PENATI (dal lat. penus "commestibili di riserva", poi "ripostiglio delle provviste")
I Penati sono gli spiriti tutelari dei viveri di riserva della famiglia (perciò Dion. Alic., I, 67, li traduce con κτήσιοι "protettori della ricchezza"), poi di quel punto o ambiente della casa dove sono conservate le provviste (Gell., IV, 1, 17). Penati è un nome aggettivale in as, di quelli che servono ad indicare l'appartenenza (come primates da primas); esso suppone il sostantivo di "dei", ed esprime una collettività di spiriti protettori (cfr. di agrestes, di indigetes), il che si spiega con la molteplicità delle derrate custodite nel penus.
I Penati nella vita domestica. - Finché la vita romana si svolse nella capanna o nell'umile abitazione, i Penati furono venerati insieme con Vesta e con i Lari; e anche quando l'architettura civile si sviluppò, l'atrio (compluvium) restò sempre collegato ai Penati, perfino nella casa di Augusto ("compluvium deorum Penatium" Suet., Aug., 89), come ad essi rimase sempre in modo particolare dedicata la cucina ("singula enim domus sacrata sunt dis, ut culina Penatibus", Serv., Ad Aen., II, 469).
A mano a mano che la vita cittadina prevalse con il parallelo sviluppo delle relative ideazioni religiose, furono considerate Penati tutte quelle divinità che proteggono in modo particolare la famiglia e i cui simulacri si conservano nella casa ("Penates... omnes di qui domi coluntur", Serv., Ad Aen., II, 469). Come dei Penati si devono dunque considerare le statuette bronzee di Giove, Ercole Fortuna, Genio, trovate nel larario della casa di Lucrezio a Pompei e anche gli eventuali numi protettori della professione del padrone di casa: Mercurio per un mercante, Vulcano per un fabbro, la Venus Pompeiana per un abitante di Pompei, e così via.
Il culto che si presta ai Penati è simile a quello prestato ai Lari. Ad ogni pasto viene loro fatta un'offerta di sale, l'elemento che purifica e conserva, e di farro, il primo cereale che i Romani abbiano coltivato ("farre pio et saliente mica", Orazio, Carm., III, 23, 19). La stretta associazione dei Penati con Vesta e con i Lari ha reso promiscuo l'uso dei concetti e dei nomi e ha impedito che i Penati avessero una propria figurazione indigena. I lararî pompeiani, infatti, mentre mostrano dipinti nel fondo Vesta o il Genio e i Lari nella figurazione tradizionale, non hanno rappresentazioni specifiche per i Penati, i quali s'identificano con le divinità protettrici.
I Penati non sono necessariamente concepiti come maschili. Alcune iscrizioni infatti sono dedicate "deis deabus Penatibus familiaribus" (Corp. Inscr. Lat., V, 514); "Iovi O. M. dis deabusque hospitalibus Penatibusque" (Corp. Inscr. Lat., VII, 237).
Il culto dei Penati fu tenacissimo nella religione privata dei Romani perché in esso si concretava la vita intima della famiglia e si riepilogava la tradizione della medesima; perciò esso è durato immutato, fino alla fine del paganesimo ed è stato nominativamente proscritto dall'editto di Teodosio: "Niuno in segreto veneri il Lare col fuoco, il Genio col vino, i Penati con le fumigazioni, né accenda lumi, bruci incensi, sospenda serti di fiori".
I Penati pubblici del popolo romano. - Ad immagine dei Penati privati, con lo sviluppo della vita politica di Roma si costituirono i Penati che tutelassero la vita dello stato, come il tempio di Vesta era la sintesi di tutti i focolari privati. E come Vesta e Penati erano associati nel focolare privato, così i Penati pubblici furono venerati nel tempio di Vesta, il quale aveva un penus, dove erano conservate le offerte libatorie, che una volta all'anno nell'apposita festa veniva solennemente purificato e rinnovato e dove a nessuno, salvo al pontefice massimo e alle vestali, era lecito porre il piede.
In seguito i Penati pubblici ebbero sulla Velia un tempio proprio di cui non è rimasta traccia, ma che doveva trovarsi sull'area dell'attuale chiesa di S. Maria Nuova. Esso conteneva le immagini di due divinità giovanili, a somiglianza dei Dioscuri, sedute, vestite alla militare e armate di lancia (Dion. Alic., I, 68): figurazione richiamata anche dalla moneta di Antio Restione che ha due teste giovanili con sotto la scritta "dei Penates" (49-25 a. C.). Questo tempio nel 167 a. C. fu colpito dal fulmine (Liv., XLV, 16) e nel 165 le sue porte si aprirono da sole, di notte (Obseq., 13); Augusto lo restaurò ("aedem deum Penatium in Velia feci", Mon. Ancyr., 4, 7).
Come nel culto privato ai Penati della casa si erano associate tutte le divinità che a qualunque titolo proteggevano la famiglia, così ai Penati pubblici vennero associate le divinità protettrici di Roma, dalla triade capitolina a Vesta: alle quali appunto si rivolgeva Cicerone nella Pro Sulla, 86: "Vos di patrii ac Penates qui huic urbi atque huic reipublicae praesidetis".
Il culto dei Penati e la leggenda di Enea. - Concezione latina e non esclusivamente romana, i Penati si ritrovano insieme con il culto di Vesta anche nel Lazio a Lavinio, Alba, Preneste. La connessione, operata da storici e da teologi, tra la leggenda di Enea e le origini della gente romana ha collegato anche la storia dei Penati di queste città, che da Troia a Lavinio ad Alba a Roma rappresentano la continuità della stirpe di Enea e la continuazione in Roma del fato di Ilio. Enea infatti avrebbe preso con sé i Penati di Troia per consiglio di Ettore; i Penati gli sarebbero apparsi in sogno ammonendolo sulla rotta da tenere verso i lidi d'Italia (Aen., III, 148); Enea li invita al sacrificio secondo il rito domestico dei Romani (Aen., V, 62) e quando è in vista dell'Italia li ringrazia e li invoca solennemente: "O fidi Troiae salvete Penates" (Aen., VII, 121) e stabilisce il loro culto a Lavinio ("oppidum quod primum conditum in Latio stirpis Romanae, Lavinium; nam ibi di Penates nostri" (Varr., De lingua lat., V, 144).
Effettivamente v'era in Lavinio un famoso santuario dei Penati dove si recavano ufficialmente all'entrare in carica gli alti magistrati dello stato. L'importanza dei Penati di Lavinio oscurò quella dei Penati di Alba che pure era la città madre della confederazione latina e quella dalla quale, dopo la distruzione, i Penati sarebbero stati trasportati in Roma. E la leggenda troiana, a coonestare l'importanza dei Penati lavinati, diceva che quando Ascanio fondata Alba Longa, vi trasferì da Lavinio i Penati, questi per ben due volte abbandonarono la nuova sede e ritornarono nottetempo a Lavinio (Dion. Alic., I, 67).
La provenienza frigia dei Romani, affermata dalla leggenda, è stata assai probabilmente la causa che ha collegato con i Penati di Troia in cammino verso Roma i Cabiri di Samotracia detti per antonomasia i μεγάλοι ϑεοί, i magni di, e anche δυνατοί, potentes, e χρηστοί, valentes, il cui culto ebbe diffusione in Roma all'alba dell'impero. La relazione fra i due gruppi di divinità è confermata da una notizia di Tertulliano (De spect., 8) il quale afferma che nel mezzo del circo massimo v'erano tre colonne con immagini di Sessia (dea della semente), Messia (dea delle messi) e Tutilina (dea che tutela le frutta); e che avanti a queste immagini v'erano tre are dedicate rispettivamente magnis, potentibus, valentibus, epiteti, appunto, dei Cabiri di Samotracia, i quali così si trovano associati a divinità indigitatorie, che hanno relazione con le provviste del penus.
La teologia astrale della fine del paganesimo con la sua nota preoccupazione di sistemare in visione unitaria le diverse zone del cosmo, dal macrocosmo al microcosmo, finì col definire i Penati come quelli "per quos penitos spiramus, per quos habemus corpus, per quos rationem animi possidemus" (Macr., Sat., III, 4) e dei tre numi della triade capitolina, considerati come Penati, Minerva, Giove, Giunone, fece rispettivamente l'etere sommo, medio e infimo.
Quanto ai Penati etruschi di cui parlano Nigidio Figulo e Varrone, si tratta piuttosto d'un nome latino applicato alle gerarchie divine, di cui la disciplina etrusca si compiaceva (Arn., III, 40).
Bibl.: R. H. Klausen, Aeneas und die Penaten, Amburgo 1833; J. Rubino, Beiträge zur Vorgeschichte Italiens, Lipsia 1868; A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, voll. 2, Milano 1896; G. Wissowa, Die Überlieferung über die römischen Penaten, in Hermes, XXII (1887).