PENNI, Giovan Francesco, detto il Fattore
PENNI, Giovan Francesco, detto il Fattore. – Figlio del medico fiorentino Battista Penni (Ferrari, 1992, pp. 11, 113), nacque a Firenze con buone probabilità nell’ultimo decennio del XV secolo. Nei registri dell’Archivio dell’Opera del duomo, un «Giovan Francesco di maestro Battista di Jacopo» viene battezzato l’11 marzo 1494, data che potrebbe convenire con gli estremi di vita del pittore (Registri Battesimali, anno 1494 stile comune, c. 34r).
La data di nascita è assai dibattuta. Nel breve profilo a lui dedicato nella prima edizione delle Vite (1550), sostanzialmente ripreso nella seconda (1568) e allegato a quello di un altro creato di Raffaello, Pellegrino da Modena, Giorgio Vasari mette insieme notizie ricevute probabilmente da Giulio Romano e dice il pittore morto a quarant’anni, «circa il 1528» (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 331). Da qui si è dedotto che Penni fosse nato nel 1488, data accolta da alcuni commentatori delle Vite, ma non da Gaetano Milanesi che lo ritiene piuttosto il «Giovan Francesco di Michele di Luca di Bartolomeo», avente otto anni nella portata al catasto del 1504, e quindi nato nel 1496; costui sarebbe lo stesso pittore che a Roma nel 1521 si dichiarava figlio di un non meglio identificato ‘Michele da Pisa’ (Vasari, 1568, IV, 1906, p. 643). L’ipotesi di Milanesi deve essere definitivamente superata in base ai sicuri referti documentari romani del 1520 e del 1525 (Ferrari, 1992, con bibl. precedente).
Non è per ora accertato invece un rapporto di parentela con Giovan Giacomo Penni, medico fiorentino dell’entourage papale, autore di alcuni scritti encomiastici e, in particolare, di una descrizione delle cerimonie allestite nel 1513 per il ‘possesso’ di Leone X e di un poemetto sul celebre rinoceronte indiano portato dai soldati portoghesi a Lisbona nel 1515 (A. Romano, Periegesi aretiniane. Testi, schede e note biografiche intorno a Pietro Aretino, Roma 1991).
Il soprannome di ‘Fattore’, registrato dai documenti e dalle fonti, deriverebbe, secondo Vasari e Filippo Baldinucci, dall’esser stato arruolato «fin da putto», forse già negli anni fiorentini, nella bottega raffaellesca con iniziali compiti di garzone o «camerero» (Shearman, 2003, p. 590). La consuetudine con il maestro instradò il giovane allievo alla funzione segretariale svolta al seguito dell’Urbinate a Roma, dove giunse probabilmente già nel 1508 o intorno al 1510 (Joannides, 2000; Joannides - Henry, 2012). Tale ruolo di spicco, condiviso poco dopo con Giulio Romano, fu sancito sin dalla breve biografia gioviana consacrata a Raffaello (1525; Barocchi, 1971, p. 16) e presto riflesso nell’autobiografia di Benvenuto Cellini che, giunto a Roma nei primissimi anni Venti, rammentava di essere stato aiutato da Penni a procacciarsi le prime commissioni presso il vescovo di Salamanca Francisco de Cabresa, e di aver ricevuto da lui in quell’occasione anche alcuni modelli per vasi e decorazioni (Cellini, 1558-66 circa, 1985).
Eppure, nonostante l’informato giudizio vasariano, gli elogi dei contemporanei e l’impegno della storiografia otto e novecentesca, Penni resta il più indefinito tra gli allievi di Raffaello. È tuttora aperto il problema dell’autografia sia delle opere eseguite accanto al maestro sia di quelle autonome o condotte con Giulio Romano. La questione investe più in generale il tema della struttura e del funzionamento della vasta bottega organizzata da Raffaello allo scopo di far fronte ai pressanti impegni assegnatigli a partire dal 1513 fino alla morte, nel 1520. È nota, infatti, la rigorosa prassi osservata dall’Urbinate non solo nell’esecuzione, perfezionata in prima persona in parti inizialmente affidate agli allievi, ma anche nell’organizzazione delle fasi progettuali, che egli dilazionava in momenti di progressivo approfondimento, dagli schizzi iniziali a penna agli studi d’insieme più definiti e corredati di varianti, seguiti da studi di figure singole e di particolari eseguiti dal vero, generalmente a matita rossa o nera, e infine da modelli di presentazione e cartoni cui collateralmente corrispondeva un certo numero di cartoni ausiliari, copie e facsimile per uso di bottega o a fini didattici. Una pratica, questa, già frequentata in certa misura da Leonardo e dal Perugino, che assurse a statuto di metodo nei cantieri di Michelangelo e Raffaello, comportando nel secondo caso un largo impiego dei due collaboratori più diretti. Il corpus grafico raffaellesco è divenuto così campo d’elezione per quanti si sono proposti di rintracciarvi la mano di Penni, sulla scorta dell’indicazione vasariana secondo la quale egli «imitò nei suoi disegni la maniera di Raffaello e quella osservò del continuo […] perché si dilettò molto più di disegnare che di colorire» (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 331). A parte il tardo Ritratto maschile (1524-25 circa), firmato, della National Gallery di Dublino (un altro ritratto maschile, appartenente a Luciano Bonaparte, è noto da un’incisione ottocentesca: Costamagna, in From Raphael..., 2009, pp. 151 s.), la sezione inferiore dell’Incoronazione della Vergine di Monteluce (Musei Vaticani, Pinacoteca) e la copia della Trasfigurazione di Raffaello (Musei Vaticani, Pinacoteca), documentate dalle fonti, il nucleo di opere oggi a lui assegnate è frutto di oscillazioni attributive che stentano a trovare una definitiva composizione.
Sebbene Vasari menzioni le Logge Vaticane tra le prime cose di Penni «in compagnia di Giovanni da Udine, Perino del Vaga e d’altri eccellenti maestri» (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 332), la storiografia ha provato a rilevare la sua presenza anche nei precedenti cantieri dell’Urbinate. Alla sua mano sono stati avvicinati i due monocromi sottostanti il Parnaso nella stanza della Segnatura (1512 circa) nei Palazzi Vaticani, e lo Studio per l’Apocalisse, da un originale perduto di Raffaello per il primo progetto della parete sud nello stesso ambiente (databile al 1511 circa, soggetto poi sostituito in corso d’opera dalla Giustizia). Analogamente, nella stanza di Eliodoro gli spetterebbero parti minori dell’affresco con l’Incontro di Attila e Leone Magno (1513-14) e alcune cariatidi del basamento da un disegno preparatorio a matita rossa del Sanzio oggi al Louvre (Shearman, 1983). Per spiegare queste attribuzioni, e in mancanza di sicuri elementi di confronto, gli studiosi sono soliti individuare nella diligente e delicata imitazione di Raffaello, nella precisa trama di spazi limitati a pochi piani, nelle figurette agili e aggraziate, ma generalmente prive di espressività, i caratteri peculiari dello stile, senza troppe evoluzioni, di Penni.
Tra i dipinti su tavola, al Fattore si riconosce piuttosto concordemente la Natività di Cava dei Tirreni, insieme al suo disegno preparatorio ad acquerello e rialzi di biacca (Oxford, Ashmolean Museum, Western art drawings Collection). Qui il pittore rievoca le numerose varianti raffaellesche del tema sacro e le risolve entro una trama pittorica più semplificata, non priva talvolta di qualche incongruenza, così come accade nella Madonna del libro (1512 circa; Padovani, 2007), nella Madonna del diadema (1512-13, Parigi, Louvre), nel S. Giovanni Battista nel deserto (1516 circa, coll. priv.) e nella Sacra Famiglia Bankes (1516-17, Dorset, Kingston Lacy), mentre frutto di collaborazione con il maestro, o con Giulio Romano, sono considerate la Madonna del Divino Amore (1516 circa, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), l’Andata al Calvario (1515-16 circa, Madrid, Museo nacional del Prado), la Visitazione (1516-17 circa, Madrid, Museo nacional del Prado), la dibattutissima Flagellazione della basilica di S. Prassede a Roma, la Carità (1516 circa, coll. priv.; ma 1510-11 secondo Love, 2013) e altre composizioni degli stessi anni.
Riguardo alla questione dei modelli preparatori, condotti in prima persona da Penni anche con qualche apporto autonomo nella ‘messa in pulito’ delle prime indicazioni del Sanzio, sono stati discussi sia il modello per la S. Cecilia (1514 circa, inciso da Marcantonio Raimondi, Parigi, Petit Palais, Musée des beaux-arts de la Ville de Paris, Arts graphiques), sia i due più tardi fogli per l’imponente S. Michele ordinato da Leone X nel 1518 (Oslo, Nasjonalgalleriet; Parigi, Louvre, Département des arts graphiques).
Entrambi a penna e inchiostro con rialzi di biacca – tecnica tra le preferite dal Fattore – i due studi rappresentano momenti diversi di sviluppo delle idee raffaellesche e, sebbene esplicitino una maggiore consapevolezza nella resa formale, non giungono a rendere appieno il dinamismo e la potenza espressiva del dipinto, in cui il maestro interviene direttamente.
Sulla metà del secondo decennio, al tempo della stanza dell’Incendio di Borgo (1514-17), Penni e Giulio Romano acquisirono maggiore rilievo, tanto nelle deleghe esecutive (Battaglia di Ostia, Giuramento di Leone III), che nell’autonomia accordata loro dal Sanzio nel corso delle ultime fasi progettuali. È il caso del modello per la parte sinistra del Giuramento (Firenze, Museo Horne, Disegni e stampe, attribuito al Fattore da Pouncey - Gere, 1962), di quello per l’Incoronazione di Carlo Magno (Venezia, Museo della Fondazione Querini Stampalia) – nel quale, alla sottostante traccia a matita nera, di mano di Raffaello, si sovrappone la rifinitura di Penni ad acquerello, inchiostro e biacca –, e di studi di figura per la stessa composizione suddivisi tra Chatsworth e Düsseldorf (Shearman, 1965). Nella sala dei Palafrenieri (1516 circa) Penni mise verosimilmente a punto, insieme a Giulio Pippi, il gruppo di ‘secondi modelli’, ovvero i disegni più rifiniti, per la serie degli Evangelisti tra i quali gli spettano, a parere di alcuni specialisti, S. Luca (Londra, British Museum, Department of prints and drawings), S. Giovanni e S. Matteo (Parigi, Louvre, Département des arts graphiques). Assai controversa appare anche la sua partecipazione ai cartoni per gli arazzi della cappella Sistina (1515-16) che Vasari dice assai ampia, soprattutto nel ricco apparato decorativo a grottesche che orla le scene bibliche. Riguardo a queste ultime, la proposta di restituire a Penni il modello per il Miracolo della pesca (Windsor Castle, Royal Library) avanzata da Arthur Ewart Popham e Johannes Wilde (Italian drawings at Windsor Castle, London 1949, p. 315) viene generalmente accettata dalla critica odierna; John Shearman ha poi aggiunto un disegno per la Predica di s. Paolo (Parigi, Louvre) e ha individuato la possibile presenza del pittore nella parte destra del cartone per la Guarigione di Elima (Shearman, 1972).
Come si è detto, la decorazione delle Logge (1516-19 circa) viene rubricata da Vasari tra le principali imprese di Penni. Ma l’aretino, nel segnalare con dovizia di particolari quanto eseguito da altri discepoli di Raffaello come Giulio, Perino, Giovanni da Udine, rimane più vago su Giovan Francesco non disponendo forse di notizie più precise. Tra le scene ascritte dagli studiosi a Penni, per affinità con la più tarda Incoronazione di Monteluce, si contano: la Separazione della terra dalle acque, la Creazione delle piante, la Costruzione dell’Arca, Abramo e gli Angeli (Dacos, 1977; Ead., 2008).
La grazia gentile delle figurette, disposte su primi piani a mo’ di fregio, i fluidi movimenti delle membra sottili, prive di peso e avvolte in panneggi stirati dal vento sullo sfondo di luminosi brani di paese, dovevano soddisfare l’intento raffaellesco di estrarre dalle pitture antiche, in particolare dalla Domus Aurea recentemente scoperta, non solo spunti compositivi, ma anche la tecnica veloce e sintetica, ‘compendiaria’, sì da raggiungere quei vivacissimi effetti di ariosità tutt’oggi percepibili nonostante i danni subiti nel tempo e i restauri antiquariali settecenteschi e ottocenteschi.
Anche molti dei modelli preparatori a oggi noti, perlopiù realizzati a penna, acquerello e biacca, talvolta su sottostanti tracce a matita, sono stati in passato assegnati a Penni (Dollmayr, 1895; Fischel, 1898; Pouncey - Gere, 1962); tuttavia il revisionismo di una parte della critica negli ultimi trent’anni ha indotto a restituire molti di questi fogli allo stesso Raffaello, contraendo notevolmente l’entità delle spettanze di Penni (Gere, 1987; Gnann - Oberhuber, 1999; su differenti posizioni Joannides, 2000; Joannides - Henry, 2012). Problemi analoghi riguardano anche le Storie di Amore e Psiche nella villa di Agostino Chigi (1516 circa-1519), dove l’intervento del Fattore in alcuni pennacchi e parti minori delle due scene della volta si ritiene oggi decisamente secondario rispetto a quello di Giulio Romano (Frommel, 2014). I fogli preparatori, per lo più a matita rossa, sono variamente disputati tra il discepolo, Giulio Romano e lo stesso Raffaello (Shearman, 1964; Oberhuber, 1972; Gnann - Oberhuber 1999; Joannides, 1983; Joannides - Henry, 2012).
Sono invece perduti i chiaroscuri della facciata di un palazzo a Montegiordano e il «San Cristoforo d’otto braccia, che è bonissima figura», in S. Maria dell’Anima, dove l’inserto di fondo, con l’eremita chiuso nell’antro a lume di lanterna, doveva dare ragione dell’abilità di Giovan Francesco nel ritrarre paesaggi (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 332). Rimangono invece alcune testimonianze grafiche degli affreschi nella loggia della ‘Vigna del papa’, Villa Madama alle pendici di Monte Mario, ordinata da Leone X a Raffaello intorno al 1516, ma portata a compimento da Giulio Romano e Giovanni da Udine solo nei primi anni Venti. Penni è qui titolare dei modelli per le scene con Dedalo che costruisce la mucca per Pasifae (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, GDSU), per la Festa di Venere (New York, Museum of art, Schindler Collection), per Achille tra le figlie di Licomede (GDSU) e per due ovali con Giochi di putti (Parigi, Louvre, Gnann - Oberhuber, 1999), esemplati tecnicamente sui modelli per le Logge e arricchiti dai sottili effetti di luce della biacca. Questi e altri fogli, come la Circoncisione di Chathsworth House (Gnann - Oberhuber, 1999), indicano il costante sforzo d’imitazione dell’euritmia e della grazia del maestro compiuto dal pittore nell’attingere al suo vasto repertorio di invenzioni, modulate in nuovi contesti senza mai riuscire autonomamente originale. In questo momento emergono significative tangenze di stile con Perino, a lui peraltro legato da un rapporto di parentela per aver sposato la sorella Caterina.
Alla morte dell’Urbinate, Giovan Francesco e Giulio ereditarono la bottega e la più importante delle commissioni papali, la sala di Costantino, allogata da Leone X a Raffaello nella primavera del 1519 e da lui impostata e principiata in una delle facciate, lavorata «di mistura per dipingervi sopra a olio», come precisa Vasari nella vita di Giulio Romano (Vasari, 1568, V, 1984, p. 59). Le testimonianze di Tommaso Vincidor, che nel luglio del 1521 scriveva al papa di stare approntando i cartoni degli arazzi con Giochi di putti per la «salla quali dipinge […] Zulio (et) lo Ian Franciecho» (Ferrari, 1992, p. 20), di Castiglione che nel dicembre dello stesso anno, rispondendo a Federico II Gonzaga, segnalava: «questa bella sala del papa è fatta più della metà» (ibid., p. 22), e infine le lettere di Sebastiano del Piombo invano impegnato a subentrare nella commissione, riflettono la sostanziale continuità dei lavori, interrotti alla morte di Leone X, ripresi nel 1523 dopo l’elezione di Clemente VII e saldati nel luglio del 1525 (Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, II, Firenze 1967, pp. 239 s.). Riguardo al ruolo di Penni, John Shearman (1965 e 1983) analizzando il foglio parigino con la Battaglia di Ponte Milvio (la prima scena messa in opera) ne ha posta in luce l’appartenenza a un montaggio di sei disegni – di cui oggi sopravvivono la Visione di Costantino (Chathsworth House) e il Papa con Virtù e Cariatidi (Parigi, Louvre) – corrispondente al modello definitivo ‘messo in pulito’ da Giovan Francesco sotto lo stretto controllo dell’Urbinate. Un’ipotesi, questa, non sempre accettata dalla critica (Gnann - Oberhuber, 1999, pp. 216 s.), che concorda invece sull’attribuzione al Fattore dello studio per una Cariatide oggi ad Amsterdam (Oberhuber, 1983, p. 138). L’esecuzione della sala di Costantino segna, a ogni modo, la definitiva leadership di Giulio Romano nel sovrintendere alla maggior parte delle scene dipinte, tra le quali solo il Battesimo di Costantino e il Papa Damaso rivendicano l’autonomo intervento di Penni. Il maggiore peso di Giulio traspare del resto anche nelle lettere di Castiglione, che ai due sodali si affidava per la compravendita di statue antiche e dipinti, facendo da tramite per il loro ingaggio presso la corte di Mantova, dove poi sarebbe approdato il solo Pippi nel 1524 (Ferrari, 1992). Nel 1522 circa Giovan Francesco rientrò brevemente a Firenze e affrescò un tabernacolo presso la villa di Ludovico Capponi a Montughi, assai lodato da Vasari (oggi villa Cisterna; Nesi, 2007). Si tratta della Madonna col Bambino – ispirata nella composizione alla celebre e assai replicata Madonna di Porta Pinti di Andrea del Sarto –, che, nelle parti meglio conservate, riflette il ductus delle prove coeve, dagli affreschi della sala di Costantino all’Incoronazione di Monteluce. Quest’ultima costituisce un importante punto di riferimento nel percorso del pittore durante il primo lustro degli anni Venti. Allogata a Raffaello fin dal 1503, l’opera fu consegnata dopo alterne vicende solo nel 1525 (Gnoli, 1917; Sartore, 2011). Tra i fogli che vengono ricondotti alle varie fasi di preparazione della pala vi è quello del Louvre, tratto da un originale del Sanzio per la parte superiore della tavola e attribuito a Penni insieme a un foglio per un Gruppo di apostoli (Berlino, Kupferstichkabinett; Oberhuber, 1983, p. 135 e n. 617). Anche la tavola definitiva è del resto assai problematica, poiché costituita da due pannelli strutturalmente non coerenti tra loro: ciò ha fatto ritenere che fossero il risultato di un assemblaggio di due dipinti nati per scopi diversi (Shearman, nel 1961, avanzò l’ipotesi che la parte inferiore fosse il residuo della pala di capo altare della cappella Chigi in S. Maria del Popolo). A Giulio spetta l’Incoronazione della Vergine, mentre il gruppo di apostoli raccolti in basso intorno al sacello, in pose enfatiche ma fredde, insieme con la qualità lucida, smaltata della pittura, i volti di porcellana e i panneggi corposi e ingolfati rivelano certamente la mano di Penni (Raffaello in Vaticano, 1984, pp. 286-296).
Ai primi anni Venti risale anche il ciclo di Storie della Maddalena a Trinità dei Monti, come attestato da Vasari nella vita di Perin del Vaga (Vasari, 1568, V, 1984, p. 148). Della decorazione rimangono oggi un frammento ad affresco con la Maddalena trasportata dagli angeli e il Noli me tangere sull’altare maggiore, assai vicini per stile alla parte inferiore dell’Incoronazione di Monteluce. Due versioni successive della pala, sempre di Penni e bottega, sono oggi al Prado e a Capodimonte (Vannugli, 2005); a Penni è assegnato, tra gli altri, anche un disegno per un monumento sepolcrale, possibilmente realizzato negli stessi anni e conservato al Metropolitan Museum: Wolk Simon, 2011).
La partenza di Giulio per Mantova nel 1524, la difficile situazione conseguente al Sacco (1527), il progressivo affermarsi di Perino del Vaga e di Polidoro, assottigliarono sempre più lo spazio d’azione del Fattore nella scena romana. Fallito il tentativo di ricostruire il sodalizio con l’antico compagno a Mantova, dove risulta documentato nel giugno del 1528 (Ferrari, 1992, p. 281; per l’ipotesi di attribuzione a Penni dell’affresco con Psiche trionfante nel palazzo Te si veda da ultimo Nesi 2007, pp. 425, 428 note 35 e 38, con bibl. precedente), l’artista cercò fortuna prima in Lombardia e poi a Napoli, al seguito di Alfonso d’Avalos marchese del Vasto e del banchiere fiorentino Tommaso Cambi. Qui portò con sé anche la copia della Trasfigurazione raffaellesca per Giulio de’ Medici, impostata a Roma prima della partenza di Giulio (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 333). Più debole e meccanica, priva della straordinaria varietà espressiva dell’originale, cui pure i due allievi dovevano aver messo mano accanto al maestro (Oberhuber, 1982), la seconda versione, oggi al Museo del Prado, ma originariamente nella chiesa degli Incurabili a Napoli, è stata ultimamente considerata frutto di ampi interventi della bottega (Joannides - Henry, 2012). Giovan Francesco rimase fedele alla più stretta ortodossia raffaellesca nei tre fogli con Scene di storia dell’Albertina di Vienna, (metà degli anni Venti; Gnann - Obehuber, 1999), dove replicò con il tipico tratto leggero e gusto per l’antico gli schemi spaziali e compositivi delle Stanze e delle Logge.
Morì nel 1528 o poco dopo a Napoli, dove rimase il suo creato Leonardo da Pistoia.
Dei due fratelli, pure pittori, Luca, compagno di Perino a Genova, trovò fortuna in Francia alla corte di Fontainebleau, mentre Bartolomeo fu attivo alla corte di Enrico VIII nel quarto decennio del Cinquecento (D. Cordellier, Luca Penni: un disciple de Raphaël à Fontainebleau, Parigi 2012).
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