PENJIKENT (sogdiano pncyknδ)
È la più orientale città della Sogdiana (ν.) dei secoli V-VIII d.C., posta al limite meridionale della omonima città contemporanea (Taǰikistan). P. è ricordata nei documenti rinvenuti nel castello sul monte Mug (v. sogdiana, arte) e nella cronaca araba di aṭ-Ṭabarī. Iniziate nel 1946 da A. J. Jakubovskij, le ricerche sistematiche passarono sotto la direzione di A. M. Belenickij nel 1954; dal 1973 a tutt'oggi conducono gli scavi Β. I. Maršak e V. I. Raspopova.
L'antico sito urbano è composto da una vasta cittadella con tre cinte difensive, dalla città propriamente detta (šahrestān) circondata da un muro di fortificazione, da un sobborgo agricolo e dalla necropoli. La città fu fondata nel V sec. d.C., anche se nell'area della cittadella le prime tracce d'insediamento risalgono ai primi secoli della nostra era. L'area dello šahrestān del V sec. è di c.a 8 ha. Nel VI sec. l'area limitrofa a E e a S di questo venne circondata da un nuovo muro. Quello interno fu ricostruito diverse volte, fino a che non venne demolito all'inizio dell'VIII secolo. L'area complessiva dello šahrestān del VI-VIII sec. è di 13,5 ha. P. raggiunse la massima fioritura nel primo quarto dell'VIII sec., quando il sovrano del principato, Devaštič, si proclamava «re della Sogdiana, signore di Samarcanda». A giudicare dalle testimonianze numismatiche, il principato era stato già fondato nel secolo precedente. Al tempo di Devaštič esso, come anche altre parti della Sogdiana, alternava momenti di sottomissione ai conquistatori arabi a momenti di insurrezione contro di essi. Dopo la rivolta del 722, in cui Devaštič venne catturato e giustiziato, gli abitanti abbandonarono Penǰikent. Attorno al 740, stipulando un trattato di pace con gli Arabi, i Sogdiani ritornarono e ricostruirono molte abitazioni, ma nella cittadella al posto del palazzo di Devaštič fu eretta una caserma, verisímilmente per la guarnigione araba. In conseguenza della conquista araba, dalla metà dell'VIII sec. iniziò l'islamizzazione della popolazione locale. Alla fine degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 dell'VIII sec., P. fu abbandonata dagli abitanti che si insediarono altrove.
P. fornisce la rappresentazione più completa dell'arte sogdiana pre-islamica. La parte più numerosa della popolazione professava la religione zoroastriana, ma con tradizioni pre-mazdaiche più forti che in Iran, accanto a minoranze di cristiani e buddhisti; la produzione artistica, tuttavia, è legata alla religione locale. Nel centro dello šahrestān, a partire dal V sec., si trovava un'area sacra rettangolare con due templi simili tra loro per impianto, e che nonostante i numerosi restauri subiti conservano immutate le caratteristiche principali. Ciascuno dei templi era fornito di due cortili, a E e a O. Il cortile E dava sulla strada, mentre in quello O era l'edificio principale con facciata a E, su una piattaforma. Nei cortili si trovavano vasche per acqua e alberi. L'elemento fondamentale della composizione planimetrica è il percorso da E a O, che passa per entrambi i cortili dai portici colonnati assai simili, verso la stretta rampa per la salita alla piattaforma dell'edificio principale, provvisto anch'esso di portico, il terzo nel complesso. Vi si apriva una sala con quattro colonne, priva della parete orientale. In asse con il centro della sala si trovava l'accesso alla cella rettangolare. Una galleria circondava per tre lati la sala e la cella.
I templi, come tutte le altre costruzioni di P., sono costruiti in argilla battuta e mattoni crudi; i pilastri e le coperture erano in legno, e le colonne delle sale principali poggiavano su basi in pietra. I diversi particolari dell'architettura trovano confronti dalle sponde del Mediterraneo all'India settentrionale (i templi nabatei della Siria, quelli iranici di Susa e Persepoli, quelli battriani nei siti di Takht-e Sangin e Ai Khānum, il tempio kuṣāṇa a Surkh Kotal, ecc.). I templi di P. erano consacrati al culto degli dei. Nel tempio I (meridionale) verso la fine del V-inizì del VI sec. fu riservata un'estensione speciale per il fuoco sacro. Nei templi è attestata una venerazione dell'elemento acquatico: rilievi del V-VI sec. di argilla cruda raffigurano due tritoni (tempio I) e un tritone con altre creature acquatiche, reali e fantastiche (tempio II).
Le pitture del V-VI sec. negli edifici principali e nelle cappelle dei cortili occidentali sono rituali e mitologiche, ma quelle mitologiche sono limitate agli edifici principali. La scena più famosa è quella del compianto funebre, anche se non è chiaro quale mito essa illustri. Le sculture cultuali principali non si sono conservate, cosicché lo sviluppo dell'iconografia religiosa è noto in prevalenza dalle pitture che imitano le nicchie dei templi con sculture, che si trovano nelle cappelle aggiunte ai templi nel VI-VII sec. e nelle abitazioni del VII-VIII secolo. L'illustrazione del pantheon è completata da diverse piccole immagini di terracotta del VI sec., copie in miniatura delle statue di culto, e dalle raffigurazioni di divinità nelle pitture del VII sec. nel cortile orientale dell'area templare. La statuetta portatile di alabastro di una dea seduta, rinvenuta nella cappella NO del tempio II, similmente ai tritoni del tempio I, mostra la rielaborazione locale della tradizione ellenistica. Questa scultura proviene da uno strato dell'VIII sec., ma il suo stile è più arcaico di quello di ogni altro ritrovamento fatto a P.: essa è molto più antica della fine del V sec., quando alla tradizione classica si unì quella sasanide, penetrata in Sogdiana attraverso il Tokhārestān kušano-sasanide. Entrambe le tradizioni sono evidenti nelle pitture del 1° periodo nella cappella Ν del tempio II. In seguito compare un terzo elemento, quello indiano, post- kuṣāṇa, di cui un esempio caratteristico è rappresentato dalla dea a quattro braccia su drago, del VI sec. (2° periodo) nella stessa cappella. L'influenza indiana data dal VI sec., quando la Sogdiana era dominata dagli Eftaliti, che avevano conquistato anche una parte dell'India. Più tardi l'iconografia subì leggere modifiche. È stato possibile identificare alcune delle raffigurazioni di divinità: Vešparkar triprosopo, assimilato a Śiva-Mahādeva; Nanā a quattro braccia, seduta sul leone; Vašagn (Verethragna), il cui simbolo era il cinghiale.
Nello šahrestān sono stati portati alla luce i quartieri residenziali, con centinaia di case a due piani con numerose stanze, bazar, botteghe e laboratori artigianali lungo le vie. Una parte delle case risale al V, VI e VII sec., ma di gran lunga meglio note sono le costruzioni dell'VIII secolo. In quest'epoca le vie, con le case strettamente accostate l'una all'altra, ricordano dei corridoi. Gli ambienti al primo piano, coperti a volta, avevano piccole finestre proprio al di sotto della volta, mentre le ampie sale di rappresentanza delle abitazioni più sontuose, spesso con quattro colonne al centro, erano illuminate dall'alto. Le pitture nelle abitazioni sono attestate a partire dal VI sec., ma la maggior parte di esse risale alla prima metà dell'VIII secolo. L'aristocrazia a P. era numerosa, e i più ricchi proprietari terrieri o mercanti vivevano in case che per dimensioni e per sontuosità di arredo erano di poco inferiori al palazzo di Devaštič. L'aristocrazia capeggiava la comunità urbana, e in un documento dal castello sul monte Mug è ricordato il «popolo di Penǰikent», che godeva di entrate proprie.
Nel primo quarto dell'VIII sec. quasi una casa su tre aveva una sala per ricevimenti, decorata con pitture e legni intagliati. Nella sala, di fronte all'ingresso, si trovava in genere una grande immagine divina dipinta (o una scena sacra più complessa), con figure in costume locale rappresentate in scala minore davanti al fuoco sacrificale. Ogni proprietario aveva uno o più protettori divini. Anche altre divinità erano a volte raffigurate, ma sulle zone secondarie delle pareti. Ai lati della scena di culto si dipartivano fregi di dimensioni leggermente inferiori, raffiguranti scene di banchetto, di caccia, di cerimonie festive, ecc. Non di rado compaiono qui illustrazioni dell'epos. La zona inferiore della parete era bordata da una fascia ornamentale, che a volte veniva sostituita da un bordo di raffigurazioni di piccole dimensioni (corse di animali o una serie di piccoli pannelli rettangolari con le'illustrazioni di racconti, parabole, aneddoti, ecc.). Il programma figurativo era completato da statue e rilievi con figure di dei, scene di caccia e altri soggetti, intagliati nel legno, che decoravano il complesso soffitto ligneo. Nelle pitture del palazzo si incontrano soggetti presi dalla storia reale, quali l'incoronazione o l'assedio della città, in cui si riconoscono, per il loro caratteristico abbigliamento, gli Arabi. Le pitture delle abitazioni forniscono una rappresentazione migliore dei banchetti festivi, delle gare di lotta, delle danze, dei bagni rituali, ecc. Collegata alla festa del raccolto, in una delle case è raffigurata la scena del trasporto del grano dall'aia, con lo spirito protettore dell'agricoltura.
Nella pittura è caratteristico il verismo nella resa delle architetture, delle armi, delle vesti, del vasellame, ecc. Le raffigurazioni di divinità nelle case riflettono l'influenza dell'iconografia hindu, giunta in Sogdiana insieme con il buddhismo. Il Buddha compare però solo su una pittura secondaria, in cui peraltro alcune grossolane incoerenze iconografiche indicano che l'artista non era buddhista. Le pitture di P. che illustrano opere letterarie permettono di conoscere parte del repertorio tematico della letteratura sogdiana, sia quella tradotta che quella originale. Bisogna menzionare le illustrazioni al racconto di Rostam e al Mahābhārata, ma sono illustrati anche alcuni episodi più antichi di epopee originali non note. In una delle sale le immagini sono accompagnate da un brano del testo. Nelle pitture del registro inferiore troviamo racconti (l'uomo che promise la figlia in moglie a uno spirito marino, l'eroe aiutato dalle fiere, il giudice saggio, l'astuzia femminile, ecc.), favole (il cane che ringhiò all'elefante, il maniscalco e la scimmia), favole di Esopo (l'oca delle uova d'oro, il padre e i figli), e parabole dal Pañcatantra (lo sciacallo, il leone e il toro, la lepre e il leone, i sapienti che resuscitarono la tigre, la previdenza dal re delle scimmie).
Lo stile della pittura nell'arco di tempo che va dal V all'VIII sec. vide cambiamenti significativi. Le scene più antiche con la divinità e i donatori stanti sono di composizione semplice; le figure hanno la testa grande, con mani espressive e allungate. I contorni sono marcati e privi di grazia ricercata, i volumi studiati minuziosamente con l'aiuto dei diversi toni di colore, di tratti e punti chiari e vivi, di ritocchi di linee nere. Il colore prevalente è un ocra spento. Nel VI sec. il colore diviene più ricco e contrastato, la composizione più complessa e variata. Un aspetto ancora più originale è costituito dallo stile eroico di illustrazione dell'epica, sviluppatosi tra il VII e l'VIII secolo. Nelle composizioni dei fregi è riprodotto lo stesso ritmo della narrazione epica, con i suoi momenti di intenzionale rallentamento e di dinamica intensa nel combattimento. La forza dei combattenti è contrapposta all'immobilità dei caduti. Gli accostamenti favoriti sono quelli contrastati dei rossi e degli ocra con il fondo blu lapislazzuli ed è contrastata anche la struttura delle figure di guerrieri, con le spalle vigorose e la vita sottile, con il collo possente e la piccola testa orgogliosa, con le braccia molto lunghe che terminano nelle mani leggere e affusolate con dita sottili e agili. I principali mezzi espressivi dell'artista sono costituiti dai colori locali e dalle linee sinuose tracciate con virtuosismo. Nello stile di P. si possono riconoscere elementi iranici e indiani: nel complesso, però, si tratta di una produzione profondamente originale, il cui dinamismo riflette i gusti degli attivi cittadini della città-stato, un fenomeno raro in tutta la regione del Medio Oriente.
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(B. I. Maršak)