più immediata è di correggere la persistente insufficienza ed eterogeneità delle prestazioni minime tradizionali. Questo motivo generale di equità, comune a ogni forma di welfare universalistico, è ora rafforzato dalle modifiche intervenute nel mercato del lavoro: in particolare dal fatto che sono cresciute le quote di lavoratori che per la ridotta contribuzione sociale, per i bassi salari, per il percorso lavorativo intermittente, o spesso per la combinazione di questi caratteri, non riescono a conseguire pensioni eguali al livello che dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini, per il soddisfacimento dei bisogni essenziali di vita. Questa evoluzione fa venir meno il motivo su cui si basa la previdenza categoriale, cioè la capacità di offrire ai lavoratori trattamenti pensionistici superiori a quelli minimi, in quanto correlati ai redditi conseguiti nella vita lavorativa. L'applicazione del metodo contributivo nel nuovo contesto ha reso più evidente la contraddizione di imporre contributi a soggetti che non ne ricevono benefici. Sono evidenti le difficoltà strutturali di un simile intervento, perché si tratta di alterare l'equilibrio di un sistema consolidato da un secolo.
Non meno gravi sono i problemi finanziari sia nella fase di transizione sia a regime. Le risorse per finanziare tale livello pensionistico universale potrebbero non derivare dalla tassazione generale, ma più opportunamente dal gettito di imposte specifiche, come si è cominciato a fare in alcuni paesi europei: IVA sociale, ecotasse o simili. In questo ultimo caso l'operazione avrebbe effetti apprezzabili anche sul mix energetico e quindi sul rapporto fra crescita economica e qualità ambientale. I vantaggi sarebbero molteplici, non solo per il benessere dei soggetti beneficiari del miglioramento pensionistico, ma per la stessa equità fiscale perché si alleggerirebbe comunque il peso tributario sul reddito dei lavoratori a preferenza delle imposte sugli alti redditi. Ne beneficerebbe altresì il funzionamento del mercato del lavoro. Infatti la riduzione del peso contributivo rimuoverebbe, come si diceva, uno degli ostacoli fondamentali allo sviluppo di settori ad alta intensità di occupazione e quindi all'aumento dei tassi di occupazione che è una priorità per l'Europa e per il nostro paese. Si otterrebbe comunque un alleggerimento degli oneri sociali, che pesano non meno di quelli fiscali sulle imprese, con un beneficio soprattutto dei settori labor intensive.
Il rapporto fra questa pensione di base e la pensione contributiva è particolarmente delicato e andrà definito tenendo conto di diverse variabili: dei livelli e delle età di godimento dei due tipi di prestazione, oltre che beninteso dei costi gravanti rispettivamente sulla fiscalità e sul lavoro. Occorre evitare che la pensione di base, a seconda del suo livello, spiazzi il sistema pensionistico contributivo, riducendo gli incentivi dei lavoratori attivi a versare contributi nel corso della vita lavorativa.
L'introduzione di questa pensione di base modificherebbe in ogni caso il peso relativo sia della pensione contributiva sia della previdenza complementare rispetto alla tutela universalistica. Mentre questa assumerebbe in toto funzione redistributiva, le prestazioni ulteriori sarebbero correlate alla capacità di reddito delle categorie, con elementi di solidarietà operanti all'interno della stessa categoria e già oggi presenti ma in misura contenuta. Ai percettori di reddito superiore alla media, proprio perché beneficiano in misura minore della copertura di base, sarebbe giustificato applicare incentivi che liberino risorse per la creazione di forme previdenziali integrative, individuali e/o collettive.
Conclusioni
Queste osservazioni stanno a indicare che una riforma adeguata della previdenza non può essere isolata dal contesto, ma va congiunta con una revisione dell'intero sistema di welfare che si proponga di adeguarlo alle nuove situazioni di bisogno. Mi riferisco in particolare all'esigenza di rafforzare le politiche attive del lavoro e di sviluppo, per consolidare la base stessa del welfare, di estendere il sostegno ai casi diffusi di precarietà e di crisi occupazionale, con forme attive di ammortizzatori e di accompagnamento fra le varie situazioni lavorative alla necessità di promuovere una vecchiaia attiva.
Il nostro sistema dedica una quota relativamente alta di risorse alle pensioni, ma presenta una spesa sociale complessiva inferiore alla media europea. Non a caso un punto controverso - non solo in Italia - riguarda gli obiettivi finanziari da attribuire agli interventi sul sistema previdenziale. È da definire se essi debbano concentrarsi sulla riduzione della spesa sociale tout-court, come si è inteso fare con la legge delega governativa, oppure sul suo riequilibrio, come personalmente ritengo, cioè sulla ridistribuzione di risorse dal capitolo pensioni ad altri settori del welfare, particolarmente carenti in Italia (gli ammortizzatori sociali, il welfare familiare, le politiche attive del lavoro, l'assistenza agli anziani ecc.).
repertorio
Politica sociale e sistemi pensionistici in Europa
di Mario Carta
I presupposti
L'attenzione delle istituzioni comunitarie alle modalità di funzionamento dei sistemi pensionistici nazionali trae origine da considerazioni di natura non uniforme ma che hanno, in ogni caso, fondamento nelle disposizioni dei Trattati. In primo luogo vi sono profili di carattere finanziario e di bilancio imposti dal rispetto dei parametri previsti nel Patto di stabilità e crescita in quanto, come noto, la spesa pensionistica incide ovunque in maniera significativa sulla finanza pubblica e, in tale ottica, la sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali viene valutata anche in termini di riduzione della sua incidenza in rapporto al Prodotto interno lordo (PIL).
Il Patto di stabilità, adottato al Vertice di Dublino del 1996, si propone di evitare che i paesi dell'area euro facciano registrare disavanzi eccessivi istituendo a tal fine meccanismi di allarme e intervento preventivi, accompagnati da un'apposita procedura sanzionatoria, che entrano in azione quando vi sono Stati che non sono in grado di contenere entro la soglia di tollerabilità consentita i propri disavanzi. Tale soglia è stata individuata in un rapporto tra deficit pubblico e PIL pari al 3%. Considerando che, per es., in Italia la spesa pensionistica, senza gli interventi legislativi sino a ora portati a termine, avrebbe toccato nel 2040 percentuali pari anche al 23,4% del PIL, è evidente la stretta relazione che intercorre tra la sua riduzione e gli obiettivi posti dal Patto di stabilità in tema di contenimento del deficit di bilancio pubblico.
Accanto a obblighi di carattere puramente economico-finanziario però la partecipazione all'Unione Europea impone agli Stati membri il perseguimento di obiettivi di natura sociale, tipici dei modelli di welfare europei. La disposizione quadro nell'ambito della quale sono genericamente indicate tali finalità è costituita dall'articolo 2 del Trattato CE che prevede tra i compiti della Comunità la promozione di un "elevato livello di occupazione e protezione sociale". Nelle tappe che hanno contraddistinto l'evoluzione del processo di integrazione europea un rilievo sempre maggiore è stato riconosciuto, anche attraverso modifiche introdotte a livello dei Trattati, all'esigenza di affiancare alla tradizionale vocazione economica della Comunità, una dimensione sociale con lo scopo di definire una serie minima di diritti in favore dei cittadini europei. In tale prospettiva, come vedremo, un ruolo fondamentale è giocato proprio dai sistemi pensionistici soprattutto per la presenza di fattori ed elementi di novità del quadro economico e sociale di non poco peso, primo fra tutti l'invecchiamento demografico, che necessariamente richiedono la modernizzazione dei regimi di protezione sociale.
Già nell'Atto Unico del 1986 l'espressa previsione tra gli obiettivi della Comunità, ex articolo 130 A, del "rafforzamento della sua coesione economica e sociale" pone le premesse per lo sviluppo di una politica in questo campo concordata a livello europeo e dotata di una propria autonomia. Il vero salto di qualità in questa direzione però si registra con la nascita dell'Unione Europea e con la dimensione politica conferita alla costruzione europea dal Trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993; a esso viene allegato un Protocollo (nr. 14) che darà poi origine a un Accordo sulla politica sociale.
Oltre a specificare in precisi obiettivi l'invito generico alla coesione economico-sociale contenuto nell'Atto Unico, per cui diventano di interesse della Comunità materie quali il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la promozione del dialogo sociale, il conseguimento della parità tra uomo e donna, la formazione professionale, l'Accordo conferisce agli Stati firmatari la facoltà di ricorrere alle strutture comunitarie per la realizzazione della politica sociale, con procedure di voto sia all'unanimità sia a maggioranza qualificata a seconda delle diverse materie. Con il Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999, si assiste a un'ulteriore spinta verso la creazione di efficaci meccanismi decisionali nel settore tramite l'incorporazione della maggior parte delle disposizioni dell'Accordo nel Trattato CE (articoli da 136 a 143), e con la contestuale abrogazione del Protocollo nr. 14 allegato al Trattato di Maastricht. Anche le materie oggetto di disciplina risultano ampliate in quanto, per la prima volta, sono contemplate politiche a salvaguardia delle persone totalmente escluse dal mondo del lavoro, inserite in nuovo titolo dedicato interamente all'occupazione. Il Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001, riformula l'articolo 137 Trattato CE e ai settori di intervento precedentemente individuati ne aggiunge altri che toccano i più diversi aspetti, spaziando dalla sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, alla modernizzazione dei regimi di protezione sociale, alla lotta contro l'esclusione sociale. In questi nuovi campi l'azione della Comunità sostiene e completa quella degli Stati membri che rimangono però i soggetti titolari del potere di definire i caratteri fondamentali del proprio sistema di sicurezza sociale, escludendosi quindi qualsiasi attribuzione al Consiglio nell'opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali di settore. Inoltre il nuovo testo dell'articolo 144 Trattato CE prevede l'istituzione di un Comitato per la protezione sociale, di natura consultiva, al fine di promuovere la cooperazione tra gli Stati membri e la Commissione.
Il progetto di Trattato costituzionale europeo, licenziato all'esito dei lavori della Convenzione europea il 10 luglio 2003, pur prevedendo la costituzione di un gruppo di lavoro ad hoc - Gruppo XI Europa sociale - incaricato di studiare e suggerire eventuali riforme, non ha mantenuto le aspettative di coloro che si attendevano significative novità nel settore, a partire dall'introduzione, quale procedura di voto, della regola della maggioranza. L'opposizione di alcuni paesi, primi tra tutti la Gran Bretagna, ha condotto all'approvazione di un testo che riproduce sostanzialmente quanto già previsto nel Trattato di Nizza, con il principio dell'unanimità applicato alla gran parte delle azioni intraprese e l'ulteriore precisazione circa il carattere complementare dell'azione dell'Unione in materia di politica sociale, di semplice sostegno a quelle adottate dagli Stati membri, pur all'interno di un quadro che si propone il coordinamento delle politiche economiche e dell'occupazione degli Stati membri. Nonostante i risultati della futura Costituzione europea sotto questo profilo potessero essere sicuramente più soddisfacenti, si può osservare che la progressiva estensione del campo di azione dell'Unione Europea ai settori sopra ricordati ha rappresentato una sufficiente base giuridica per consentire già al Consiglio Europeo di Lisbona del marzo del 2000 di avviare uno studio sulla futura evoluzione della protezione sociale in un'ottica di lungo periodo "ponendo in particolare risalto la sostenibilità dei sistemi pensionistici". I successivi Consigli Europei di Stoccolma (marzo 2001) e Göteborg (giugno 2001) hanno rafforzato le conclusioni raggiunte identificando le priorità future dell'azione comunitaria nel "tutelare la capacità dei sistemi di conseguire gli obiettivi sociali prefissi, mantenere la sostenibilità finanziaria e soddisfare le esigenze societarie che cambiano".
In questo modo la costruzione di sistemi pensionistici non solo sostenibili finanziariamente ma anche adeguati e moderni è entrata a pieno titolo tra gli obiettivi che le politiche nazionali devono perseguire in cooperazione con l'Unione Europea; la vera sfida posta dal progressivo invecchiamento della popolazione europea appare quindi quella volta a cercare di coniugare l'erogazione di prestazioni pensionistiche minime in grado di prevenire fenomeni di povertà e di esclusione sociale tra gli anziani, e il rispetto dei vincoli di bilancio ai quali si è accennato, considerando che circa un decimo del PIL dei paesi della Unione Europea è assorbito dalla spesa pubblica previdenziale.
Il metodo del 'coordinamento aperto'
Al fine di facilitare i processi decisionali nel settore, il Consiglio di Laeken (dicembre 2001) ha stabilito l'applicazione anche al campo delle pensioni del cosiddetto metodo del 'coordinamento aperto'. Tale metodo di lavoro, introdotto con il Trattato di Amsterdam e già sperimentato per le politiche per l'occupazione, consiste nella definizione di una serie di obiettivi comuni che impegnano gli Stati membri a elaborare delle strategie a livello nazionale e ad adottare le misure necessarie al raggiungimento degli scopi prefissati (cosiddetti PAN, Piani di azione nazionali).
Una volta avviato il processo si apre il confronto tra le istituzioni europee coinvolte nell'azione e le amministrazioni nazionali competenti, anche al fine di verificare la progressiva realizzazione dei programmi (cosiddetta 'vigilanza multilaterale') e la loro compatibilità con le altre attività di coordinamento politico già operative in altri campi, come per es. nella politica economica, nelle finanze pubbliche e nell'occupazione. A tal fine è predisposta una serie di indicatori ad hoc che permettono di monitorare e valutare i progressi compiuti nella politica sociale, dell'occupazione e pensionistica.
Questo tipo di approccio, definito 'integrato', regolato dal principio di sussidiarietà e quindi con una priorità d'intervento che permane in capo agli Stati pur nel rispetto del coordinamento comunitario disegnato, consente di valutare anche in termini di politica economica e finanziaria l'efficacia delle risposte fornite a livello nazionale di fronte al fenomeno dell'invecchiamento demografico; questo in particolare si rende necessario in quanto a livello comunitario già preesistono processi che toccano da vicino e sono strettamente connessi con le politiche delle pensioni. Tra questi strumenti vanno ricordati: gli 'indirizzi di massima per le politiche economiche' (BEPG, Broad economic policy guidelines) alla base del coordinamento della politica economica e quindi anche delle risposte in termini economici e finanziari all'invecchiamento della popolazione; la strategia europea sull'occupazione rafforzatasi dopo l'inserimento, come detto, del relativo titolo nel Trattato di Amsterdam con la finalità dichiarata di aumentare il numero di occupati anche tra i lavoratori anziani; il processo di integrazione sociale teso all'eliminazione della povertà e dell'esclusione sociale.
L'interdipendenza tra questi fattori è stata anche evidenziata - nell'ambito delle prerogative di cui il Consiglio Europeo gode quale organo che fornisce direttive generali in materia - sempre nei Consigli Europei di Lisbona e Stoccolma dove, per es., il principale rimedio al progressivo invecchiamento demografico è stato individuato in una crescita dell'occupazione, soprattutto tra coloro che hanno tra 55 e 60 anni. L'obiettivo è stato meglio precisato nel Consiglio Europeo di Barcellona (marzo 2002) laddove è stato previsto l'innalzamento di cinque anni dell'età media effettiva di pensionamento. È appena il caso di sottolineare che il Consiglio Europeo di Göteborg ha deciso di estendere tale metodologia di lavoro anche ai paesi candidati all'adesione, in particolare a quelli entrati nella UE a partire dal 1° maggio 2004, con la necessaria gradualità dovuta al ritardo che attualmente si registra nei sistemi di protezione sociale di questi Stati.
Oltre al Consiglio Europeo un ruolo significativo nella procedura è svolto dalla Commissione alla quale spetta il controllo dei processi di riforma nazionale delle pensioni, appunto la cosiddetta vigilanza multilaterale, e che può altresì raccomandare indirizzi di massima nel settore della politica economia e proporre linee direttive per l'occupazione. Anche il Consiglio interviene nel settore sia nella tradizionale composizione competente per le questioni di politica economica, l'ECOFIN, sia per il tramite delle attribuzioni di cui è dotato in materia di occupazione e politica sociale (Consiglio OPS). Quando in sede di Consiglio OPS vengono affrontati temi relativi alle pensioni il Consiglio e la Commissione sono assistiti, nell'opera di valutazione delle strategie nazionali predisposte nel settore pensionistico, dal Comitato di protezione sociale (CPS), che fornisce un contributo decisivo nell'elaborazione della relazione congiunta del Consiglio e della Commissione sulla riforma dei sistemi previdenziali e nella predisposizione degli indicatori sull'adeguatezza e sostenibilità dei regimi pensionistici. Di tutte queste attività svolte dal Consiglio e dalla Commissione, il Parlamento Europeo deve essere costantemente informato con un ruolo che quindi andrebbe sicuramente più valorizzato.
La politica sociale europea in materia pensionistica
L'applicazione del coordinamento aperto alla materia pensionistica ha portato il Consiglio Europeo di Laeken a identificare, all'interno dei tre principi guida già definiti nel Consiglio Europeo di Göteborg del giugno del 2001, ovvero adeguatezza delle pensioni, sostenibilità finanziaria e modernizzazione del sistema pensionistico, undici obiettivi prioritari che costituiscono anche un programma di azione futura rivolta sia alle istituzioni comunitarie sia agli Stati membri.
Nell'ambito del principio dell'adeguatezza delle pensioni, intesa come capacità degli Stati membri di salvaguardare le loro finalità sociali anche nel settore pensionistico, gli obiettivi consistono nel: 1) prevenire l'esclusione sociale, ovvero evitare che la terza età sia esposta al rischio di povertà e assicurare un tenore di vita decoroso; 2) consentire a tutti il mantenimento del medesimo tenore di vita anche una volta in pensione, tramite la garanzia dell'accesso a meccanismi di pensione sia pubblici sia privati adeguati; 3) promuovere la solidarietà inter- e intragenerazionale. Nell'ambito della sostenibilità del sistema pensionistico, al quale deve essere garantita una solida base finanziaria, occorre: 4) aumentare i livelli occupazionali ricorrendo, ove necessario, a incisive riforme del mercato del lavoro; 5) prolungare la vita lavorativa (accanto alle politiche economiche e del mercato del lavoro ogni branca della protezione sociale, e quindi anche i regimi pensionistici, devono offrire incentivi alla partecipazione dei lavoratori più anziani non incoraggiandoli ad andare in pensione anticipata e contemporaneamente non penalizzandoli, in caso di permanenza nel mercato del lavoro oltre la normale età pensionabile); 6) realizzare sistemi pensionistici sostenibili in un contesto di solidità delle finanze pubbliche teso alla riduzione del debito pubblico anche tramite sane politiche fiscali; 7) assicurare un corretto equilibrio tra prestazioni e contributi e tra esigenze della popolazione attiva e dei pensionati, senza sovraccaricare una componente a scapito dell'altra; 8) garantire che i sistemi pensionistici privati siano adeguati e finanziariamente solidi. Nell'ambito della modernizzazione del sistema pensionistico è necessario: 9) adeguarsi a modelli occupazionali e professionali più flessibili anche al fine di scongiurare la penalizzazione dei diritti alla pensione per quelle forme di impiego atipiche o che prevedono la mobilità nazionale e transfrontaliera (inoltre obiettivo specifico è evitare che i sistemi pensionistici possano pregiudicare lo svolgimento di attività di natura autonoma); 10) realizzare le aspirazioni di maggiore uguaglianza tra donne e uomini proprio in virtù degli obblighi derivanti in questo campo dalla legislazione comunitaria; 11) dimostrare la capacità dei sistemi pensionistici di affrontare le sfide.
Un primo risultato dell'applicazione di tale metodo può essere considerato l'importante e significativa Relazione congiunta della Commissione e del Consiglio in materia di pensioni adeguate e sostenibili del 3 marzo 2003 (6527/2/03 REV 2), redatta sulla base delle relazioni strategiche nazionali nelle quali gli Stati membri hanno chiarito come stanno procedendo nella realizzazione degli undici obiettivi enunciati sopra.
La Relazione costituisce allo stesso tempo un documento di sintesi sulle diverse caratteristiche presenti nei sistemi pensionistici dei paesi dell'Unione Europea, e anche un testo contenente indicazioni dettagliate ai governi nazionali sulle riforme da avviare negli ordinamenti interni, sempre in ossequio ai principi dell'adeguatezza e sostenibilità. L'approccio integrato consente di valutare l'impatto delle politiche pensionistiche, intese anche come strumento di protezione e politica sociale secondo l'ampia accezione definita dal diritto comunitario, sui bilanci nazionali a prescindere dal differente contesto nel quale sono collocate; pertanto oltre al tradizionale regime di spesa previdenziale basato sui tre pilastri (primo pilastro regime pubblico basato sul reddito, secondo pilastro regimi professionali privati, terzo pilastro piani pensionistici individuali), sono considerati anche i trattamenti pensionistici di tipo assistenziale con prestazioni riservate a soggetti svantaggiati e/o anziani erogate a carico, abitualmente, della fiscalità generale con lo scopo di assicurare loro un reddito minimo poiché privi di risorse. In forza della definizione contenuta nella guida del Sistema europeo di statistiche integrate della protezione sociale (SESPROS) del 1996 l'aggregato 'spesa per le pensioni' supera la definizione di spesa pubblica e include le spese dei regimi privati di previdenza sociale essendo pertanto la risultante di sette categorie di prestazioni diverse: 1) pensione di invalidità; 2) prestazioni di pensionamento anticipato per ridotte capacità di lavoro; 3) pensione di vecchiaia; 4) pensione di vecchiaia anticipata; 5) pensione parziale; 6) pensione ai superstiti; 7) prestazione di pensionamento anticipato per ragioni di mercato del lavoro.
Dalle Relazioni strategiche presentate dagli Stati membri e analizzate dalle istituzioni comunitarie nella Relazione congiunta, emerge nel complesso la volontà degli Stati membri di porsi in linea con la triplice strategia enunciata nel Consiglio Europeo di Stoccolma volta a rispondere all'invecchiamento della popolazione con la riduzione del debito pubblico, la riforma dei sistemi pensionistici, l'aumento dei tassi di occupazione, soprattutto in ragione del fatto che una crescita costante dell'occupazione oltre il 2010 avrebbe quale effetto calcolato la riduzione di circa un terzo dell'aumento della spesa pensionistica sul PIL a oggi previsto.
A tal fine, sulla scorta delle indicazioni emerse a livello nazionale, le politiche che ispirano le scelte dei governi paiono in buona sostanza potersi tradurre in una serie di misure che privilegiano, quali strumenti di intervento: la limitazione del ricorso al pensionamento anticipato; l'aumento degli incentivi al prolungamento della vita lavorativa e al pensionamento posticipato, in linea con l'innalzamento di cinque anni dell'età media effettiva di pensionamento previsto dal Consiglio Europeo di Barcellona; l'incremento dei futuri margini di bilancio tramite la riduzione del debito pubblico o la costituzione di fondi di riserva nei sistemi pensionistici pubblici. In ciascuno Stato questi obiettivi sono perseguiti compatibilmente con i tratti tipici del proprio sistema pensionistico e sotto questo profilo la Relazione congiunta della Commissione e del Consiglio offre anche un interessante e approfondito esame comparato dei processi di riforma avviati a livello nazionale, su sollecitazione delle istituzioni europee.
Le tendenze e le linee di riforma comuni ai diversi sistemi, delineate nella Relazione congiunta, evidenziano alcune soluzioni degne di rilievo ma anche criticità non risolte. Innanzitutto, essendo stato calcolato che entro il 2050 gli europei vivranno almeno quattro-cinque anni più a lungo rispetto a oggi (in termini di costi, sempre in base ai dati Eurostat, ciò implica per lo stesso livello di prestazioni un aumento della spesa del 25-30%) e considerato che la maggior parte dei redditi da pensione deriva da regimi pubblici, esclusa l'ipotesi di finanziare l'aumento della spesa con un aumento delle aliquote di contribuzione, la strada seguita sembra essere quella di un potenziamento delle prestazioni private. Il problema che si pone in questo caso è di assicurasi che l'aumento delle pensioni professionali e personali, cosiddetto secondo pilastro, sia in grado di compensare i tassi di sostituzione inferiori propri del primo pilastro, ovvero quello delle prestazioni pubbliche. Qualora ciò non dovesse realizzarsi molti Stati hanno riconosciuto, insieme ai regimi del primo e secondo pilastro, la possibilità per le parti sociali di predisporre regimi pensionistici di categoria fondati su accordi collettivi obbligatori.
Il crescente ricorso ai sistemi pensionistici a capitalizzazione, accanto ai sistemi pubblici a ripartizione, ha del pari fatto sorgere la necessità in molti Stati membri di garantire un controllo sulla gestione prudente di queste attività, che presentano rischi non indifferenti, in quanto la loro sostenibilità è legata anche all'andamento dei mercati finanziari.
Altro dato comune è costituito dal tentativo di aumentare i tassi di occupazione, per fare in modo che un maggior numero di lavoratori possa contribuire a mantenere le pensioni a livelli adeguati, anche introducendo formule contrattuali più flessibili al fine di favorire l'accesso al mercato del lavoro. Tuttavia il raggiungimento di questo obiettivo, determinando l'aumento del numero dei lavoratori atipici, in quanto titolari di contratto a tempo parziale, temporanei, autonomi e simili, come ben illustrato nella stessa Relazione congiunta, viene realizzato a scapito del riconoscimento in capo a questi soggetti di un pieno diritto alla pensione nei regimi finanziati a capitalizzazione.
In effetti il Consiglio e la Commissione, dall'analisi della situazione esistente nei paesi membri della UE, traggono la conclusione che "i lavoratori atipici continuano a essere discriminati nei regimi professionali e in molti Stati membri chi cambia frequentemente lavoro tende a concludere la carriera maturando meno diritti alla pensione rispetto ai lavoratori che rimangono con lo stesso datore di lavoro".
Le indicazioni provenienti dalle istituzioni europee si sono inserite nei processi di riforma che hanno portato a rilevanti modifiche del sistema pensionistico vigente in Francia e nel Regno Unito, i cui caratteri principali saranno esaminati di seguito, mentre in Germania il dibattito, come vedremo, è ancora in corso e varie opzioni sono tuttora aperte. Infine sarà analizzato e descritto un modello previdenziale scandinavo, quello svedese, che registra uno dei più alti livelli di spesa per la protezione sociale, ritenuta un vero e proprio diritto di cittadinanza.
La riforma del sistema pensionistico in Francia
L'esame della situazione francese appare particolarmente indicativo a livello europeo in quanto questo paese si troverà ad affrontare prima di altri le conseguenze del boom demografico degli anni Sessanta che inizierà a produrre i suoi effetti già dal 2010, con una punta massima prevista per il 2040. Secondo i calcoli contenuti nel rapporto nazionale, e ripresi nella Relazione congiunta dalle istituzioni comunitarie, a questa data la spesa pubblica per le pensioni passerà dall'attuale 12,6% al 16,3% del PIL, con un deficit pari al 3,8% dello stesso. Questo dato corrisponde sotto il profilo demografico a una media, nel 2050, di un cittadino francese con età superiore ai 60 anni ogni due, mentre attualmente tale rapporto è di 1 a 5. Le difficoltà nella riforma del sistema francese sono legate alla sua eccessiva frammentazione dovuta al riconoscimento di numerosi regimi speciali, a seconda della categoria di lavoratori di appartenenza. L'elemento sul quale si è intervenuti con maggior determinazione, con la legge di riforma approvata nel luglio del 2003, è stato l'aumento del tasso di occupazione tra i lavoratori anziani poiché la Francia ha una delle medie più basse tra gli Stati della UE per quanto concerne l'età di uscita dal mercato del lavoro, pari a 58,1 anni.
La strategia del governo ha puntato in primo luogo sul graduale incremento degli anni di contribuzione ai fini del riconoscimento della pensione piena che pertanto, in ogni caso, nel 2008 richiederà almeno il pagamento di 40 anni di contributi (oggi sono 37,5) salvo il successivo aumento di un trimestre in più di lavoro per ciascun anno. Contemporaneamente permane il limite dei 60 anni per l'età di pensionamento legale ma vengono introdotti incentivi all'occupazione per i lavoratori oltre i 60 anni che, se lo vorranno, potranno godere per ogni anno di lavoro in più dopo i 60 anni, e oltre i 42 anni di contribuzione, di un supplemento sulla pensione del 3%. Questa facoltà ha richiesto, per la sua piena attuazione, l'abolizione della norma che consentiva al datore di lavoro di licenziare il lavoratore una volta raggiunta l'anzianità contributiva necessaria alla pensione piena; oggi quindi il lavoratore non potrà esser obbligato a collocarsi in pensione prima dei 65 anni, a prescindere dall'anzianità contributiva. Strettamente connesse alla logica che ispira la riforma sono le disposizioni che scoraggiano coloro che intendono andare in pensione, con un'età compresa tra i 60 e i 65 anni, senza aver raggiunto l'anzianità contributiva necessaria per godere di una pensione piena. A tal fine per i dipendenti pubblici viene introdotto dal 2006 un coefficiente di penalizzazione, con una percentuale che entro il 2015 si prevede raggiungerà il 5%.
L'obiettivo dichiarato è quello di parificare sotto tale profilo il trattamento dei dipendenti pubblici a quello dei lavoratori privati che già conoscono questo meccanismo disincentivante, attualmente in misura del 10% per ogni anno mancante, e che sarà, proprio in virtù degli effetti della riforma, anch'esso ancorato al 5% a far data dal 2009. Tuttavia quasi a voler compensare l'adozione di misure rivolte soprattutto a intaccare i regimi speciali esistenti in favore di alcune categorie, tra le quali quella dei dipendenti della pubblica amministrazione, la legge di riforma mantiene in vita quei casi di prepensionamento legati allo svolgimento di lavori usuranti o riguardanti particolari settori di dipendenti pubblici, per es. poliziotti e infermiere (per i quali rispettivamente l'età per la cessazione dell'attività lavorativa è di 50 e 55 anni), come anche la disciplina relativa ai cosiddetti lavoratori precoci (coloro che hanno cominciato l'attività lavorativa tra i 14 e i 16 anni) che potranno andare in pensione al compimento del cinquantaseiesimo anno di età, previo versamento di 42 anni di contributi.
La riforma del sistema pensionistico nel Regno Unito
Il sistema pensionistico inglese, che è ispirato a un modello economico e sociale di carattere marcatamente liberista, per alcuni aspetti ha già centrato gli obiettivi in materia di occupazione indicati dalle istituzioni europee nei Consigli Europei di Lisbona e Stoccolma in base ai quali, per il 2010, è richiesto un tasso di occupazione complessivo del 70%, di occupazione femminile del 60% e di occupazione dei lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni del 50%.
Non solo questi requisiti nel Regno Unito sono già stati ampiamente acquisiti e superati ma anche l'età media di ritiro effettivo dal mercato del lavoro, 63,1 anni per gli uomini e 61 per le donne, si pone al di sopra della media comunitaria. Inoltre la spesa pubblica per le pensioni, oggi pari al 5,5% del PIL, essendo assai bassa non crea al momento attuale preoccupazioni, come invece avviene per quasi tutti gli altri Stati della UE, dal punto di vista della sostenibilità finanziaria del sistema.
Se tali sintetici profili disegnano un paese che può essere ritenuto in forza dei parametri europei 'virtuoso', sicuramente più problematica è invece la situazione per ciò che concerne il rispetto del criterio dell'adeguatezza delle pensioni, dato che il reddito degli anziani è inferiore di circa dieci punti rispetto alla media degli Stati dell'Unione Europea.
Una prima parziale risposta a tale ritardo, come ampiamente riportato nella stessa Relazione congiunta del Consiglio e della Commissione, è stata fornita grazie all'adozione di recente del pension credit, una sorta di reddito minimo garantito previsto in favore degli ultrasessantenni poveri, avente un'indicizzazione dell'elemento garantito della pensione legato non ai prezzi ma al reddito, che in realtà già esisteva (Minimum income guarantee) ma con importi inferiori (si passa dalle precedenti 98,15 sterline a settimana alle attuali 102,10) e con regole di accertamento del reddito per poterne usufruire assai più restrittive.
Il secondo elemento sul quale ha agito il governo britannico per riequilibrare l'adeguatezza delle pensioni è la riforma della pensione complementare pubblica, che è stata incrementata (State second pension). Occorre tener presente che il sistema pensionistico del Regno Unito è caratterizzato da un primo pilastro ove convivono una pensione base fissa e una pensione integrativa legata al reddito, appunto la State second pension, con un'età pensionabile di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne e l'impossibilità di andare in pensione prima del versamento di 44 anni di contributi. L'intervento e i miglioramenti apportati su questa seconda componente hanno determinato per i redditi medio-bassi quasi una duplicazione di quanto percepito in precedenza.
La Relazione congiunta individua la peculiarità del sistema britannico, rispetto a quello degli altri Stati dell'Unione, nella possibilità riconosciuta al lavoratore di non aderire al livello di questo primo pilastro finanziato a ripartizione. Per questi l'alternativa è di richiedere la copertura da parte di un sistema pensionistico professionale o personale che sia in grado di fornire prestazioni quanto meno equivalenti, se non più favorevoli, rispetto alla componente legata al reddito del regime obbligatorio. Ciò spiega in parte l'ampio e diffuso sviluppo, che non ha eguali nell'Unione, delle pensioni private, testimoniato dal dato che vuole circa il 71% dei pensionati soggetto a regimi pensionistici professionali o privati. Il maggiore problema che la diffusione di tali sistemi pone è rappresentato dalla scelta operata da quasi tutti i regimi pensionistici di detenere pacchetti azionari rilevanti, con un fisiologico aumento del rischio e della volatilità nelle rendite, soprattutto in presenza delle recenti difficoltà o calo dei mercati azionari mondiali. In questi casi la ricaduta in termini finanziari sui datori di lavoro, che generalmente garantiscono un regime a prestazioni definite, non è di poco conto avendo come conseguenza quanto meno l'aumento dei futuri potenziali costi nell'erogazione delle prestazioni.
Ciò ha indotto le autorità britanniche a formulare nel 2003 un apposito disegno di legge con l'obiettivo di istituire da una parte una nuova authority di regolazione con il compito di controllare quei regimi, anche chiaramente in funzione di tutela dei consumatori-lavoratori, che presentano un alto rischio di cattiva gestione o addirittura frode, e dall'altra di predisporre un Fondo di garanzia delle pensioni (Pension protection fund) per fare fronte ai fallimenti delle aziende o alla chiusura dei fondi.
In conclusione le preoccupazioni che nel futuro la Commissione prevede per tale modello, ove si registra un maggior grado di dipendenza della sostenibilità finanziaria dell'intero sistema dai rendimenti delle pensioni private, sono legate, nel caso di scarsi rendimenti, a una eventuale crescita della domanda di prestazioni di reddito minimo garantito, con inevitabili significative ripercussioni negative sulla spesa pubblica
La riforma del sistema pensionistico in Germania
La pressante necessità di procedere a una riforma del sistema pensionistico in Germania è dovuta principalmente alla circostanza che l'invecchiamento demografico, insieme a un basso tasso di occupazione tra gli anziani, produrranno come effetto sulla spesa pensionistica un aumento di circa 4 punti percentuali. Ciò vuol dire che nonostante i benefici della riforma iniziata nel 2001 la spesa pubblica per le pensioni, nel 2050, sarà di quasi 7 punti percentuali superiore alla media europea, toccando il 14,9 del PIL. Secondo la Commissione, l'aumento del tasso di occupazione tra i lavoratori anziani non può essere da solo sufficiente a garantire l'equilibrio e la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, anche in considerazione del raddoppio dell'indice di dipendenza degli anziani previsto nei prossimi decenni.
In questa ottica la riforma portata a compimento nel 2001, cosiddetta riforma Riester, con la previsione, tra le altre misure adottate, di un innalzamento dell'età di pensionamento legale a 65 anni per tutti i tipi di pensioni, eccetto che per le pensioni di invalidità, e le restrizioni delle condizioni per il pensionamento anticipato, non ha risolto il problema dell'alto livello della spesa pubblica nel settore. Per questi motivi nel novembre del 2002 è stata insediata dal governo una Commissione di 26 esperti indipendenti presieduta da Bert Rürup con il compito di analizzare la sostenibilità finanziaria dei sistemi di previdenza sociale in Germania. A conclusione dei suoi lavori, nell'agosto del 2003, la Commissione nel rapporto finale ha formulato alcune proposte di riforma che hanno aperto un vivace dibattito tra le forze politiche, economiche e sindacali nel paese, tanto da non condurre ancora all'approvazione di un testo di riforma definitivo. I punti principali d'intervento individuati riguardano da una parte l'aumento graduale dell'età pensionabile dagli attuali 65 a 67 anni, a partire dal 2011, con un incremento di un mese ogni anno, diluendo pertanto l'attuazione delle misure nell'arco di 24 mesi. Dall'altra si auspica una modifica delle regole d'indicizzazione delle pensioni con l'introduzione, dal 2005, di un coefficiente di sostenibilità (detto anche 'fattore Rürup'). In particolare l'aspetto più qualificante della relazione finale, rispetto alle acquisizioni della riforma Riester, è rappresentato proprio dalla previsione di tale coefficiente, la cui applicazione consentirebbe di ridurre di circa mezzo punto l'anno l'aliquota contributiva rispetto al livello attuale. Il meccanismo ha come base di calcolo il numero dei contribuenti in rapporto al numero dei pensionati: nel caso di aumento del numero dei beneficiari di prestazioni in costanza di un calo dei contribuenti, l'adeguamento su base annua delle prestazioni non potrà che registrare un rallentamento e viceversa. Sempre secondo la Commissione Rürup, tutte queste misure, come è accaduto in altri paesi, dovranno essere accompagnate da un rafforzamento della previdenza integrativa a capitalizzazione, oggi ancora poco sviluppata in Germania. Infine, in radicale alternativa alle linee di riforma in parte avviate e in parte da avviarsi, è stata avanzata la proposta di introdurre un modello di assicurazione di base a tutela dell'intera popolazione che ha sollevato vivaci discussioni in quanto non appartenente al tradizionale modello bismarckiano di cui la Germania è la principale interprete.
La riforma del sistema pensionistico in Svezia
Le caratteristiche del sistema pensionistico svedese, ispirato a un modello denominato di welfare state scandinavo derivato chiaramente dalla tradizione socialdemocratica, disegnano un regime che per gli obiettivi conseguiti ha pochi eguali tra i paesi appartenenti all'Unione.
In primo luogo il tasso occupazionale dei lavoratori anziani risulta essere il più alto dell'Unione, non rappresentando quindi un problema, come invece avviene altrove, il pensionamento anticipato. Anche il progressivo invecchiamento della popolazione e l'aumento dell'indice di dipendenza degli anziani non andranno a incidere sensibilmente sulla crescita della spesa per le pensioni. È infatti previsto che la spesa per le pensioni di anzianità all'interno del sistema pubblico raggiungerà un picco massimo nel 2040, con un incremento dell'attuale percentuale del 9% del PIL sino ad arrivare a quella data all'11,4% sempre del PIL, che in ogni caso è ben al di sotto di una qualsiasi soglia capace di generare problemi finanziari di qualche entità. La sostenibilità finanziaria del sistema, riformato nel 1999 ma a pieno regime solo a partire dal 2003, pare un risultato tanto più apprezzabile in quanto non si realizza a scapito degli elementi di solidarietà dello stesso che trovano invece espressione nella previsione di una pensione minima garantita di anzianità, a carattere non contributivo, per le persone con più di 65 anni, dopo 40 anni di residenza in Svezia. Essa è completamente a carico della fiscalità generale, si affianca alle pensioni maturate nel contesto del regime obbligatorio legato al reddito, di natura contributiva, nei casi in cui queste non riescano a raggiungere la quota garantita. Di recente in favore degli anziani, soprattutto immigrati, che non possiedono i requisiti per accedere alla pensione garantita è stata introdotta un'apposita forma di sostegno, accentuando così gli elementi di adeguatezza del sistema.
Nel quadro complessivo si deve rilevare che un elemento di incertezza appare costituito dall'eventualità che, in presenza di fenomeni di aumento dei redditi reali, il livello della pensione minima garantita, in quanto ancorata unicamente all'indice dei prezzi, possa determinare un aumento dei rischi di povertà; in realtà, come è stato rilevato dalla Commissione, i sistemi di pensioni professionali che sono fondati su accordi collettivi, essendo assai sviluppati, possono contribuire in maniera rilevante al mantenimento del livello dei redditi anche dopo il pensionamento.
riferimenti bibliografici
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