Penombre femminili
«Alle tre mie pute che sono in casa», disponeva per testamento, nell’agosto 1647, il patrizio Francesco Contarini quondam Agostino, «lasso, che debbino havere la dote conveniente per andar monache, come per gratia di Dio le vedo disposte». Disposte o meno, alle tre giovani Contarini non restava che adattarsi a un destino ineluttabile, comune d’altronde a gran parte delle donne di quella famiglia. Le porte del monastero di Santa Caterina si erano già chiuse dietro due loro sorelle e una o più zie paterne, altre zie avevano preso il velo alla Celestia e a San Lorenzo; non per nulla, ai cinque figli maschi Francesco prescriveva, tra gli altri doveri, il puntuale adempimento degli obblighi nei confronti «de tutte le monache che sono uscitte o usciranno dalla nostra casa». Nel caso dei Contarini, come di tante altre famiglie nobili del tempo, questo triste esodo era dovuto all’insormontabile ostacolo rappresentato da un patrimonio esiguo, dalla «tenue facoltà» lamentata da Francesco (1). Una famiglia patrizia, per quanto povera, non poteva in genere maritare decorosamente una figlia con meno di qualche migliaio di ducati; assai più della salute malferma o dei difetti fisici, l’impossibilità di sostenere il peso di una dote conveniente al loro rango era in effetti la ragione principale per cui tante ragazze si trovavano escluse dal mercato matrimoniale e avviate al convento, non potendo ufficialmente la dote spirituale superare i 1.000 ducati. A Venezia, come in altre città italiane, il fenomeno toccava la punta massima nella prima metà del secolo XVII, con una presenza di oltre 2.500 suore nella trentina di monasteri esistenti in città (2).
Erano davvero molte, troppe, le ragazze veneziane, specie aristocratiche, per le quali la tradizionale alternativa «maritar o monacar» semplicemente non si poneva; almeno a giudicare dai numerosissimi testamenti di genitori di limitate possibilità economiche che sentivano la progenie femminile come un fardello amato ma opprimente, del quale era necessario sbarazzarsi nel modo più sensato e razionale. Rari, di conseguenza — certo assai più rari che nel secolo XVI, specie all’interno del patriziato —, i padri e le madri disposti a dichiarare le figlie libere di decidere il proprio stato di vita, vietando espressamente qualsiasi coercizione della loro volontà (3).
Nel suo polemico scritto Tirannia paterna, pubblicato postumo nel 1654 con il titolo Semplicità ingannata, suor Arcangela Tarabotti — una benedettina senza vocazione che aveva trovato salvezza dalle frustrazioni e ragione di vita nell’attività letteraria, e nella fama da questa derivatale — denunciava le melliflue lusinghe con le quali i padri allettavano alla vita monastica le ignare bambine già predestinate al sacrificio (4). È facile, e forse non del tutto infondato, interpretare come espressioni di questa ovattata ipocrisia molte di quelle disposizioni testamentarie ove i genitori indugiano compiaciuti sulla felicità delle figlie già monacate e (come Francesco Contarini) sulla palese inclinazione al chiostro dimostrata da quelle ancora da sistemare; o dissertano edificanti sulle beatitudini della vita monastica. Eppure quegli stessi genitori che si accingono a forzare la volontà delle figlie si confessano talvolta con dolorosa schiettezza, senza nascondere il loro profondo disagio per la sopraffazione che si vedono costretti loro malgrado a esercitare. Le giovani candidate al convento vengono allora messe di fronte all’amara realtà dei fatti. Così, le figlie di Zuane Badoer quondam Zustinian dovranno monacarsi «essendo stà battuto la mia casa di molte disgratie [...] e perseguitato da malevoli ancora»; quelle di Francesco Tiepolo quondam Marin, pur lasciate dal padre formalmente libere di optare per il matrimonio, vengono tuttavia pregate di «prender l’esempio dalle maggiori che si sono fatte monache, considerando quanto siino dispendiosi et di pregiudicio alle case li matrimonii in questa città». Francesco Querini quondam Piero consiglia alle ultime due figlie rimastegli in casa di entrare in qualche monastero non troppo costoso, anche fuori Venezia se necessario, «poiché alle vergeni povere sovrasta più che ad ogn’altra grave pericolo»; Cecilia Contarini di Anzolo viene caldamente esortata dalla madre Lucrezia Erizzo a monacarsi, sull’esempio delle sue quattro sorelle, in quanto ciò che la madre sarebbe in grado di lasciarle «non è sufficiente di gran lunga per potersi maritare» (5).
In situazioni di particolare disagio il convento poteva presentarsi, anche in assenza di una vera vocazione, come la soluzione più desiderabile: ad esempio per le prostitute desiderose di cambiare vita, che potevano pronunciare i voti presso il monastero agostiniano di Santa Maria Maddalena alla Giudecca, detto «le Convertite» (6). Ma in ogni caso la vita monastica, non priva di possibilità di carriera e non sempre inconciliabile con i piaceri mondani (7), poteva prospettarsi come male minore rispetto alla vuota, tediosa, non di rado umiliante esistenza adombrata dalla seconda possibile alternativa al matrimonio: la vita da nubile, di solito — almeno negli anni giovanili — nella casa dei genitori o dei fratelli. Nemmeno questa era, di solito, una libera scelta; ben poco, in ogni caso, essa poteva avere in comune con il nubilato volontario e combattivo esaltato sul finire del secolo XVI dalla scrittrice veneziana Moderata Fonte, nel dialogo Il merito delle donne, quale suprema rivendicazione di autonomia femminile, unico stile di vita che consentisse alla donna di rendersi «immortale» coltivando in piena libertà le lettere e ogni altra «virtù» (8). A parte rare eccezioni si trattava pur sempre, infatti, di una mesta variante del «monacar», di un ripiego imposto dalla povertà, dalla cattiva salute, da un fisico infelice; condizioni tutte non propizie all’anticonformismo. Al contrario: dalla nubile che appassiva tra le pareti domestiche, quando non a pensione in un monastero, ci si aspettava una pratica puntuale e ineccepibile della «prudentia», di quell’insieme cioè di virtù tipicamente donnesche e per lo più passive quali modestia, pudore, umiltà, rassegnazione, sottomissione. Mansioni precipue di queste donne erano il governo della casa e la cura dei malati, e che da ciò potessero derivare loro «patimenti et disaggi» era nell’ordine naturale delle cose (9). Questo stato di vita — che, lungi dal consentirne il superamento, ribadiva crudamente la tradizionale suddivisione dei ruoli sessuali — poteva presentarsi come obbligato in circostanze simili a quelle illustrate dal testamento della nobildonna Lucietta Corner, vedova di Domenego Contarini quondam Zuan Battista. Con la durezza dettatale da un carattere autoritario ma non meno, probabilmente, da una lucida e fredda disperazione, Lucietta ricorda alle tre figlie «che si ritrovano in casa» (altre tre si è riusciti a collocarle in monastero) ciò che esse già sanno benissimo: «la stretezza della facultà non ha permesso che si possa né maritarle, né monacharle; [...] et però, dovendossi in ogni cosa divider anco con li maschi, non è tanto che potesse nessun gentilhuomo tuorle per moglie, né porta il decoro della casa che si maritino pocho honoratamente; et la maggior parte di esse sono riddotte in ettà di non pensar più a matrimonio; et però mi assicuro, che vivendo con prudentia et con quiete viverano nella casa con li suoi fratelli, dalli quali son sicurissima che saranno ottimamente trattane». I fratelli saranno «tenuti [...] a farle le spese in vita sua», dovendo le sorelle considerarsi per parte loro moralmente obbligate a «vivere con [...] moderatione, [...] col timor del Signor Dio, con termine di prudentia, et come deve ogni gentildona ben natta» (10).
La «prudentia» cui dovevano attenersi le nubili — fossero esse ormai sfiorite come le povere ragazze Contarini, o fresche fanciulle da marito — implicava una vigile tutela del proprio buon nome e quindi, in primissimo luogo, della propria integrità sessuale. Non sempre, tuttavia, la perdita della verginità equivaleva a un dramma irreparabile: qualora la vittima, fosse pure di umile condizione, godesse fama di donna virtuosa e rispettabile e riuscisse a dimostrare di essere stata deflorata con la violenza o con un’ingannevole promessa di matrimonio, il colpevole veniva obbligato a risarcire l’offesa con il matrimonio o almeno con il pagamento di una dote (11). Ma se tra i due protagonisti di un episodio di seduzione nasceva un vero sentimento di affetto, assai più piacevole e vantaggioso era per loro unirsi in una specie di matrimonio di fatto: una situazione che rappresentava per una donna la terza possibile e non disonorevole alternativa, dopo la monacazione e il nubilato, al matrimonio legale.
Di per sé irregolare, priva di riconoscimenti giuridici o religiosi, la condizione di concubina — convivente more uxorio o comunque, a differenza della prostituta o della donna di «mala fama», stabilmente e notoriamente legata a un solo uomo — era nella Venezia cinque-seicentesca tanto simile a quella di una moglie legittima da venire non solo tollerata, ma pienamente rispettata. Ampiamente diffuse nell’ambito del patriziato, dove sempre più avvertita era la necessità di evitare che le esigenze affettive e sessuali interferissero con gli interessi economici, le unioni di fatto erano talvolta di breve durata; in questi casi, di solito l’uomo combinava per la sua ex compagna un matrimonio adeguato all’estrazione sociale di lei, che poteva anche essere piuttosto elevata. Ma altrettanto e forse più frequentemente queste relazioni si rivelavano solide e durature, al punto di venire spesso suggellate da un matrimonio segreto: il ricorso a questa prassi, documentato soprattutto a partire dalla seconda metà del Seicento, poteva essere dettato dal desiderio di regolarizzare la propria situazione dinanzi alla Chiesa ma anche da considerazioni più terrene, come la speranza di facilitare in tal modo per le figlie nate da queste unioni un matrimonio all’interno del patriziato (12).
Talvolta erano le madri a offrire alle figliole la scelta fra matrimonio, monacazione o nubilato (la quarta alternativa, com’è ovvio, non poteva venire ufficialmente presa in considerazione), e i mezzi per realizzarla. Nel 1688, per esempio, Cecilia Corner vedova di Daniel Bragadin procuratore di San Marco prospetta per la figlia Cornelia la possibilità del matrimonio prendendo però, al tempo stesso, la precauzione di nominare Cornelia sua erede residuaria «perché non resti monaca involontariamente o per forzza, dal dolore di vederssi abbandonata dalli suoi frattelli», e destinandole la metà del residuo se sceglierà invece la vita da nubile, a patto che in tal caso Cornelia viva fino ai quarantacinque anni in un monastero; «poi sia in libertà di abbitare dove li piacerà, ma sempre con tutta modestia» (13). Tanto per le dirette interessate quanto per i loro familiari, la condizione teoricamente più auspicabile era però quella del legittimo matrimonio, che la ragazza ad esso destinata contraeva intorno ai diciotto-vent’anni. Le famiglie che ne avevano i mezzi, come i Donà, cercavano di maritare tutte le figlie che lo desiderassero; i patrizi di limitate risorse economiche non erano restii a scegliersi un genero tra i cittadini veneziani o i nobili di Terraferma, disposti per parte loro, quando si trattava di accasare le loro figliole, a sborsare doti cospicue pur di inserirle nei ranghi del patriziato veneziano (14). Questo, però, poteva dimostrarsi a volte molto selettivo. I patrizi privi di diretta discendenza maschile tendevano a limitare le possibilità matrimoniali delle figlie a gentiluomini del loro stesso casato (15); altri si comportavano come Cecilia Corner, che avrebbe ammesso come genero solo qualcuno di «casa grande, e non sia delli fatti gientillhomini per soldi» (aggregato cioè alla nobiltà veneta in virtù di un esborso al governo durante la guerra di Candia) (16). Soprattutto — come nitidamente risulta tanto dalle amare disposizioni testamentarie di Lucietta Contarini, quanto dai provvedimenti presi da Cecilia Corner — la presenza di fratelli condizionava pesantemente il destino delle femmine, l’interesse delle quali non poteva per alcun motivo prevalere su quello dei maschi: continuatori del casato, costoro erano sempre gli eredi residuari del padre e, non di rado, di avi o parenti più lontani in virtù del fedecommesso, un sistema sempre più diffuso a Venezia dalla seconda metà del secolo XVI e tendente a favorire innanzitutto la discendenza maschile. In qualche caso, le donne si adeguavano a questa prassi volgendola a vantaggio del loro sesso, mediante l’istituzione di fedecommessi in linea esclusivamente femminile (17).
Sebbene lo stato che garantiva maggiore indipendenza a una donna non indigente fosse quello vedovile, anche nel matrimonio la moglie poteva godere di notevole autonomia (18), soprattutto se una dote consistente la poneva in posizione di vantaggio nei confronti di un marito economicamente più debole. All’interno di unioni che, almeno nei ceti superiori, venivano per lo più decise dalle famiglie prescindendo dalle personali inclinazioni dei diretti interessati, una consorte poteva assicurarsi, se non l’amore, la stima e la riconoscenza del marito prendendosi assiduamente cura di lui stesso, della prole e degli altri familiari, governando la casa con «prudentia», conservando e incrementando il patrimonio domestico; ma non era solo per ragioni affettive che molti uomini usavano ogni riguardo nei confronti della moglie, raccomandando con insistenza un analogo comportamento anche ai figli. Era infatti essenziale che la donna si identificasse con la famiglia acquisita al punto di rinunciare, in caso di vedovanza, a esercitare il diritto di esigere la restituzione della dote, decidendo invece di impiegarla a beneficio dei figli e della famiglia del marito (19): gli interessi dei quali costui, ovviamente, cercava di tutelare al massimo, in genere escludendo dall’eredità la vedova che passasse a nuove nozze (20).
La sfera di azione della donna era di solito rigidamente circoscritta a uno spazio assai ridotto, delimitato dalle mura della casa o del monastero. Al di fuori della cerchia familiare, le signore privilegiate per posizione e censo avevano modo di dare e ricevere affetto e di esercitare un certo potere dedicandosi alla beneficenza: sia nella sua forma istituzionalizzata, collaborando cioè con qualcuna delle numerose strutture assistenziali e caritative esistenti a Venezia, sia in forma privata, proteggendo e beneficando persone bisognose — in primo luogo servitori e loro parenti, soprattutto se donne —, non di rado provvedendo anche al loro futuro (21). I beneficati non mancavano di manifestare riconoscenza nominando le padrone loro «commissarie» (esecutrici testamentarie), incaricandole dei suffragi per la loro anima e, se ne avevano la possibilità, ricordandole concretamente nei loro testamenti. La famiglia dei padroni poteva così surrogare la famiglia naturale o rappresentarne un’estensione, come questa offrendo calore affettivo e rassicurazioni per questo e per l’altro mondo. A simili esigenze potevano rispondere anche le Scuole piccole, alle quali in epoca sei-settecentesca molte veneziane di ogni ceto figurano ascritte (22): quasi sentissero la necessità di costruirsi, sulla base di scelte e di criteri affatto soggettivi, una propria, personalissima rete di rapporti. In questo periodo assai più che in passato trovano infatti esplicito riscontro nei testamenti anche i legami di amicizia fra donne, manifestati con espressioni d’affetto ma anche nella forma concreta di lasciti (somme di denaro e oggetti personali della testatrice, come capi di vestiario o gioielli); o con il nominare l’amica commissaria, quando non addirittura erede universale. Spesso del tutto innocente, occasionalmente volta a fini trasgressivi (23), la solidarietà, quasi la complicità che si stabilisce fra donne risponde forse a un bisogno di rassicurazione, quello stesso al quale è stata fatta risalire la valorizzazione dell’amicizia e del sodalizio da parte delle élites intellettuali e politiche del Seicento veneziano; ma suggerisce d’altro lato un’esigenza di affrancamento, almeno interiore, dall’esclusività dei vincoli familiari all’interno dei quali si tendeva a circoscrivere l’affettività femminile (24).
Il «decoro della casa» al quale Lucietta Contarini era così sensibile rendeva naturalmente impensabile per lei, come per qualsiasi altra veneziana di elevata condizione sociale, ammettere per donne del suo rango — fossero pure, come le sue e come tante altre figlie soprannumerarie, a corto di mezzi e prive di un ben definito ruolo nella famiglia, nella società, nella vita stessa — la facoltà di contribuire al bilancio familiare e di guadagnarsi un minimo margine di indipendenza con qualche forma di attività lavorativa. Non era così per quelle che si monacavano: indispensabile nei monasteri femminili più poveri, il lavoro era prassi comune anche in quelli agiati (25). Esso faceva inoltre parte integrante della vita quotidiana anche per le ragazze e le donne ospitate negli istituti assistenziali: gli ospedali, la Casa delle Zitelle alla Giudecca destinata a fanciulle che bellezza e povertà rendevano «periclitanti», la Casa del Soccorso all’Angelo Raffaele che accoglieva donne adultere o per altri motivi separate dal marito, e dal primo Settecento il Pio Loco delle Penitenti a San Giobbe. Oltre che una necessità economica, il lavoro rappresentava per le ricoverate un mezzo per riempire un’esistenza grigia e monotona, per salvarsi da quell’«humor malinconico» al quale non poche finivano tuttavia per soccombere; e l’istituto stesso poteva a volte configurarsi come accettabile alternativa al «maritar o monacar», offrendo a quelle che lo desiderassero la possibilità di restarvi per tutta la vita a svolgervi qualche precisa e forse gratificante mansione (26).
Al di fuori di queste istituzioni, il guadagnarsi autonomamente da vivere restava una possibilità aperta alle donne di condizione sociale medio-bassa, e non si limitava necessariamente al servizio domestico o a professioni tipicamente muliebri quali il cucito, il ricamo, il merletto; né era sempre una mera fonte di reddito. Mediante il lavoro la donna poteva farsi valere ed apprezzare, in primo luogo allorché esso raggiungeva dignità artistica. Se non sempre di celebrità, godevano comunque di prestigio non indifferente le «figlie del coro », ragazze educate alla musica e al canto nei quattro ospedali cittadini; altre donne riuscivano a farsi un nome nel campo delle arti visive, come le pittrici Marietta e Ottavia Robusti, figlie di Jacopo Tintoretto, o la monaca «incisora» Isabella Piccini, o la stessa Rosalba Carriera (tutte, vale la pena di notare, incoraggiate nella loro vocazione artistica dal padre) (27). Ma anche in ambiti più oscuri esistevano donne in grado, se non di passare alla storia, di affermarsi per la loro professionalità: come quella Caterina Salis «stampadora» presso Cristoforo Tommasini, libraio al segno della Pace, verso la quale costui si dichiarava in obbligo lodandola come «donna tanto da bene, et sofficiente». O come le quattro industriose figliole della vedova Prudentia Grigis, che — nubili e lavoratrici, probabilmente, solo per necessità — erano tuttavia riuscite a vivere in modo costruttivo la loro situazione svantaggiata, contribuendo «con suoi degni et honorati impieghi d’ammaestrar figliolini» ad alleviare lo «stato poverissimo» della madre e ad accasare decorosamente una quinta sorella. Grata e orgogliosa, Prudentia rivolgeva loro un’esortazione solitamente riservata dai genitori ai figli maschi: vivessero sempre unite sotto lo stesso tetto, continuando «col suo impiego, che spero [...] che viveranno a gloria di Dio, e christianamente». La relativa fortuna di insegnanti come le quattro ragazze Grigis non deve tuttavia far dimenticare che le possibilità di trasmettere il sapere si limitavano, per le donne, al solo livello elementare (28); di norma alquanto modesto era, d’altra parte, il sapere che una donna poteva essere in grado di trasmettere.
Se il convento era il destino di tutte le figlie del nobiluomo Francesco Contarini quondam Agostino, quello dei suoi cinque figli era, ovviamente, di ereditare la pur «tenue» facoltà paterna. Fra gli obblighi che ciò implicava c’era quello di redigere e di conservare in luogo sicuro e segreto «un inventario diligente» dei manoscritti esistenti nella biblioteca del prozio, il doge Nicolò, il quale aveva affidato per testamento agli eredi «la conservation de nostri libri»; le chiavi della biblioteca stessa dovevano venire custodite dal maggiore dei fratelli. Queste clausole testamentarie di Francesco Contarini suonano emblematiche della disparità esistente tra maschi e femmine anche sul piano della formazione culturale: almeno in senso metaforico, le chiavi del sapere — in quanto inscindibilmente legato al potere — dovevano restare saldamente in mano maschile, le ragazze essendo tenute ad accontentarsi dell’istruzione, per lo più mediocre, loro impartita in casa, nel monastero dove venivano educate o, nella migliore delle ipotesi, in qualche collegio come quello delle Dimesse. Quelle che si monacavano potevano trovare in convento qualche libro diverso da quelli di devozione, ma raramente disporre di una vera biblioteca (29).
La condizione di ignoranza in cui venivano deliberatamente mantenute le donne era stata denunciata da quelle scrittrici veneziane che, presentandosi come confutazione vivente delle teorie sull’inferiorità intellettuale femminile, rivendicavano per tutte le esponenti del loro sesso il diritto di accedere all’istruzione: Moderata Fonte dapprima, poi Lucrezia Marinelli (30) e, in pieno secolo XVII, suor Arcangela Tarabotti. A questo coro non si era unita un’altra, e la più rinomata, delle veneziane celebri per la loro cultura: la schiva, piissima e valetudinaria Elena Lucrezia Corner Piscopia, resa doppiamente eccezionale dalla laurea in filosofia della quale l’ateneo patavino l’aveva insignita il 25 giugno 1678. Eccezionale, eppure pienamente nella norma — anzi in certo senso modello della «prudenza» richiesta alle donne — per la docile remissività che aveva contrassegnato la sua breve vita. Perché con il conseguimento del titolo dottorale la giovane null’altro aveva fatto se non adempiere in pieno il suo ruolo di figlia devota (una volta soltanto, con il rifiuto dello stato matrimoniale, si era opposta ai desideri paterni) gratificando le ambizioni del padre Giovanni Battista; al medesimo scopo rispondeva, in parte, anche l’erudita ma ben poco originale produzione scientifica e letteraria di Elena (31). Personalità più brillante doveva essere stata l’ebrea Sara Copio Sullam, donna di ampia e poliedrica cultura, in corrispondenza con vari letterati e animatrice, nella prima metà del secolo, di un vivace salotto letterario (32).
Il progetto originario del padre di Elena Lucrezia era stato quello di ottenere per la sua prodigiosa figliola il dottorato in teologia, al quale però aveva dovuto a malincuore rinunciare in seguito alla levata di scudi che l’audacia di questo obiettivo aveva suscitato negli ambienti ecclesiastici: soprattutto perché una laurea in teologia abilitava, almeno in linea teorica, all’insegnamento di questa disciplina, attività ovviamente inconciliabile con l’appartenenza al sesso femminile. A questo si concedeva, dalla seconda metà del secolo XVI, soltanto l’insegnamento dei rudimenti della fede cattolica alle ragazze che frequentavano le scuole di dottrina cristiana (ma proibite alle allieve erano le pubbliche dispute nelle chiese, concesse invece ai maschi) (33).
Per quanto riguarda la formazione culturale media delle veneziane del Seicento e del primo Settecento, i testamenti sembrano rivelare una capacità grafica quantitativamente e qualitativamente non troppo diversa da quella riscontrabile per il Cinquecento; come allora, le donne di condizione elevata non erano affatto le sole a saper maneggiare una penna (34). Raro però che tra i lasciti figurino libri; in questi pochi casi si tratta di offici della Madonna, o di altri libretti di devozione. Più frequenti i quadri, tra i quali non mancavano le immagini di grandi donne del passato dal tragico destino, uno dei soggetti iconografici profani tra i più popolari nel secolo XVII (35).
Ciò non significa che nel mondo femminile veneziano la circolazione libraria si limitasse alla letteratura di pietà. Alla sua morte nel 1680 una Paolina Marcello lasciava venti libri, tra i quali agiografie e scritti di devozione ma anche opere di autori non propriamente ortodossi come Giovan Francesco Biondi e Giovan Francesco Loredan (36): segno evidente dei rischi che l’accesso alle chiavi del sapere poteva comportare per una donna. Tali rischi si manifestavano in pieno quando la donna in questione era giovane, inquieta, di moralità non ineccepibile, o semplicemente curiosa e imprudente: come quell’Anzola da Ponte che nel 1660 si accusava dinanzi al Sant’Ufficio veneziano di aver letto un romanzo posto all’Indice, La rete di Vulcano di Ferrante Pallavicino. La lettura di non meglio precisati libri proibiti era stata una delle trasgressioni cui nel 1647 si rammaricava di essersi abbandonata Pellegrina Donà, plagiata dal suo torbido giro di amicizie: un gruppo di aristocratici miscredenti, dediti a pratiche superstiziose e blasfeme (37).
Nella Venezia del secolo XVII, dove fra il 1630 e il 1660 gli intellettuali che facevano capo all’Accademia degli Incogniti erano stati un efficace tramite di diffusione delle idee libertine, il rigetto e lo scherno per le credenze tradizionali — e in genere per i dogmi cristiani e per ogni forma di religione rivelata — erano un atteggiamento alla moda, che dai salotti e dalle cerchie intellettuali era disceso a lambire anche i ceti più bassi della popolazione. L’anticonformismo religioso, e non di rado l’irreligiosità spinta fino a un dichiarato ateismo, si abbinavano spesso alla fede nella magia, mezzo potente per raggiungere un obiettivo che a una persona colta doveva apparire in piena coerenza con il pensiero libertino: la soddisfazione delle proprie necessità materiali e dei propri naturali istinti. Come innumerevoli altre ragazze, Anzola da Ponte si era unta le labbra con l’olio santo per conquistare l’amore di un uomo; a fini, sembra, meno innocui miravano i sortilegi cui era dedita la nobildonna Zanetta Priuli, una delle amiche di Pellegrina Donà. Era abbastanza usuale, inoltre, che all’esercizio della magia si associasse quello della prostituzione o del lenocinio (38).
Oltre al licenzioso romanzo del Pallavicino, Anzola aveva avuto tra le mani, e scorso «per mia curiosità», un altro libro proibito (prestatole da una donna, una «mercante»): una Bibbia in volgare. Questa leggerezza non faceva certo di lei una criptoprotestante, e ben consapevole se ne dimostrava il Sant’Ufficio evitando (a differenza di quanto avrebbe fatto un secolo prima) di dare troppo peso a questa come alle altre colpe confessate da Anzola. Nella Venezia del Seicento era ormai quasi inesistente il pericolo di una propagazione delle dottrine riformate, che solo in casi assai sporadici riuscivano ancora ad acquistarsi consensi tanto aperti da attirare l’attenzione del tribunale inquisitoriale. Eppure il più interessante forse di questi casi riguarda proprio una donna, Lucrezia Colosin Millander, processata e condannata per calvinismo tra il 1680 e il 1681 e due anni dopo sottrattasi con la fuga nei Grigioni alla pur abbastanza mite pena che le era stata imposta. Ma, significativamente, l’eresia di Lucrezia non aveva radici autoctone, per le quali Venezia non offriva più un terreno sufficientemente fertile: ammaestrata nel calvinismo in età infantile da un mercante tedesco del Fondaco al quale era stata affidata dalla defunta madre (che a sua volta aveva intrattenuto stretti rapporti con il mondo olandese), la donna si era confermata in questa fede durante un soggiorno ad Amsterdam e, tornata a Venezia, mediante il matrimonio contratto con un giovane tedesco. E addirittura di nascita tedesca erano altre due veneziane d’adozione, denunciate senza esito per luteranesimo nel 1625 e nel 1692; mentre c’era un lungo soggiorno in Polonia nel passato di Aurora Gemma da Domo, denunciata nel 1625 insieme al secondo marito per eresie essenzialmente di matrice libertina, ma non prive di qualche elemento proprio del patrimonio dottrinale della Riforma (39).
Ma le donne trovavano altri modi per fare cattivo uso del sentimento religioso: anche una conclamata ortodossia poteva sfociare in comportamenti trasgressivi. Se nella Venezia del pieno Seicento non sono più attestati episodi come quello, venuto a conoscenza del Sant’Ufficio nel 1606, delle Dimesse di Murano, che avevano delegato una donna a sostituire il confessore per amministrare loro il sacramento della penitenza (40), non mancano devianze di altro genere: in primo luogo la finzione di santità, un fenomeno apparso in Spagna nel primo Cinquecento e documentato per l’Italia a partire dalla fine del secolo. In questo ambito, la vicenda che dispone della più ricca e singolare documentazione ha per protagonista la veneziana Cecilia Ferrazzi, accusata nel 1664 di essersi fatta venerare come santa, simulando miracoli, e di aver esercitato un’autorità arbitraria e crudele sulle ragazze «periclitanti» che ospitava nella sua casa. Nel corso del processo, conclusosi nel 1665 con la condanna a una pena detentiva, l’imputata dettava una autobiografia affollata di rivelazioni celesti e di tentazioni diaboliche, chiaramente ricalcata su un modello letterario tra i più familiari al pubblico femminile del tempo, le vite dei santi.
Nel caso di Cecilia Ferrazzi, e di altre protagoniste di analoghe avventure spirituali, l’ostinato sforzo di costruirsi un’immagine di santità aderente a schemi codificati era in fondo, come è stato osservato, null’altro che il tentativo di acquistarsi una qualche forma di potere: l’unica accessibile, forse, a donne altrimenti destinate a un’oscura subalternità in quanto nubili e sole, prive di mezzi economici e di cultura (quella di Cecilia non andava molto oltre il saper leggere e firmare) (41). Altra cosa era, naturalmente, l’esperienza e la pratica religiosa della maggioranza delle veneziane.
Tra i beni di Paolina Marcello figura «un aneletto d’oro con una morte di smalto». Sebbene questo tipo di gioiello-vanitas non dovesse essere molto comune in ambito italiano (42), esso ben si accorda con quella religiosità angosciata che traspare da numerosissimi testamenti veneziani di quest’epoca. Il pensiero della morte comporta, in primo luogo, il terrore del trapasso: momento decisivo nel quale con una sia pur minima debolezza, con un impercettibile cedimento al demonio che lo insidia tentandolo al dubbio o alla disperazione, il morente può giocarsi irrevocabilmente la salvezza eterna. Anche sui salvati incombono d’altronde, certe e inesorabili quanto terrificanti, le pene del purgatorio; indispensabile dunque crearsi un sistema di rassicurazioni, edificarsi una serie di baluardi difensivi. L’ansiosa devozione veneziana dell’età barocca esaspera qui alcune caratteristiche già riscontrabili nel secolo XVI: le messe di suffragio — da celebrarsi possibilmente ad altari privilegiati — vengono ora richieste nell’ordine delle centinaia, quando non delle migliaia, né mancano i fedeli che se le fanno recitare mentre ancora sono in vita (43); si intensifica la prassi di mandare qualche persona pia a lucrare indulgenze presso santuari o altri luoghi di culto privilegiati; dilaga l’uso di iscriversi a una o più Scuole. Non meno indispensabili i protettori e gli intercessori soprannaturali, deputati ad assistere il loro devoto soprattutto in punto di morte. Particolare fiducia riscuotono in questa veste l’angelo custode e le anime del purgatorio, la Madonna (specie sotto il titolo del Rosario o del Carmine) e i santi più cari al testatore: fervida la devozione femminile a san Giuseppe, a san Francesco, al taumaturgo Antonio da Padova e a santi «nuovi», anche estranei alla tradizione veneziana — quali Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio; nonché Teresa d’Avila, la santa nella quale Cecilia Ferrazzi aveva trovato un modello di comportamento e di vita — o ad essa addirittura ostici, come Carlo Borromeo (44).
Oltre che con preghiere e suppliche, la Vergine e i santi prediletti venivano onorati mediante lasciti alle chiese e ai monasteri loro intitolati. Erano inoltre presenti nella vita quotidiana dei, e soprattutto delle, fedeli sotto forma di reliquie, o di anelli con la loro effigie: oggetti che, ereditati da una chiesa o da qualche familiare o parente, potevano poi giovare all’anima dei defunti proprietari (45). L’aggrapparsi all’oggetto — sia in quanto sacro in sé, sia in quanto mezzo di contatto diretto, fisico addirittura, con il sacro — è in quest’epoca uno dei tratti più vistosi della pietà veneziana, specialmente femminile. Monili ed eleganti capi di abbigliamento (descritti nelle disposizioni testamentarie con una minuziosità senza precedenti, preziosa per la storia del costume e della moda) riscattano e trasfigurano la loro natura profana, quando non frivola e peccaminosa, allorché cessano di ornare un corpo femminile per essere tramutati in paramenti sacerdotali, o accolti nel tesoro di una chiesa: il passaggio dal regno dell’effimero e del perituro a un altro mondo, un mondo confinante con la beatitudine eterna, li dotava in certo modo del potere di purificare a loro volta la loro antica proprietaria, agevolandole il transito dal terreno all’ultraterreno (46).
Per gioielli e abiti di un certo pregio, sorte molto frequente era quella di divenire ornamento di qualche simulacro, in genere mariano, situato di solito in una chiesa, più raramente sulla pubblica via, a volte nell’abitazione stessa della testatrice (47). In questo caso, l’immagine posta fra le pareti domestiche non solo espletava al massimo grado, con la sua presenza tanto più rassicurante in quanto immediata e tangibile, la funzione protettrice che le competeva, ma soddisfaceva quella pietà sentimentale — non perciò esclusivamente femminile — che si compiaceva di tesaurizzare e vezzeggiare statuette di Gesù Bambino, o di allestire presepi (48). Ma nel rapporto privilegiato che una pia veneziana poteva stabilire con la Vergine, ospitandone un’immagine sotto il proprio tetto o dotandola di vesti e di gioielli, si può leggere altresì un’altra manifestazione di quel forte senso dell’amicizia — specie sotto forma di patronato — tra donne documentato dalle fonti soprattutto testamentarie nella Venezia del secolo XVII. Tra Maria e la sua devota si instaura una relazione simile a quella tra una benevola e potente padrona e una serva fedele, pronta a dimostrare in modo tangibile la riconoscenza per i benefici ricevuti e la speranza di continuare a riceverne in futuro. Maria è, anzi, qualcosa di più intimo: una persona di famiglia, da ricordare nel testamento con espressioni e con lasciti non dissimili da quelli usati per amiche e parenti in carne ed ossa (49).
Come gli affetti familiari — si pensi a quanto i rapporti fra coniugi siano condizionati dall’entità e dalla destinazione finale della dote, o dal buon rendimento della moglie come amministratrice domestica — nemmeno questa devozione pur così intensamente affettiva conosce tuttavia la gratuità; nella sensibilità religiosa soprattutto femminile tra XVII e XVIII secolo la mercificazione del sacro raggiunge anzi un parossismo non riscontrabile nella pietà veneziana di epoca anteriore. Tutto ha un prezzo: anche, e soprattutto, la pace ultraterrena, tanto che numerose donne dispongono che la maggior parte dei loro beni vengano venduti a pro delle anime loro e, spesso, dei loro cari. La fantasia di testatrici inquiete e apprensive inventa ogni sorta di tariffe da applicare alle pratiche volte a propiziarsi un trattamento indulgente nell’aldilà: sarà dunque consigliabile incoraggiare con il dono di un paio di orecchini d’oro il confessore del quale si richiede l’assistenza al momento del trapasso, mentre il munifico lascito di «tutte le mie strazze di camise, et vestimenti roti» a «qualche povera puta donzella» (auspicabilmente orfana, per «più sodisfatione» della testatrice) dovrà dalla fortunata erede essere ricambiato con una serie di ben precisi atti di devozione per l’anima della defunta (50).
Nemmeno la Madonna del Rosario sfugge a questa logica inesorabile: dovrà infatti adattarsi a dividere il suo ruolo di protagonista con la devota che, avendole donato «la mia vestura sguarda [vermiglia] e la corona di coralli rossi co’ suoi perosini [orecchini] d’oro» da sfoggiare la domenica del Rosario, esige in cambio che «ogni volta che la Madre di Dio sarà vestita della detta mia vestura, il padre predicatore raccomandi l’anima mia all’orazione del popolo, facendogli dire un Pater Noster et un’Ave Maria per l’anima di chi ha donato quella veste alla Madonna».
Questa donatrice, Elena Soldani — all’apparenza una nubile, resa quasi arrogante dalla consapevolezza che indipendenza e benessere economico la rendono «padrona di disporre del mio secondo il dettame della mia coscienza e della convenienza», «libera ed assoluta padrona della mia volontà e della mia robba» — prescrive che gli altri suoi gioielli siano venduti per la celebrazione di messe di suffragio: «e stieno avvertiti, nella stima e vendita di questa robba, a non buttarla via» (51). È difficile sottrarsi all’impressione che per la maggioranza delle veneziane dell’età barocca ogni sforzo teso all’autonomia nell’affermazione della propria volontà e delle proprie personali aspirazioni restasse irrimediabilmente circoscritto all’ambito della «robba». Per il resto, le sporadiche e più o meno combattive letterate o le tante donne che nella vita quotidiana tentavano di non cedere alle sopraffazioni maschili non modificano la realtà del passivo conformismo, anzi dell’indifferenza, con cui le veneziane si ponevano di fronte al problema della loro promozione culturale e sociale (52). Altrettanto arida e grigia, rattrappita nell’ambito angusto ed egoistico del perseguimento della salvezza personale e dei mezzi economici meglio atti ad assicurarla, appare la vita spirituale di infinite donne di ogni ceto. Non stupisce che, come è stato osservato (53), il Seicento veneziano sia un secolo carente, anche in campo femminile, di energici, generosi esempi di santità.
1. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 65, nr. 119, 2 agosto 1647; analoga raccomandazione conteneva il testamento (31 marzo 1630) dello zio di Francesco, Nicolò, il cui dogado aveva inferto un ulteriore colpo alle già tutt’altro che floride finanze familiari (cf. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958 [ripubblicato in Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e di idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 1-245], pp. 300 e 304; v. anche Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1983, pp. 366-367).
2. Sulle monacazioni e sui monasteri femminili veneziani v. James C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal ’500 al ’900, Roma 1981, pp. 148-154; Alexander Cowan, Rich and Poor among the Patriciate in Early Modem Venice, «Stridi Veneziani», n. ser., 6, 1982, pp. 147-160; Francesca Medioli, L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, Torino 1990, pp. 116-119; Volker Hunecke, Kindbett oder Kloster. Lebenswege venezianischer Patrizierinnen im 17. und 18. Jahrhundert, «Geschichte und Gesellschaft», 18, 1992, nr. 4, pp. 446-476, sulle monacazioni pp. 446-458; Silvio Tramontin, La diocesi nelle relazioni dei patriarchi alla Santa Sede, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 68-72 (pp. 55-90); Giovanni Spinelli, I religiosi e le religiose, ibid., pp. 177, 189-198 (pp. 173-209); Giuseppe Trebbi, La società veneziana, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi - Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 161-162 (pp. 129-213); Volker Hunecke, Der venezianische Adel am Ende der Republik, 1646-1797. Demographie, Familie, Haushalt, Tübingen 1995, pp. 137-141, 337. Nel Seicento le doti patrizie variavano dai 2-4.000 ducati dei più poveri ai 40.000 e oltre dei ricchissimi (A. Cowan, Rich and Poor, pp. 153 e 157).
3. Rari, ma non inesistenti. Cf. J.C. Davis, Una famiglia veneziana, pp. 152-153; V. Hunecke, Kindbett, p. 461; Id., Der venezianische Adel, pp. 139-140.
4. Su suor Arcangela e la sua opera v. Emiilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, Venezia-Roma 1960; Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento. Lucrezia Marinelli e Arcangela Tarabotti, Roma 1979, in partic. pp. 79-111, 199-238; Giorgio Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 19832, pp. 223-229 e passim; F. Medioli, L’«Infeno monacale»; Letizia Panizza, Introductory Essay a Arcangela Tarabotti, Che le donne siano della spezie degli uomini, London 1994, pp. VII-XXX.
5. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 167, nr. 177, testamento di Zuane Badoer, 18 aprile 1670; b. 166, nr. 124, testamento di Francesco Tiepolo, 17 dicembre 1680 (in quello stesso anno, il «fruttarol» Domenego Querengo può invece prendersi il lusso, avendo già maritata una figlia, di lasciare alle altre tre facoltà di scelta tra «maritare o monacare, come più il Signor Iddio gl’inspirerà», assegnando comunque a ciascuna una dote di 1.300 ducati: b. 186, nr. 169, 22 luglio 1680); b. 166, nr. 142, testamento di Francesco Querini, 5 aprile 1702 (tre sue figlie sono maritate, una quarta «felicemente» monacata; non appartenendo al patriziato, il Querini è meno condizionato da pregiudizi sociali e non esita quindi a raccomandare alle ultime due figlie di non lasciarsi sfuggire un’eventuale occasione matrimoniale, cercando nello sposo non rango o ricchezze ma bontà, timor di Dio, «honesta conditione»); b. 90, nr. 132, testamento di Lucrezia Erizzo Contarini, 4 settembre 1702.
6. All’inizio del secolo XVIII risale la fondazione di un’analoga istituzione, di carattere però laico: il Pio Loco delle Penitenti a San Giobbe. Su prevenzione e controllo della prostituzione e sulle strutture di recupero per ex prostitute v. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia, 1500-1620, I, Le Scuole Grandi, l’assistenza e le leggi sui poveri, Roma 1982, pp. 410-416; Giuliana Marcolini, Un epilogo settecentesco: le Penitenti di San Job, in Bernard Aikema-Dulcia Meijers, Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna, 1474-1797, Venezia 1989, pp. 121-127; Giuseppe Ellero, I luoghi della redenzione, in Il gioco dell’amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento. Catalogo della mostra, Venezia, Casinò Municipale Ca’ Vendramin Calergi, 2 febbraio -3 aprile 1990, Milano 1990, pp. 57-61.
7. Nel 1619 il patriarca stesso, Giovanni Tiepolo, riteneva giusto non vincolare a una disciplina troppo rigida le oltre duemila monache di nobile famiglia rinchiuse in convento contro la loro volontà: «riflettendo in me stesso come esse sieno nobili, allevate e nodrite con somma delicatezza et rispetto, che se fossero dell’altro sesso ad esse toccherebbe il governare et comandare il mondo» (cf. E. Zanette, Suor Arcangela, pp. 35-36; F. Medioli, L’«Inferno monacale», p. 120).
8. Moderata Fonte, Il merito delle donne. Ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli uomini, a cura di Adriana Chemello, Milano 1988, soprattutto pp. 17-23 (l’opera veniva pubblicata postuma a Venezia nel 1600). Su Moderata Fonte (Modesta da Pozzo) v. G. Conti Odorisio, Donna e società, pp. 57-63, 159-198; Adriana Chemello, La donna, il modello, l’immaginario. Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, a cura di Marina Zancan, Venezia 1983, pp. 106-150; Ead., Gioco e dissimulazione in Moderata Fonte, introduzione a M. Fonte, Il merito delle donne, pp. IX-LXIII.
9. Così era avvenuto per Elena, «carissima et amantissima» sorella del causidico Santo Pisani, che nel suo testamento la lodava («se bene è stata, et è, per natura colerica et impaciente») per «l’indicibil amore», il «grand’amore et carità» con cui si occupava della casa e degli ammalati (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 187, nr. 509, 18 giugno 1641. Alla cura dei familiari malati si era dedicata assiduamente anche Orsetta, nipote nubile del doge Giovanni Bembo, come egli ricordava nel suo testamento in b. 1244, nr. 435, 16 maggio 1617). Anche per la Venezia sei-settecentesca vale, in genere, quanto osservato per l’Europa rinascimentale da Margaret L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari 1991, pp. 34-35: «la società aveva poco spazio per le donne svincolate da Dio e dagli uomini».
10. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1146, nr. 210, 10 gennaio 1628 m.v. (le ragazze potevano anche scegliere di ritirarsi a pensione in un monastero o in altro «loco honorato», purché approvato da due almeno dei cinque fratelli; se avessero deciso di vivere «con modo et loco differente di quello ho ordinato», o di maritarsi, dalla madre non avrebbero ereditato nulla). Il testamento di Antonio Giustinian quondam Giacomo (b. 1280, nr. 18, 18 settembre 1648) e quello di Marco Giustinian quondam Antonio (b. 1281, nr. 146, 14 giugno 1705) informano sulla sistemazione e sull’appannaggio rispettivamente di una ragazza cui un difetto fisico impediva la monacazione, e di una nubile molto anziana; nel testamento di Nicolosa Valier, moglie di Santo Moro di Zuanne (ibid., nr. 170, 21 maggio 1685), la madre lascia 1.000 ducati della propria dote alle due figlie ancora da sistemare, «acciò con questo pocho possino se non maritarsi, almeno alimentarsi», esortando tuttavia i figli a cercare di accasare le sorelle «ancho con pocho». Dandone la colpa ai padri, che non provvedevano per tempo alle figlie lasciandole così «diseredate, a bestemmiar le anime loro», Moderata Fonte denunciava con crudo realismo la condizione delle donne «tenute per ischiave» dai fratelli dopo che costoro avevano «usurpato la lor ragione, e goduto il loro, contra ogni giustizia, senza mai trattar di locarle; et così convengono sotto il loro imperio invecchiarsi in casa servendo ai nepoti, e finiscono la lor vita sepolte innanzi che morte» (M. Fonte, Il merito delle donne, pp. 28-29). Tale era per esempio il caso della «povera gentildonna» Marina Foscarini quondam Zuan Paolo, costretta dal fratello Alvise a vivere di stenti e a fargli per giunta donazione di alcuni suoi beni. Ma alle orfane poteva capitare di peggio: come ad Andriana Malipiero quondam Domenego, cacciata di casa dai fratelli dopo la morte dei genitori (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 211, 12 marzo 1656; b. 64, nr. 30, 11 agosto 1648).
11. Dal 1577 la competenza su questo tipo di reati spettava agli esecutori contro la bestemmia. Cf. Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600. Gli esecutori contro la bestemmia, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 431-528.
12. V. Gabriele Martini, La donna veneziana del ’600 tra sessualità legittima ed illegittima: alcune riflessioni sul concubinato, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 145, 1986-1987, pp. 301-339; Alexander Cowan, Patricians and Partners in Early Modern Venice, comunicazione presentata alla Seconde Conférence d’Histoire Urbaine, Strasbourg, 8-10 settembre 1994. A differenza del matrimonio clandestino, il matrimonio che una speciale dispensa patriarcale autorizzava i contraenti a mantenere segreto era pienamente in regola con le norme ecclesiastiche (cf. V. Hunecke, Der venezianische Adel, pp. 110-117).
13. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1280, nr. 48, 21 maggio 1688. Questa consuetudine delle madri veneziane risaliva al secolo XV: v. Stanley Chojnacki, «The Most Serious Duty»: Motherhood, Gender, and Patrician Culture in Renaissance Venice, in Refiguring Woman. Perspectives on Gender and the Italian Renaissance, a cura di Marilyn Migiel - Juliana Schiesari, Ithaca - London 1991, pp. 149-150 (pp. 133-154).
14. Cf. J.C. Davis, Una famiglia veneziana, pp. 150-151; A. Cowan, Rich and Poor, specialmente pp. 154-158; Id., Love, Honour and the «Avogaria di Comun» in Early Modem Venice, «Archivio Veneto», ser. V, 144, 1995, pp. 5-19. Smanioso di maritare entrambe le figlie «nel pregiato freggio della nobiltà veneta» e a sua volta sposato a una nobildonna veneziana da ca’ Malipiero era il nobile padovano Speroindio Salvatico, dottore in utroque iure: se la minore aveva acconsentito al matrimonio con un patrizio Barbo, la primogenita era stata invece irremovibile nella decisione di prendere il velo (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 266, 15 agosto 1649; cf. A. Cowan, Love, p. 8). Per l’età media del matrimonio cf. i testamenti di Girolamo Foscarini quondam Alvise, procuratore di San Marco e di Zuanne Priuli quondam Francesco in A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 65, nr. 168, 29 dicembre 1650, e nr. 173, 5 maggio 1653.
15. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1139, nr. 171, 25 marzo 1652 (testamento di Lorenzo Loredan quondam Polo).
16. Cf. Alexander Cowan, New Families in the Venetian Patriciate, 1646-1718, «Ateneo Veneto», n. ser., 23, 1985, pp. 55-75; V. Hunecke, Der venezianische Adel, pp. 144-145, 167-168; Roberto Sabbadini, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia (sec. XVII-XVIII), Udine 1995, pp. 76-82. Ma i Donà non disdegnavano di accasare le figlie con patrizi di nobiltà recente: J.C. Davis, Una famiglia veneziana, p. 150.
17. Appunto dal fedecommesso che vincolava tanto i beni materni quanto quelli del casato paterno venivano nettamente privilegiati sulle sorelle — defraudandole in tal modo, con la loro sola esistenza, perfino di una dote spirituale — i figli maschi di Lucietta Contarini (cf. James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 68-71; Id., Una famiglia veneziana, pp. 111-132; V. Hunecke, Der venezianische Adel, p. 276; per un raro esempio di fedecommesso in linea femminile v. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 140, nr. 105, 28 maggio 1675, testamento di Giustina Sanudo Condulmer vedova Gussoni, sulla quale cf. A. Cowan, Patricians and Partners). Anche in questo campo, nella Venezia seicentesca, i non patrizi tendevano a modellare i loro comportamenti su quelli dell’aristocrazia; così, per esempio, un Domenico Pesenti, che raccomandava ai suoi esecutori testamentari di collocare le sue tre figlie «come stimeranno meglio, con manco danno sia possibile» dell’unico maschio (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1280, nr. 59, 6 ottobre 1676). Moderata Fonte si scagliava contro quei padri «che non provedono mai alle lor figliuole vivendo, et al fin morendo lasciano il tutto, o la maggior parte delle loro sostanze a mascoli e le privano della propria eredità, non altramente che se fossero figliuole di loro vicini, e così sono cagione che le povere giovani cascano in mille errori per necessità, e i fratelli rimangono ricchi di robba e di altrettanta vergogna» (M. Fonte, Il merito delle donne, p. 28).
18. «Se son stata patrona della mia volontà vivendo mio maritto, come è noto a tutti, son molto più doppoi alla sua morte», proclamava Lucietta Contarini. Cf. Giustiniana Migliardi o’ Riordan, Per un’indagine sulla capacità d’agire della donna nel diritto veneziano, in La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ’400 al ’600. Fonti e problemi. Atti del convegno internazionale, Milano 18-4 dicembre 1983, Roma 1983, pp. 469-471; G. Trebbi, La società veneziana, p. 159 (e in generale, sul matrimonio patrizio, pp. 156-161). Per il caso di una patrizia veneziana alla quale, data l’inaflidabilità del marito, i familiari delegano l’amministrazione del patrimonio domestico v. Renata Ago, Maria Spada Veralli, la buona moglie, in Barocco al femminile, a cura di Giulia Calvi, Roma-Bari 1992, pp. 62-63 (pp. 51-70).
19. Espliciti al riguardo sono ad esempio Girolamo Molin quondam Bernardo (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1139, nr. 148, 18 marzo 1642) e Zuane Badoer quondam Zustinian (cf. n. 5). In freddi rapporti con la famiglia d’origine, Catarina Zorzi faceva propri gli interessi del marito, Francesco Zonca di Giacomo Antonio, al punto di nominarlo suo erede preferendolo ai figli, «perché tal volta li figlioli, vedendosi padroni benché di pocha roba, la precipitano [...]» (b. 258, nr. 263, 6 gennaio 1652 m.v.).
20. Assumeva un tono supplichevole Girolamo Foscarini quondam Alvise (cf. n. 14), che fissando l’eredità spettante alla consorte Pisana pregava costei di «lasciarla in casa in cumulo della facoltà, pigliandosi volendo quelli assegnamenti d’entrata che fossero ragionevoli, col riguardo amorevole del minor danno et incomodo della casa che fosse possibile, promettendomi costantemente del suo affetto che staia, come la prego di tutto cuore, in stato vedovile [...]».
21. Sempre, naturalmente, nel puntiglioso rispetto dell’estrazione sociale del beneficato. La sorella di Battista, servitore di Chiara Morosini moglie di Zuan Girolamo Foscarini quondam Almorò, riceve ogni anno dalla nobildonna 6 ducati e un abito nuovo; dopo la morte di lei dovrà continuare a godere di questa elargizione, e venire per giunta maritata «in pover huomo di sua conditione ma che sia da bene, facendoli a quel tempo la biancaria che gli sarà neccessaria da povereta» (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 166, nr. 80, 5 marzo 1700). Precedenti trecenteschi sono illustrati da Dennis Romano, Patrizi e popolani. La società veneziana del Trecento, Bologna 1993, pp. 195-206, e cinquecenteschi da G. Trebbi, La società veneziana, pp. 185-187; sui rapporti di patronage nella storia delle donne v. Lucia Ferrante - Maura Palazzi - Gianna Pomata, Introduzione a Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino 1988, pp. 7-47.
22. Lugretia quondam Battista Carregheta «piater», vedova di Andrea Bevilacqua «barcarol», lascia tre anelli ad altrettante gentildonne sue «patrone», gli altri suoi gioielli e alcuni oggetti di uso domestico a una di queste, affinché li venda a beneficio della sua anima; al suo funerale dovrà provvedere la sua Scuola, quella dello Spirito Santo (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 140, nr. 130, 22 marzo 1703).
23. Sulle donne che si raggruppavano in «scoletta» per esercitare il meretricio v. Madile Gambier, La piccola prostituzione tra Sei e Settecento, in Il gioco dell’amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento. Catalogo della mostra, Venezia, Casinò Municipale Ca’ Vendramin Calergi, 2 febbraio - 3 aprile 1990, Milano 1990, pp. 37-39; per donne complici in trasgressioni religiose, Federica Ambrosini, Between Heresy and Free Thought, between the Mediterranean and the North: Heterodox Women in 17th Century Venice, comunicazione presentata al convegno Mediterranean Urban Culture 1400-1800, Newcastleupon-Tyne, 7-9 settembre 1995. Forse per la natura elusiva e difficilmente definibile del reato, non disponiamo di documentazione sull’omosessualità femminile: per un rarissimo caso v. Gabriele Martini, Il «vitio nefando» nella Venezia del Seicento. Aspetti sociali e repressione di giustizia, Roma 1988, pp. 115-116.
24. V. per es. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 258, 18 marzo 1654 (Paolina Malossi vedova di Dimo Rois da Nauplia nomina commissaria ed erede residuaria Giulia, moglie del console inglese John Hobson, nella quale ha trovato maggior generosità che nei suoi familiari) e b. 92, nr. 196, 25 ottobre 1699 (non solo alle persone di famiglia, ma anche alle sue «care amiche et vicine» chiede perdono Margarita Caisel, qualora le avesse offese con il suo temperamento vivace). Cf. Giovanni Scarabello, Paure, superstizioni, infamie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 361-362 (pp. 343-376).
25. «Nel diciassettesimo secolo non era onorevole per una donna delle classi superiori lavorare» se non impegnandosi in «compiti inutili e ripetitivi [...] che potevano riempire il vuoto, senza avere l’apparenza o la macchia dell’operosità» (M.L. King, Le donne nel Rinascimento, p. 93; cf. Giulia Calvi, Introduzione a Barocco al femminile, a cura di Ead., Roma-Bari 1992, pp. X-XII). Sul lavoro nei monasteri femminili e sulle condizioni dei monasteri poveri v. E. Zanette, Suor Arcangela, pp. 52-54 e 61-65; cf. anche Gabriella Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII), in Storia d’Italia. Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di Giorgio Chittolini - Giovanni Miccoli, Torino 1986, p. 416 (pp. 359-429). Le Convertite della Giudecca avevano una piccola stamperia (Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata. Dalle origini alla caduta della Repubblica, III, Il decadimento, Trieste 19737, p. 360). Disponendo la futura monacazione di due bambine che gli stanno molto a cuore — quasi certamente sue figlie naturali, nate da una gentildonna zaratina — il patrizio Alvise Priuli quondam Zaccaria raccomanda di scegliere il monastero «fra li commodi, non volendo che sia delli poveri per niuna maniera, acciò non havessero le povere creature da stentar, et da guadagnarsi il viver et vestito in vita sua» (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 64, nr. 13, 8 dicembre 1647. La già avvenuta monacazione delle due figlie legittime, delle sorelle e di una nipote del testatore comprovano come davvero «stretisime» fossero le «fortune» di casa Priuli «nelli correnti tempi sì miserabili et calamitosi»).
26. Sulla popolazione femminile degli ospedali e degli altri istituti di assistenza v. B. Pullan, La politica sociale, pp. 398-399, 416-426 e passim; Franca Semi, Gli «Ospizi» di Venezia, Venezia 1983, passim (cf. per es. pp. 87-95 per la Ca’ di Dio in contrada di San Martino, dal 1623 deputata ad accogliere donne sole, povere, non giovanissime, «di origine nobile o cittadine originarie»); Madeleine V. Constable, The Education of the Venetian Orphans from the Sixteenth to the Eighteenth Century: an Expression of Guillaume Postel’s Judgment of Venice as a Public Welfare State, in Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di Marion Leathers Kuntz, Firenze 1988, pp. 186-201; B. Aikema-D. Meijers, Nel regno dei poveri, in particolare il contributo di Giuseppe Ellero, Personaggi e momenti di vita, pp. 109-120.
27. Sulle «figlie del coro» — anch’esse, se non si sposavano né monacavano, potevano restare tutta la vita nell’istituto che le ospitava, in qualità di cantanti, musiciste o insegnanti, disponendo dei loro guadagni con una certa autonomia — v. Jane L. Baldauf Berdes, Women Musicians of Venice. Musical Foundations, 1525-1855, Oxford 1993; Marinella Laini, Vita musicale a Venezia durante la Repubblica. Istituzioni e mecenatismo, Venezia 1993, pp. 78-132. L’orgogliosa coscienza di appartenere a una sorta di patriziato della pittura traspare dal testamento, datato 8 ottobre 1645, di Ottavia «Tentoretta»: essa afferma di aver sposato il pittore di origine svizzera Sebastiano Casser per volontà dei fratelli, dopo aver verificato che davvero «si portase bene nella pitura [...] aciò che con la sua virtù il mantenise il nome da Cà Tentoretto» (pubblicato in Vite dei Tintoretto, da Le maraviglie dell’arte, overo le vite degl’illustri pittori veneti e dello Stato descritte dal cavalier Carlo Ridolfi [1648], con Introduzione di Antonio Manno, Venezia 1994, p. 137; cf. ibid., Introduzione, p. XIV). Sulla Piccini v. Anna Francesca Valcanover, Contributi ad una storia del libro illustrato veneto: Suor Isabella Piccini, «Biblioteche Venete», n. ser., 4, 1985, pp. 29-48; sulla Carriera, Gabriella Gatto, Carriera, Rosalba, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 745-749.
28. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 140, nr. 40, 13 ottobre 1663 (Cristoforo Tommasini); b. 673, nr. 264, 7 maggio 1692 (Prudentia Pelliccioli vedova Grigis). Un’altra madre, Elena Fondra vedova del causidico Paolo Nardani, diffida i figli maschi dall’estorcere alle sorelle «cosa alcuna di quello che esse si havessero acquistato con le loro fatiche di cuccire, et suoi lavori» (b. 140, nr. 71, 10 agosto 1682). Una Giulia Inchiostri quondam Gasparo appare titolare di un laboratorio «di ponto in aria», con «mistre» alle sue dipendenze (ibid., nr. 202, 30 agosto 1674); una Meneghina Longhina lavora «di battioro» in una bottega di proprietà di Lodovica di Rossi vedova Negrini (b. 167, nr. 234, 14 settembre 1684). Forse Giulia e Lodovica continuavano l’attività del padre e del marito defunti; ma è possibile che le donne che esercitavano un mestiere in proprio non fossero nel Seicento così rare come nel tardo Cinquecento (per quest’epoca v. Sylvie Favalier, Le attività lavorative in una parrocchia del centro di Venezia [San Polo - secolo XVI], «Studi Veneziani», n. ser., 9, 1985, pp. 192, 193, 196 [pp. 187-197]. Cf. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, pp. 201-202). Sulle donne insegnanti cf. M.L. King, Le donne nel Rinascimento, p. 196; sul lavoro dei merletti come «grande territorio sommerso dell’economia» seicentesca, Alessandra Mottola Molfino, Nobili, sagge e virtuose donne. Libri di modelli per merletti e organizzazione del lavoro femminile tra Cinquecento e Seicento, in La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ’400 al ’600. Fonti e problemi. Atti del convegno internazionale, Milano 18-4 dicembre 1983, Roma 1983, pp. 290-293 (pp. 277-293). Per le facilitazioni offerte al lavoro femminile nel settore della seta e della lana dopo l’epidemia di peste del 1629-1631 v. Paolo Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma, 1628-1632, Milano 1989, p. 97.
29. Per la consuetudine di educare in convento le bambine del patriziato: V. Hunecke, Der venezianische Adel, pp. 336-340. Sulla cultura nei monasteri femminili e l’istruzione impartita alle educande v. Silvio Tramontin, Ordini e congregazioni religiose, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 48-55 (pp. 23-60) (fra le Dimesse si annoverarono autrici di scritti ascetici e devoti e di poesie religiose); G. Zarri, Monasteri femminili, pp. 418-419; F. Medioli, L’«Inferno monacale», pp. 137-140; M.L. King, Le donne nel Rinascimento, p. 200.
30. Autrice de La nobiltà et l’eccellenza delle donne; et i diffetti et mancamenti de gli huomini, Venezia 1600. Su di lei v. G. Conti Odorisio, Donna e società, pp. 47-78, 114-157; A. Chemello, La donna, il modello, l’immaginario, pp. 150-170.
31. V. Francesco Ludovico Maschietto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684), prima donna laureata nel mondo, Padova 1978 (con notizie su altre letterate veneziane); Giorgio Fedalto, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1646-1684) tra spiritualità claustrale e secolare nella Venezia del Seicento, «Archivio Veneto», ser. V, 110, 1979, pp. 55-69; Renzo Derosas, Corner, Elena Lucrezia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 174-179.
32. V. Giorgio Busetto, Copio (Coppio, Copia, Coppia), Sara (Sarra), in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 582-584. Degli scritti della Copio Sullam quasi nulla sopravvive. Le Ebree veneziane sembra condividessero con le cristiane sul piano economico la libertà di disporre dei propri beni, su quello culturale la scarsa dimestichezza con i libri: v. Carla Boccato, Aspetti della condizione femminile nel ghetto di Venezia (sec. XVII): i testamenti, «Italia», 10, 1993, pp. 105-135.
33. V. Silvio Tramontin, Catechesi, catechismi e catechisti, in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, in particolare pp. 114 e 120 (pp. 113-130). Il 14 giugno 1660 una nobildonna, Isabetta Vendramin quondam Zuan Maria, lasciava «per elemosina» un ridottissimo corredo «ad una di quelle figliuole orfana [...] et povera, che attende ad imparar, o insegnar la dottrina christiana in chiesa di San Martin» (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 207).
34. L’11 agosto 1688 la sessantenne Sabba Scalabrina, a servizio presso una nobildonna Foscolo, scriveva «di mia propia mano» il testamento; lo stesso faceva, il 19 agosto 1697, la sua coetanea Veneranda Sottili, che confermava con un lascito non indifferente il «buon genio e servitù» da lei professati nei confronti di ca’ Pisani, dove suo marito Girolamo Torre era cameriere. Dichiaratamente illetterata, apprezzava tuttavia l’arte della scrittura quella Santa bergamasca, serva in casa Priuli e piuttosto benestante, che il 25 ottobre 1645 dichiarava di voler lasciare in sua memoria al nipote della padrona «un calamaro d’argento» da viaggio del valore di 20 ducati, con inciso il nome della donatrice (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 673, nr. 275; b. 1281, nr. 198; b. 186, nr. 269). Cf. Federica Ambrosini, «De mia man propia». Donna, scrittura e prassi testamentaria nella Venezia del Cinquecento, in Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 33-54. Va tuttavia tenuto presente che nel secolo XVII il numero dei testamenti olografi è notevolmente ridotto dal dilagante uso di dettare il testamento a persona di fiducia, diversa dal notaio.
35. Zanetta Logiani, moglie di un «librer», lascia alla figlia «un quadro di Sofonisma» (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 167, nr. 161, 12 aprile 1677). Il ricco materiale contenuto ivi, Giudici di Petizion, Inventari, suggerisce che tra le eroine dell’antichità classica amatori e collezionisti veneziani prediligevano Lucrezia e Cleopatra; tra i personaggi femminili veterotestamentari, Giuditta.
36. Rispettivamente, l’Eromena e l’Adamo (ivi, Giudici di Petizion, Inventari, b. 383/48, nr. 59, 10 gennaio 1680 m.v. La Marcello non sembra appartenere al patriziato). Cf. Ginetta Auzzas, Le nuove esperienze della narrativa: il romanzo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 251-267 (pp. 249-295). Sul Biondi v. inoltre Gino Benzoni, Biondi, Giovanni Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 528-531; sul Loredan e la sua cerchia, G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 151-176 e passim.
37. Cf. F. Ambrosini, Between Heresy and Free Thought. Su Pellegrina Donà v. anche G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 166-167; G. Scarabello, Paure, superstizioni, infamie, pp. 360-361.
38. Sull’Accademia degli Incogniti e il libertinismo veneziano v. G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 149-259; sulla circolazione di letteratura eterodossa a Venezia Paolo Ulvioni, Stampa e censura a Venezia nel Seicento, «Archivio Veneto», ser. V, 105, 1975, pp. 79-93 (pp. 45-93); su manifestazioni femminili di irreligiosità, F. Ambrosini, Between Heresy and Free Thought. Nonostante la loro ampia diffusione, a Venezia le pratiche magiche — confinanti spesso con la semplice superstizione da un lato, con la medicina popolare dall’altro — non portarono mai a persecuzioni di massa: v. G. Scarabello, Paure, superstizioni, infamie, pp. 368-376; Ruth Martin, Witchcraft and the Inquisition in Venice 1550-1650, Oxford-New York 1989; Anne Jacobson Schutte, I processi dell’Inquisizione veneziana nel Seicento: la femminilizzazione dell’eresia, in L’Inquisizione romana in Italia nell’età moderna. Archivi, problemi di metodo e nuove ricerche. Atti del seminario internazionale, Trieste, 18-20 maggio 1988, Roma 1991, pp. 164-167 (pp. 159-173); Ead., Donne, Inquisizione e pietà, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 235-251. È valido anche per il secolo successivo il quadro d’insieme delineato per il Cinquecento da Guido Ruggiero, Binding Passions. Tales of Magic, Marriage, and Power at the End of the Renaissance, New York-Oxford 1993, dedicato soprattutto alla magia amorosa. Esempio di intreccio tra magia, prostituzione e indifferentismo religioso è il caso della vecchia profuga da Candia, denunciata e condannata nell’estate 1698 come tenutaria di una casa ove si svolgevano «impuri amori» da lei fomentati con pratiche magico-superstiziose; una delle due ragazze alle sue dipendenze era un’ebrea, uno dei clienti un sacerdote (A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 2, fasc. Querella per scoletta, et altro c. Cattarina Segura prega [...]).
39. Anche la denuncia contro i coniugi da Domo finiva in nulla. Su queste donne v. F. Ambrosini, Between Heresy and Free Thought.
40. Il caso delle Dimesse di Murano è analizzato da Giovanna Paolin, Confessione e confessori al femminile: monache e direttori spirituali in ambito veneto tra ’600 e ’700, in Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, a cura di Gabriella Zarri, Torino 1991, pp. 372-375 (pp. 366-388).
41. V. Anne Jacobson Schutte, Subalternità e potere: una chiave di lettura per l’autobiografia di Cecilia Ferrazzi, in Cecilia Ferrazzi, Autobiografia di una santa mancata, 1609-1664, a cura di Anne Jacobson Schutte, Bergamo 1990, pp. 103-113; Ead., Un caso di santità affettata: l’autobiografia di Cecilia Ferrazzi, in Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, a cura di Gabriella Zarri, Torino 1991, pp. 329-342. Sulla finzione di santità in territorio veneto v. Marina Romanello, Il caso di Marta Fiascaris tra affettata santità e rete di solidarietà femminile, in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino 1988, pp. 240-252; A. Jacobson Schutte, I processi, pp. 167-173; Ead., Donne, pp. 245-248; Marina Romanello, Inquietudini religiose e controllo sociale nel Friuli del Seicento, in Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, a cura di Gabriella Zarri, Torino 1991, pp. 343-365; G. Paolin, Confessione e confessori al femminile, pp. 366-388. La vicenda della bergamasca Maria Janis, processata nel 1662-1663, ha ispirato a Fulvio Tomizza il romanzo La finzione di Maria, Milano 1981.
42. Anelli o fèrmagli decorati con simboli macabri erano diffusi soprattutto in Francia, Inghilterra e Nuova Inghilterra: cf. Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari 1977, pp. 382-383. Per l’incombente presenza della morte sulla sensibilità religiosa seicentesca v. Alberto Vecchi, Correnti religiose nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, in partic. pp. 56-63; per la religiosità rodigina del secolo XVII, che presenta molte affinità con quella veneziana, cf. Sandra Olivieri Secchi, Ascesa sociale e ideologia in una famiglia polesana fra Cinquecento e Seicento: i Bonifacio, «Studi Veneziani», n. ser., 21, 1991, p. 234 (pp. 157-246).
43. Gracimana Nani vedova di Alvise Priuli, procuratore di San Marco, lascia per testamento alle tre figlie monache «ducati cento per cadauna, perché possino volendo farsi dir tante messe per le loro anime mentre sono in vita». Spaventata alla prospettiva del «doloroso e spaventevolle paso» della morte, e dei tormenti del purgatorio, Cattarina Provini deplora che il marito non le abbia concesso di investire a beneficio della propria anima quanto donatole dal padre, costringendola per giunta a peccare lavorando a vantaggio della casa anche le feste (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 166, nr. 140, 24 luglio 1681; b. 140, nr. 46, 22 ottobre 1708).
44. Se la figura e il culto del Borromeo, legati com’erano agli ideali della Roma controriformistica, avevano suscitato l’iniziale diffidenza dei ceti dirigenti veneziani (e Paolo Sarpi ne aveva commentato con sarcasmo la canonizzazione: cf. Gino Benzoni, Una città caricabile di valenze religiose, in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, pp. 40-42 [pp. 37-61] e v. anche Gaetano Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e società nel Rinascimento tra Riforma e Manierismi, a cura di Vittore Branca-Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 37-42 [pp. 21-42]), la devozione popolare veneta se ne era invece rapidamente impossessata, riconoscendo nell’arcivescovo di Milano — come in Filippo Neri — essenzialmente un santo della carità verso i poveri (cf. Bernard Aikema, L’immagine della «carità veneziana», in Id. - D. Meijers, Nel regno dei poveri, pp. 89-90 [pp. 71-98]). Per l’ampio spazio occupato dai santi intercessori nella devozione veneziana a partire dall’ultimo Cinquecento v. Fulvio Salimbeni, La Chiesa veneziana nel Seicento, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 38-39 (pp. 19-54) (si occupano più espressamente dell’iconografia Camillo Semenzato, Venezia religiosa nell’arte del Seicento, «Studi Veneziani», 14, 1972, pp. 190-191 [pp. 185-193] e Alberto Vecchi, L’iconografa aulica veneziana nell’età della controriforma, ibid., 17-18, 1975-1976, pp. 254-255, 262-263 [pp. 249-264]). L’attaccamento a un santo e al suo ordine religioso poteva assumere un carattere così esclusivo da rasentare il fanatismo. Le molte prove tangibili di devozione all’ordine carmelitano contenute nel testamento di un’agiata signora veneziana, Angela Maria Pedevilla Galgan, culminano nella sua designazione delle suore della chiesa di Santa Teresa come eredi residuarie; per il marito un piccolo lascito, e la raccomandazione alle religiose di aver cura di lui in caso di necessità (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 673, nr. 4, 18 dicembre 1712).
45. Di vari reliquiari e «cose sante» in suo possesso disponeva la giovane Anzoletta Barban, testando, gravemente malata, il 20 agosto 1702. Antonia Pianton quondam Antonio, moglie di Antonio Statio, possedeva — abbastanza coerentemente — «un anello di diamanti con l’immagine di santo Antonio nel mezo»; il 15 ottobre 1707 ella stabiliva che fosse «consignato alla chiesa di San Basso acciò quello sii in perpetuo conservato appresso l’immagine di santo Antonio, al quale gliene facio un dono in testimonio della mia devotione che proffesso a quel santo mio particolar advocato» (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 92, nrr. 13 e 23). Diamante Bonfante Luciani lasciava alla donna che l’assisteva nella malattia «un anello con l’impronta della Madona acciò preghi Iddio per me» (ibid., nr. 43, 9 settembre 1698). Cf. le osservazioni di G. Scarabello, Paure, superstizioni, infamie, pp. 357-358. Per «l’uso di oggetti nella pietà magica di contatto» v. Antonio Niero, Spiritualità popolare e dotta, in La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 260-261 (pp. 253-290).
46. Esemplari in questo senso testamenti come quello di Elena Mocenigo Dolfin o quello di Doralice Orlandini (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 64, nr. 88, 17 maggio 1651, e b. 140, nr. 60, 18 giugno 1683).
47. Al «servitio della Madonna dell’Oreto nel capitelo nella calle ove habito» destina tutte le sue vesti la vedova Franceschina Bonavolta, aggiungendo lumi e olio. Un’altra vedova, Isabetta Lazzaroni, lascia «una imagine della Madona del Rosario che è in casa mia» al piovano di San Giovanni Elemosinario di Rialto affinché «la faci espore in loco più esposto alla adoration di detta imagine»: questa è dotata di un corredo da integrare con altre vesti e con «una carega decente». Una Madonna del Rosario, insieme a una «Madallena di marmo fino», lascia anche Diamante d’Elia alla chiesa di Santa Maria del Soccorso, del cui Pio Luogo è priora (ibid., b. 92, nr. 101, 18 giugno 1690; b. 673, nr. 119, 18 giugno 1705; b. 1280, nr. 6, 20 novembre 1679). Sebbene più raramente, anche altri santi potevano beneficiare di analoghi donativi: oltre a «vestire» due statue della Madonna, Anzola quondam Dimitri «mariner» lascia il 5 febbraio 1686 6 ducati a un sant’Antonio «acciò sia vestito, et fatto il suo zio [giglio] d’argento» (b. 186, nr. 75). In qualche occasione i donatori erano uomini, come quell’Antonio Repetelo che destinava «alla Madonna alle Trepalade una vera, et un anello con piera biancha» (b. 140, nr. 27, 20 maggio 1673); ma nella maggior parte dei casi si trattava di un tipo di devozione prettamente femminile. V. Madonne della laguna. Simulacri «da vestire» dei secoli XIV-XIX, a cura di Riccarda Pagnozzato, Roma 1993, che riporta anche un’ampia scelta dell’abbondantissima documentazione esistente in materia presso l’Archivio di Stato di Venezia, l’Archivio della Curia e vari archivi parrocchiali di Venezia e di località limitrofe; e A. Niero, Spiritualità, pp. 258-260.
48. Il patrizio Annibale Tasca lascia alla figlia suor Maria Lucia, cappuccina, «il mio Bambino con tutte le sue circostanze et adobbi, come l’impresto la notte del Santissimo Natale all’Oratorio del Santissimo Crocifisso». Cattarina Bozzi vedova Lion raccomanda attenzione nel maneggiare il suo «presepio» composto di fragili e preziose figurine («essendo tutte da Luca, mi costa a caro prezzo». A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1280, nr. 27, 17 ottobre 1699; b. 673, nr. 70, 15 settembre 1710). Sul «devozionalismo» dell’età barocca cf. A. Vecchi, Correnti religiose, pp. 51-53, 55; ma l’uso di «sante bambole», con la relativa «confusione degli atteggiamenti nei confronti del sacro e nei confronti del gioco», era già presente nella devozione fiorentina quattrocentesca (Christiane Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Roma-Bari 1988, pp. 305 ss.).
49. Un paio di esempi in A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 187, nr. 422, 5 ottobre 1668; b. 167, nr. 168, 16 maggio 1707. Esaminando la devozione mariana della Venezia seicentesca, A. Niero, Spiritualità, pp. 268-271, osserva «che il Seicento veneziano è mariano, fin troppo mariano, a differenza del Quattro e del Cinque».
50. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 12, 26 maggio 1653, testamento di Angela Zinelli moglie di Zorzi di Iseppo «marangon all’Arsenal» (lascito al confessore); b. 673, nr. 23, 5 settembre 1717, testamento di Antonia Roppello (lascito alla «povera puta donzella»). Ben più signorilmente liberale della Roppello era stata Angela Maria Pedevilla Galgan (sulla quale v. n. 44); ma anche il suo lascito perpetuo di 20 ducati «alle povere pute» dell’Ospedale dei Santi Giovanni e Paolo implicava per ciascuna delle beneficate il preciso obbligo di recitare «ogn’anno tre officii da morto» e di comunicarsi tre volte all’anno «per l’anima mia [...] e del signor mio zio».
51. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 186, nr. 196, 8 ottobre 1670; Elena continua annotando meticolosamente il prezzo di acquisto della «rosetta di diamanti» (70 ducati), delle «perle da collo» (altri 70, 17 quella centrale), della «caenella di perle interzate d’ambra» (8 o 9 ducati).
52. Una maggiore spregiudicatezza della donna veneziana riguardo ai «consueti ruoli di madre e di moglie» affiora nel pieno Settecento: v. G. Martini, La donna veneziana, p. 338, e cf. Madile Gambier, La donna e la giustizia penale veneziana nel XVIII secolo, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 567-569, 572 (pp. 529-575).
53. Da G. Spinelli, I religiosi, pp. 198-199.