pena
Con riferimento alla giustizia umana, sanzione afflittiva comminata dall’autorità giudiziaria nel rispetto di precise disposizioni processuali a chi abbia commesso un reato.
Sin dagli inizi della civiltà occidentale, quello della p. è istituto concernente, prima ancora degli assetti normativi, gli strati più profondi della coscienza individuale e collettiva. Ne è testimonianza la sua presenza nell’ambito delle concezioni animistiche prima e religiose poi, nonché l’ampiezza dei riferimenti a essa relativi nell’ambito della tradizione filosofica e letteraria propria del mondo classico, che ne rende appieno il rilievo antropologico e il rapporto con una serie di altri significanti, quali responsabilità, espiazione, libertà. La stessa nozione di nesso causale tra eventi, apparentemente così radicata nel nostro comune sentire, è riconducibile al bisogno di ricercare, con finalità espiatoria, cause non tanto provocanti empiricamente eventi, quanto ritenute moralmente responsabili del loro stesso accadere. Rientrano in quest’intreccio tra cosmologia, psicologia collettiva e sfera normativa, anzitutto, le rappresentazioni tragiche dell’antica Grecia: Eschilo, Sofocle ed Euripide, seppur con sfumature diverse, mettono in scena quel rapporto, non lineare e mai pacificato, che la p. intrattiene con la dialettica tra violazione della norma e giustizia riparatrice, intesa nelle sue possibili declinazioni, e quindi tra ὔβρις, ϑέμις e δίκη. Né si può dire diversamente nella sfera religiosa: nonostante la teologia cristiana abbia espresso posizioni estremamente rigorose relativamente all’esercizio della p., ciò è avvenuto in contrasto con il comandamento evangelico di rendere il bene con il male e di astenersi dal giudizio. Nell’ambito della dialettica tra Antico e Nuovo Testamento, il cristianesimo ha avuto quale motivo ispiratore quello dell’umanizzazione della p. attraverso la ricerca, che è nell’ordine dello spirito vivente, del perdono, nonché della grazia, perseguendo il fine del superamento della rigidità veterotestamentaria, la cui severità era tale, da renderla difficilmente distinguibile dalla vendetta. D’altro lato, contributo essenziale nella definizione della p. traspare dalla riflessione filosofica classica, a partire da Parmenide, che riferisce della «Giustizia, che molto punisce», per passare alle posizioni relativiste e scettiche dei sofisti e poi a Platone (Protagora 324 a, b), che fa sua la teoria del valore preventivo della p., in un passo cui farà poi riferimento, in ambito stoico, Seneca, che nel De ira fissa l’architettura concettuale della futura differenza tra teorie retributive e teorie preventive: «nam, ut Plato ait, nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne peccetur; revocari enim praeterita non possunt, futura prohibentur» (I, 19).
La ‘moderna’ storia concettuale della p. ha inizio con la separazione tra norme di diritto e norme morali, operata sulla base della loro sanzionabilità, e del tentativo di conferire alla p. stessa specificità concettuale all’interno del genus sanzione. Fondamentale, in tal senso, il riferimento a Thomasius, determinante nell’affermare la centralità della sanzione, considerata, dal punto di vista teorico-generale, momento caratterizzante di quel diritto che si vuole, proprio sulla base della sua coattività, autonomo dalla morale. È con gli esponenti del giusnaturalismo razionalistico, Grozio, Hobbes, Pufendorf, nonché, ancora, con Thomasius, che si consolida l’idea che il fondamento filosofico della p. risieda nella sua utilità, ossia nella sua funzione di momento preventivo del delitto, funzione intesa come prevenzione generale, rivolta all’insieme dei consociati, distinta dalla prevenzione speciale, avente lo scopo di interdire al solo reo la recidiva (all’interno di questo approccio si affermeranno poi quelle istanze di razionalità e umanità, che costituiranno il nerbo teorico della teoria penale dell’Illuminismo). È, infatti, hobbesiana l’affermazione del brocardo nulla poena sine lege, così come la differenziazione tra gli ambiti del diritto e della morale, e quindi del rapporto tra reato in senso giuridico e peccato in senso morale, differenza poi approfondita, nell’ambito del giusnaturalismo, da Pufendorf e da Thomasius.
Le problematiche relative ai limiti dell’esercizio sovrano, così come al fondamento del diritto di punire, sono riprese dall’Illuminismo nell’ambito di un movimento complessivo di razionalizzazione del sistema giuridico. Nel pensare la funzione preventiva della p., utilitaristicamente denotata, bisogna rifuggire dalla sua applicazione esemplare. Nell’opera di Beccaria, così come in Montesquieu e, più in generale, nella filosofia dell’Illuminismo, utilitarismo, proporzionalismo e tensione umanitaria sono strettamente legati: in connessione con le idealità dello Stato di diritto, la punizione del reo, per quanto strumentale alla salute pubblica, resta comunque legata al reato, nonché a un ideale di razionalizzazione complessiva del regime della prova. In nome di una determinata interpretazione del contratto sociale, di ascendenza lockeana, inoltre, si nega allo Stato il potere di togliere la vita ai cittadini, evidenziando la contraddizione patente tra penalizzazione del suicidio ed esercizio della pena di morte. Lapidaria, in tal senso, l’affermazione dello stesso Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1746): «Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa». Al rischio dell’uso strumentale del reo, intrinseco all’approccio riformatore utilitaristico, si oppone la teoria della p. di Kant (Fondamenti della metafisica dei costumi, 1785), esponente della teoria retributiva declinata in senso morale, sulla base di argomentazioni derivate da una concezione del contratto inteso come condizione logico-trascendentale della fondazione razionale della comunità. Il dovere di comminare la p. si struttura nella forma dell’imperativo categorico, caratterizzante l’ingiunzione morale. Fedele all’impostazione kantiana è Karl Grolman (Über die Begründung des Strafrechts und der Strafgesetzgebung, 1799), che rifiuta ogni interpretazione utilitaristica, tendente a trascurare la giustizia come valore assoluto dell’esercizio del diritto penale. La riflessione di Hegel in materia di diritto in generale, e di p. in partic. (Lineamenti di filosofia del diritto, 1840, §§ 82-104), è suscettibile, invece, di diverse letture, a seconda che la sua concezione sia interpretata dal punto di vista di una filosofia dell’essere (Sein) o del dover-essere (Sollen). Nel primo caso, la sua sarà classificabile come una teoria della p. distributiva ‘morale’, nel secondo, ‘giuridica’: se la struttura dialettica costituisce il nesso diritto-reato-pena secondo lo schema tesi-antitesi-sintesi, quest’ultima ripristina lo stato iniziale, negando, dialetticamente, il reato stesso, per profilare a carico del reo un vero e proprio diritto a essere punito, affinché tale restaurazione possa avere effetti di natura anche soggettiva. Tuttavia, di un vero e proprio diritto soggettivo a essere punito non si può parlare in questo caso, se non altro perché il titolare non potrebbe disporne neanche parzialmente, né si può parlare di un diritto pubblico soggettivo a che la p. sia comminata, che legittimerebbe un dovere di punire da parte dello Stato, come sostenuto, più tardi, dalle dottrine eticizzanti organiche a regimi totalitari. È il caso di A. Rocco, il cui Codice è trasposizione integrale di tale concezione. All’approccio retributivo è da ascrivere, infine, F. Carrara (Prolegomeni al Programma del corso di diritto criminale, 1871), che disancora la definizione della p. dalla volontà del legislatore per fissarla sul terreno dei principi universali della ragione, situandola oltre, se non contro, il positum del diritto, oltre, cioè, il suo essere considerato valido in quanto posto dall’autorità vigente, momento cardine delle dottrine giuspositiviste.
Il valore intrinseco all’approccio retributivo non ha impedito che la storia concettuale della p. si sia sviluppata per lo più sul versante preventivo. Fautore di tale approccio è stato P.J. Feuerbach, che ha sostenuto il valore preventivo generale della legge penale, effettivo erga omnes e distinto dal suo momento esecutivo, mentre, su un versante più strettamente utilitaristico, criminalisti come F. von Liszt hanno considerato invece la p. alla stregua di un semplice mezzo, volto a raggiungere scopi, quali la risocializzazione, l’intimidazione e la neutralizzazione dei delinquenti. La rivendicazione delle potenzialità pedagogico-riabilitative della p., vista come forma di riabilitazione morale, si deve invece, su versanti pressoché opposti, al neoidealismo di Spirito (Storia del diritto penale italiano da Beccaria ai nostri giorni, 1925, 3a ed. ampliata 1974) così come all’antiformalismo di A. Pigliaru (Meditazioni sul regime penitenziario italiano, 1959). Se la p. come emenda rileva di un ideale pedagogico di natura paternalistica, avente quale obiettivo il reinserimento sociale del reo, su un versante attiguo si assiste al tentativo del positivismo sociologico di mettere a frutto il lavoro critico nei confronti di categorie come imputabilità e responsabilità morale, riducendo la p. alla sola funzione di difesa sociale. Emerge progressivamente la figura, oggi di così stretta attualità, della punizione non sulla base del reato, ma della pericolosità sociale, posizione questa estremamente generica, epistemologicamente assai dubbia, che postula una caratterologia su base biologica ed esclude le dimensioni esistenziale e di scelta soggettiva, intrinseche alla responsabilità individuale. È il caso dell’approccio della scuola positivistica italiana, che si è valsa dei contributi di penalisti, per tutti E. Ferri (Sociologia criminale, 1929), tesi a funzionalizzare integralmente la questione della p. alla difesa della società, elaborando momenti alternativi, adeguati al mutamento sociale della sanzione, che assume forme di natura sempre più restitutiva che repressiva, secondo quanto già rilevato da Durkheim. Si tratta di un indirizzo condiviso anche dalle teorie novecentesche del diritto giurisprudenziale di marca statunitense, che, come nel caso di S. Holmes, riducono il fattore colpevolezza a quello di una responsabilità meramente oggettiva, nell’ambito di un approccio che non rende ragione di quanto di umano sia nell’esercizio del reato. Decostruendone la personalità, la relativizzazione sociologica tende a misconoscere la profonda umanità del reo: ogni teoria non formalistica della p. dovrebbe avere, in verità, quale suo criterio ispiratore l’‘irrealizzazione’ del crimine, ma non del criminale, la cui soggettività sfuma sempre più, per effetto di un più generale movimento di abolizione del confine tra norma e antinorma. In opposta direzione va, dunque, segnalata la recente affermazione di una teoria del garantismo penale (L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 1989), che insiste sulla necessità di centrare la questione sul rispetto dell’umanità del reo, sull’osservanza di alcune imperscrutabili regole, di natura giuridica e non politica, da parte del potere politico, per cui l’umanizzazione integrale del reo non può che aver luogo all’interno di una Stato che sia di diritto.