PELOPONNESO (ἡ Πελοπόννησος, Peloponnesus; A. T., 75-76, 82-83)
Il maggiore, e il più tipico, degli aggetti peninsulari della regione ellenica. Il nome (isola di Pelope) è posto in rapporto col mito di Pelope (v.); nel Medioevo venne più spesso sostituito con quello di Morea (v.).
Il territorio della penisola (che misura 21.470 krnq.) è unito all'Attica per mezzo dell'esile (6 km.) Istmo di Corinto, ora tagliato dall'omonimo canale che fa continua, sul lato settentrionale della penisola stessa, la cintura d'acque che la delimita. Di forma in complesso tozza e massiccia, si articola a S. per l'intaglio dei due profondi golfi messenico e laconico, corrispondenti a due ampie zone di affondamento, chiuse fra i pilastri montani del Parnone (M. Malebós, 1937 m.) a E., del Taigeto (2409 m.) al centro, e della continuazione del gruppo Pindo-Ólenos verso occidente (M. Séchi, 1391 m.). L'Arcadia costituisce in certo modo il cuore della regione, i cui caratteri riproduce nella tipica alternanza di zone a rilievo fortemente accentuato (i gruppi dell'Ólenos, 2224 m., del Chelmós 2335 m., e dello Zēria, m. 2374 la delimitano a N. verso l'Acaia e la Corinzia), con lembi depressi (il più esteso dei quali è rappresentato dalle pianure di Mantinea e di Tripoli), in parte convertiti in bacini senza deflusso al mare (quello, più ampio, del L. Stymfalís, è nella finitima Argolide). Non meno tipico è in tutta la regione il contrasto fra la massa montuosa interna e le zone marginali meglio adatte all'insediamento, costituite da più o meno ampie pianure alluvionali (bassi corsi del Peneo, dell'Eurota e del Pamiso), o dal degradante pendio delle ultime digitazioni con le quali i rilievi stessi finiscono al mare. Il contrasto è del pari evidente nell'articolazione peninsulare dell'Argolide (800-1000 m.) fra il Golfo di Egina (Saronico) e quello di Nauplia (Argolico), continuato entro terra da un vasto lembo pianeggiante.
Il clima è di tipo mediterraneo, per quanto con caratteri via via più attenuati man mano che si procede verso l'interno (Sparta: temp. media di gennaio: 9°,4, di giugno 27°,2, annua 17°,7; i valori diventano rispettivamente 4°,6; 22°,8 e 13°,3 a Tripoli), mentre le piogge vengono diminuendo sensibilmente da O. verso E. (per ridursi a una media annua di 440 mm. a Nauplia, contro più del doppio sulla costa dell'Elide).
Il Peloponneso è in sostanza un territorio a economia agricolo-pastorale non molto evoluta, ma con diversità sensibili da regione a regione. Colture principali sono i cereali, la vite (soprattutto in Messenia e nell'Elide), l'olivo, e la frutta (agrumi); minore importanza hanno ora sia le coltivazioni del tabacco e del cotone, sia l'allevamento del baco da seta, una volta notevoli. Anche le foreste, non rappresentano più un elemento importante nell'economia locale. L'allevamento è volto di preferenza al bestiame minuto. Il commercio è ostacolato dalla difficoltà delle comunicazioni, dalla scarsezza delle strade e delle ferrovie (anche il decorso dell'unica ferrovia finora costruita si limita, in sostanza, alle zone periferiche) e dalla mancanza di buoni porti. Il Peloponneso è amministrativamente diviso in sei νομοί o provincie, la cui popolazione, nei due ultimi censimenti, è rappresentata dalle seguenti cifre:
La densità di popolazione va in complesso decrescendo da O. verso E. e ancora più decisamente dalla costa verso l'interno. Quasi tutti i centri abitati più notevoli (una dozzina appena superiori ai 5 mila ab.) sono periferici, e per la maggior parte sul lato volto allo Ionio. Il centro più importante e in pari tempo il porto più attivo della regione è Patrasso (v., 64.636 ab.). L'aumento della popolazione è del pari più forte a O. che a E.; comunque i soli centri in notevole sviluppo sono quelli toccati dalla ferrovia circolare (Calamata, Tripoli, Corinto, Amaliás, Pirgo) che congiunge il Peloponneso al resto della Grecia.
Storia. - Antichità. - Le prime tracce di vita che si possono notare nel Peloponneso si trovano nella parte nord-est della penisola e appartengono all'età neolitica piuttosto avanzata, cioè - a un dipresso - a un'epoca anteriore al 3000. A questa popolazione che probabilmente era immigrata dal settentrione sembrano essere succedute intorno al 3000 altre genti, che già conoscevano l'uso del bronzo (civiltà cosiddetta elladica). Si nota poi una nuova potente ondata di popoli - indoeuropei questi - che intorno al 2000 dilagarono per la penisola greca distinguendosi in quelli che si sogliono chiamare Eoli settentrionali ed Eoli meridionali (detti anche Arcadi o Arcado-ciprioti). E forse a questo strato etnico risale il nome stesso Peloponneso, il quale oramai quasi concordemente si fa derivare da quello dei Pelopes, un'antica gente adombrata dalla mitica figura dell'eroe eponimo Pelope (v.). Ultimi a scendere nel Peloponneso furono i gruppi indoeuropei di lingua dorica; i quali passarono nella penisola molto probabilmente attraverso lo Stretto di Rhion e, divisi nelle tre tribù degli Illei, dei Dimani e dei Pamfili, occuparono a poco a poco l'Acaia, l'Argolide, la Laconia e finalmente la Messenia (con la prima guerra messenica del sec. VIII a. C.), soffocando le primitive popolazioni eoliche, le quali non furono risparmiate se non parzialmente nell'Arcadia e forse anche nella Trifilia. Questi Dori sono forse una cosa sola con gli Achei e con i Micenei, la cui splendida civiltà si svolse nel Peloponneso senza interruzioni fra il 1500 circa e il 1000 a. C. Vi sono peraltro studiosi i quali, pur ammettendo che gli Achei non siano altri che i Micenei, pensano che i Dori siano una nuova ondata di genti indoeuropee le quali sarebbero scese nel Peloponneso circa il sec. XII portandovi la cosiddetta civiltà geometrica, le cui tracce più notevoli sono state trovate a Tirinto, mentre altre si sono rivelate a Sparta e ad Olimpia. Fra le genti doriche stabilitesi nel Peloponneso cominciò ben presto a distinguersi quella che si era stanziata nella Laconia, e sulle rive dell'Eurota aveva fondato il suo centro, Sparta. I Laconi infatti, attraverso le lotte con la popolazione eolica e le agitazioni interne, che portarono prima ad un compromesso fra la monarchia e la nobiltà con la creazione di una nuova casa regnante, poi a un altro compromesso fra i re e il popolo con la creazione degli efori, si erano venuti temprando fino a divenire una potenza regolata da un'inflessibile disciplina militare. In tal modo fu possibile ad essi imporre a poco a poco la loro autorità a quasi tutte le altre genti della penisola. Nel secolo VIII e nel VII Sparta fu impegnata nelle aspre lotte contro i Messenî, che portarono all'assoggettamento di quella fertile regione; nel VI poi si rivolse contro l'Arcadia e contro l'Argolide aggregandosi come alleata Tegea e soggiogando la molto disputata Cinuria, mentre quasi tutte le altre città dell'Arcadia, Corinto ed Epidauro le si accostavano di loro propria volontà, e gli Elei, con l'aiuto appunto di Sparta, si stabilivano nella Pisatide e in Olimpia. Così nel sec. VI tutto il Peloponneso, meno Argo e la parte settentrionale della penisola, era o sottomesso a Sparta o collegato ad essa in una lega, dove la mancanza di una regolare organizzazione era largamente compensata dal prestigio della città dominante. Così questa potenza territoriale della Laconia veniva crescendo insieme con quella marittima di Atene, e già cominciava a formarne per così dire il contrappeso nell'economia politica della Grecia. Quando apparvero minacciosi all'orizzonte gli eserciti persiani, Sparta, ancora travagliata da lotte interne, e tutta la Lega peloponnesiaca si trovarono concordi con Atene e lottarono strenuamente per la libertà.
Ma passato il pericolo e chiusa la guerra con le splendide vittorie di Salamina, di Platea e di Micale (480-479), cominciò ad accentuarsi il contrasto fra la dorica Sparta dominatrice del Peloponneso e la ionica Atene, signora del mare e fiorente - sotto l'illuminato governo di Pericle - di tutte le grazie dell'intelligenza della cultura. E si venne così alla guerra del Peloponneso (431-404), la quale finì con la vittoria di Sparta su Atene e con l'occupazione della stessa Atene da parte di Lisandro. Negli anni che seguirono, fino alla pace di Antalcida (386), Sparta non fece in sostanza che rinforzare la sua potenza, cercando di procurarsi anche un impero marittimo, resistendo alle inimicizie dei Tebani e degli Ateniesi e - nella stessa penisola peloponnesiaca - degli Argivi e dei Corinzî, e soprattutto facendosi amica della Persia. Ma questa potenza di Sparta, basata sulla violenza, era ostacolata non solo dai nemici esterni ma specialmente da interne disarmonie, che si erano già rivelate fin dalla guerra del Peloponneso in movimenti democratici, più o meno favoriti da Atene. In tal modo quando cominciò ad affermarsi la potenza tebana, sostenuta dalle due grandi personalità di Pelopida e di Epaminonda, e dopo la clamorosa vittoria di Leuttra (371), non fu difficile a Epaminonda, disceso nel Peloponneso, abbattere l'egemonia spartana, staccando da Sparta la Messenia e l'Arcadia, dov'egli rispettivamente fondò Messene e Megalopoli, mentre per tutto il Peloponneso spirava potentemente il soffio delle idee democratiche. La morte di Epaminonda nella battaglia di Mantinea (362) segnò un relativo vantaggio di Sparta, ma ormai con la divisione da Sparta di Messene, di Megalopoli, aggiuntasi all'antica rivalità di Argo, l'equilibrio del Peloponneso era turbato né più era possibile ripristinarlo. Intanto sempre più cresceva la potenza dei Macedoni, fino a che Filippo non impose alla Grecia la propria autorità con la battaglia di Cheronea (338), e costituì la Lega panellenica detta di Corinto.
A questa aderirono le città del Peloponneso meno Sparta, la quale due volte tentò di ribellarsi, ma poi dové finire col cedere (331). Dopo la morte di Alessandro Magno (323), il Peloponneso prese una parte molto relativa alle furiose lotte dei Diadochi. Più tardi Pirro, nel suo tentativo di unificare la Grecia, cercò di impadronirsi di Sparta e di Argo, ma quivi lasciò la vita (273 o 272). Nella guerra cosiddetta Cremonidea (iniziata nel 267-266) Sparta con buona parte del Peloponneso si trovò a fianco di Atene per liberarsi dalla signoria dei Macedoni, i quali peraltro avevano nel Peloponneso l'appoggio notevolissimo degli Arcadi. L'impresa fu vana e finì nel 264 con la morte a Corinto del re spartano Areo. Intanto, ricostituitasi fino dal 281-280 la Lega achea, s'era venuta poi per impulso di Arato di Sicione e dietro l'esempio della Lega etolica consolidando la sua potenza. Essa, avendo come suo principale scopo la lotta contro i tiranni - vale a dire contro i Macedoni -, andava sempre più estendendosi per le regioni del Peloponneso, fino a guadagnare alla sua causa quasi tutta la penisola. Nel frattempo si agitava a Sparta una rivoluzione sociale ed economica la quale culminò nel 227 con l'elezione a re di Cleomene III. Questi si rivolse contro la Lega achea e cercò di sostituire ad essa la potenza di Sparta. Ma gli Achei, dimenticando la ragione ideale per la quale la loro lega era nata, richiamarono i Macedoni nel Peloponneso; così che Antigono Dosone, vinta la battaglia di Sellasia (222), occupò Sparta e costituì una lega alla quale Sparta e l'Acaia ed altri stati della Grecia più o meno liberamente aderirono. Morto Antigono Dosone e succedutogli Filippo V, gli Achei, sostenuti dal nuovo re macedone, lottarono contro gli Etoli e li vinsero togliendo ad essi i loro possedimenti nel Peloponneso. La pace di Naupatto (217), conclusa da Filippo in riguardo ai gravi avvenimenti che si svolgevano nell'Occidente, lasciò l'armonia del Peloponneso gravemente turbata, in quanto Sparta era stata esclusa dall'alleanza di Filippo e degli Achei. Perciò quando, poco dopo, i Romani si rivolsero contro Filippo, essi non stentarono a rendersi alleati, oltre gli Etoli, anche gli Spartani e con essi gli Elei ed i Messenî. E ugualmente dopo la pace di Fenice (205) Sparta si rivolse ostilmente contro la Lega achea, la quale si andava rinforzando sorretta dall'abilità e dalla probità dello stratego Filopemene. Dopo la seconda guerra macedonica e la vittoria del console Flaminino a Cinoscefale (197), nuovo vigore prese la Lega achea, la quale, alleatasi coi Romani contro gli Etoli, riuscì ad aggregare a sé gli stati peloponnesiaci che avevano favorito l'Etolia, e anche Sparta già sconfitta dal console Flaminino. Ma la vita della federazione achea era ormai minata da turbamenti sociali ed economici e da discordie interne, una delle quali portò alla ribellione di Messene e alla morte di Filopemene (183); né molto giovò la reintegrazione della Lega compiuta da Licorta l'anno dopo la morte del grande stratego. E poco valse anche l'aiuto prestato dopo la battaglia di Pidna (168) dagli Achei a Roma contro Andrisco detto lo pseudo-Filippo, per domare le ultime resistenze dei Macedoni (150-148): gl'interessi di Roma esigevano il dissolvimento della Lega. Gli Achei si ribellarono; ma, dopo l'ultima disperata resistenza dello stratego Dieo a Corinto, dovettero sottomettersi al console L. Mummio e lasciare che il nome di Acaia si allargasse a tutta la Grecia, rappresentando il nuovo dominio dei Romani (146). Durante l'ultima età repubblicana e l'epoca imperiale il Peloponneso non ebbe a subire notevoli cambiamenti politici. Nelle varie regioni furono costituite delle leghe, le quali però non avevano praticamente alcuna importanza, ma per lo più servivano a tenere desto l'interesse verso determinati cui. Nella Laconia, invece, si raccolsero dopo il 146 in una lega detta dei Lacedemoni (κοινὸν τῶν Λακεδαιμονίων) i Perieci della Laconia meridionale, che erano stati aggregati nel 194 agli Achei, confederazione che dall'imperatore Augusto fu mutata nella Lega degli Eleuterolaconi.
Secondo i calcoli del Beloch, la popolazione complessiva del Peloponneso sembra si possa calcolare nel sec. V a. C. fra gli 800.000 e i 900.000 ab., con una media di 36-40 ab. per kmq., densità che raggiungeva il massimo nell'Argolide e nell'Arcadia. A cominciare dalla metà del sec. IV diminuiscono i contingenti degli eserciti peloponnesiaci, ma non in corrispondenza la popolazione totale, la quale anzi raggiunge alla fine del sec. III forse i 950.000 ab. con una media di 42 per kmq. La diminuzione di abitanti comincia dal principio del sec. II, non solo nel Peloponneso ma anche nel resto della Grecia.
I dialetti del Peloponneso sono quasi tutti dorici: così quello della Laconia, di cui tuttora sopravvivono alcune tracce nella parlata degli Zaconi, così quello della Messenia, dell'Argolide, di Corinto e Sicione. Il dialetto eleo occupa un posto intermedio fra quello dorico meridionale e il gruppo dialettale che si rivela nel NO. della Grecia antica (Locride, Focide, Epiro, Acarnania, Etolia, ecc.). Nel dialetto arcadico, invece, si notano elementi anteriori allo strato dorico e affini a quelli del dialetto ciprio, ciò che conferma l'originaria parentela degli Eoli meridionali, occupanti tanto il Peloponneso quanto le isole dell'Egeo e parte dell'Asia Minore. Infine deve essere notato che nell'onomastica peloponnesiaca si possono forse rintracciare alcuni elementi di lingua preellenica.
I culti predorici del Peloponneso si rivelano specialmente nell'Arcadia, essendo stata questa regione in parte risparmiata dai Dori invadenti. Divinità principali sembra fossero in quel tempo una dea delle forze vegetative, alla quale s'accompagnava in qualità di sposo un grande nume maschile: coppia la quale aveva, per i suoi stessi caratteri, rapporti strettissimi col mondo sotterraneo. Quando i culti classici si diffusero nel Peloponneso la dea ebbe il nome di Demeter, il dio di Posidone e le loro figure subirono deformazioni più o meno notevoli. Nume arcadico assai antico e certamente indigeno fu Pan, il dio dei pastori, raffigurato in primitive sembianze animalesche. Nell'Argolide era fiorentissimo il culto di Era, venerata nel famoso tempio vicino ad Argo, mentre ad Argo stessa molti numi erano oggetto di culto, fra gli altri Apollo Liceo. V'era poi, in Argolide, il celeberrimo santuario del dorico Asclepio, stabilitosi a Epidauro nel sacro recinto di un più antico Apollo Maleatas. Nella Laconia luoghi di culto venerati in età predorica sembrano essere fra gli altri il santuario di Amicle, dove in origine si adorava l'eroe Giacinto poi sopraffatto da Apollo, e quello della vetusta Artemide Orthia a Sparta. Grande importanza ebbe poi, nell'età dorica, Apollo Carneo. In Messenia poche e deboli tracce della religione primitiva si scorgono sotto i culti dorici imposti da Sparta. Notevole è il santuario di Andania, dove si può riconoscere una stratificazione religiosa alla quale si aggiunge - nell'età di Epaminonda - l'istituzione dei misteri cabirici, sostituiti in epoca romana da quelli di Eleusi. L'Elide, infine, vantava il possesso del grande santuario di Zeus in Olimpia, centro delle famose gare panelleniche, le quali - nel Peloponneso - si svolgevano anche a Nemea e a Corinto. Numerose leggende fiorivano nelle varie regioni del Peloponneso, fra le quali specialmente notevole è quella di Eracle, l'eroe peloponnesiaco per eccellenza.
Alla fine del sec. IV d. C. il Peloponneso ebbe a soffrire le devastazioni di Alarico; secondo una tarda tradizione, un'invasione di Avari e Slavi sarebbe avvenuta verso il 589. È certo che dal sec. VIII troviamo stanziate in Arcadia, Messenia, Elide e Laconia (introdotte forse per pacifica colonizzazione da Costantino V) alcune tribù di pastori e agricoltori slavi, spesso in aperta ribellione contro le autorità bizantine. Solo nell'850 un esercito imperiale li domò quasi completamente, provocandone la conversione e quindi la progressiva assimilazione all'elemento greco.
Costituito in tema separato dall'813, il Peloponneso, o Morea (v.) come si disse dai primi anni del sec. XII, crebbe d'importanza per i traffici sempre più attivi con gli stati occidentali, specialmente Venezia. Fu questo un periodo di particolare prosperità, turbato solo da qualche assalto dei Saraceni sulle coste e da un'incursione di Ruggiero II il Normanno (1146). Dopo la caduta di Costantinopoli, Venezia, a cui per diritto era riconosciuto il possesso di tutta la Morea, si limitò a occupare i due porti di Corone e di Modone, che tenne quasi ininterrottamente (1206-1500; 1685-1715), mentre in diversi periodi esercitò la sua signoria su Argo, Nauplia, Patrasso, Lepanto, Monemvasia o Malvasia. Nel resto della Morea Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin fondarono il principato, detto di Acaia (v.). Di tutte le regioni della Grecia il Peloponneso si mostrò la più adatta all'organizzazione feudale, che del resto non vi era del tutto ignota: ne dànno testimonianza la Cronica della Morea (v. morea) e i numerosi castelli di feudatari greci e franchi di cui ancora restano qua e là le rovine (a Kalábryta, Karýtaina, Geráki, Beligostē, ecc.).
Il periodo più fiorente del dominio franco (per le cui vicende v. acaia, I, p. 169 segg.), coincide col regno di Guglielmo II di Villehardouin (1245-1278), che completò la conquista, obbligando alla resa anche l'inaccessibile Malvasia (1248). Ma alleatosi con Michele Angelo II, despota di Epiro, contro Michele VIII Paleologo, e fatto prigioniero alla battaglia di Pelagonia (1259), lo stesso Guglielmo II dovette cedere (1262) all'imperatore di Bisanzio Malvasia, Maina e il castello di Mistrà da lui costruito presso Sparta per tenere a freno gli Slavi della Laconia e le popolazioni di Maina. Fu così nuovamente rotta l'unità politica della Morea, ciò che doveva da ultimo riuscire di vantaggio ai conquistatori turchi; ma prima il despotato greco, costituitosi intorno a Mistrà, era destinato a un successo sia pure effimero, di fronte al principato franco, reso debole soprattutto dai continui mutamenti di reggente, caratteristici del sistema feudale.
Michele VIII aveva mandato a Mistrà il fratello Costantino, i cui tentativi di riconquista della Morea fallirono soprattutto per la diserzione dei mercenarî turchi, al cui aiuto aveva ricorso. Giovanni Cantacuzeno creò il despotato di Mistrà, nominando despota a vita il figlio Manuele (1348-1380) a cui successe Teodoro I Paleologo. Ambedue i despoti tennero in genere buoni rapporti coi principi latini (specie con gli Acciaiuoli, dal 1358 signori di Corinto) contro la minaccia dei Turchi, che si fece ancor più grave dopo la cosiddetta battaglia delle nazioni (1389). Dal 1392 al 1460 è una serie continua d'incursioni di eserciti turchi che, saccheggiata la Morea, ripassano l'istmo carichi di prigionieri e di preda. Per ripopolare il Peloponneso e rinforzarlo, sia Manuele sia Teodoro I vi accolsero i primi contingenti di profughi albanesi. Nel 1407 a Teodoro I successe Teodoro II figlio dell'imperatore Manuele II, che visitò la Morea di persona, e fece ricostruire le fortificazioni dell'istmo (l'hexamílion). La crescente importanza di Mistrà, anche dal punto di vista culturale (v'insegnava allora Giorgio Gemistio Pletone) testimoniava dell'interesse degl'imperatori bizantini per i possessi della Morea e di un certo risveglio del sentimento nazionale greco. Regnando ancora Teodoro II (1428), venne a Mistrà il fratello di lui Costantino che con accorta politica rivendicò ai Greci il possesso di tutta la Morea (tranne i possedimenti veneti di Nauplia, Argo, Modone e Corone); spintosi oltre l'istmo il 1444, attirò nel Peloponneso un'incursione di Murād II; dopo la quale però il possesso del Peloponneso gli fu riconosciuto quale tributario del sultano. Quando nel 1448 Costantino salì al trono di Bisanzio, lasciò la Morea ai fratelli Demetrio e Tommaso, il cui regno fu funestato da discordie intestine, dalle rivolte degli Albanesi e dei feudatarî e dalle ripetute incursioni turche. La prima, nel 1452, aveva per obiettivo d'immobilizzare i due despoti mentre Maometto II assaliva Costantinopoli; le successive, provocate dall'atteggiamento di Tommaso che, sperando nell'aiuto delle potenze occidentali, si rifiutava di pagare il tributo, condussero nel 1460 al completo assoggettamento della Morea ai Turchi. Venezia conservò i suoi possessi fino al 1500 circa.
Sotto i Turchi la Morea costituì un sangiaccato; buona parte della popolazione, decimata dalle lotte, accettò almeno apparentemente l'islamismo; ma un certo sentimento nazionale fu tenuto vivo dalla chiesa ortodossa e da una sia pur limitata libertà comunale. Né mancarono sanguinose insurrezioni (fomentate spesso dai Veneziani) specie nelle zone montuose dell'Arcadia e di Maina. Tra il 1685 e il 1687 Francesco Morosini il Peloponnesiaco conquistò a Venezia l'intera Morea, il cui possesso fu riconosciuto alla Serenissima dal trattato di Carlowitz (1699). Il governo veneziano fu assai giovevole al progresso culturale ed economico del Peloponneso, ma dopo soli trent'anni questo ricadeva nelle mani dei Turchi, e il secondo dominio turco (1715-1821) fu sotto molti rapporti peggiore del primo. Bande di clefti e di armatoli si costituirono in Morea come nel resto della Grecia. Nel 1770, durante la guerra russo-turca, le popolazioni del Peloponneso accolsero con entusiasmo Teodoro Orlov; se le speranze dei Greci furono deluse, tuttavia, in seguito al trattato russo-turco del 1774, le condizioni dei Greci nella Morea migliorarono alquanto specie dal punto di vista economico. Nel 1821 i Greci del Peloponneso, guidati da Teodoro Kolokotronis, furono i primi a insorgere, e la regione era quasi completamente nelle loro mani quando la Porta (1824) mandò Ibrāhīm pascià a domare la rivolta. Per l'intervento dell'Inghilterra, della Francia e della Russia (battaglia di Navarino, 1827), Ibrāhīm pascià fu costretto ad evacuare il Peloponneso che aveva spietatamente devastato, mentre Giovanni Capodistria, presidente dello stato libero di Grecia, sbarcava a Nauplia (1828). Da allora la storia del Peloponneso si confonde con quella della Grecia.
Bibl.: Antichità. - W. M. Leake, Travels in the Morea, I-III, Londra 1830; E. Curtius, Peloponnesos, I-II, Gotha 1851-52; E. Beulé, Études sur le Péloponn., Parigi 1855; C. Bursian, Geogr. von Griech., II, Lipsia 1868-72, p. i segg.; A. Philippson, Der Peloponnes, Berlino 1892. - Per la storia basti rinviare all bibl. nell'articolo grecia: Storia. V. inoltre peloponnesiaca, lega, e la bibl. aggiunta alla trattazione delle singole regioni. - Per la questione demografica, v. J. Beloch, Die Bevölkerung der griech.-röm. Welt, Lipsia 1886, p. 109 segg.
Medioevo ed età moderna. - Oltre alle opere citate alle voci acaia; bizantina, civiltà: Storia; grecia, X, p. 907; mistrà, ecc., v. J. Ph. Fallmerayer, Geschichte der Halbinsel Morea während des Mittelalters, Stoccarda-Tubinga, 1830-36; W. Miller, The Latin in the Levant, Londra 1908; N. A. Bees, Morea, in Encycl. de l'Islām, 1932-33; id., in 'Εγκυκλοπ. λεξικὸν Ελευϑερουδάκη, Atene 1930; T. Kandiloros, ‛Ο 'Αρματωλισμος τῆς Πελοποννήσου, Atene 1924; Rennel Rodd, The Princes of Achaja and the Chronicles of Morea, Londra 1907.
La guerra del Peloponneso.
Col nome di guerra peloponnesiaca o guerra del Peloponneso si designa da antichi e da moderni quella lotta fra Atene e Sparta che, iniziatasi nel 431 e dopo la pace del 421 ripresa nel 413, terminò con la caduta di Atene nella primavera del 404. La denominazione è data dal punto di vista ateniese secondo la norma usuale presso gli antichi di designare una guerra dal nome di coloro contro cui si combatteva (così guerre mediche o persiane sono quelle combattute dai Greci contro i Persiani, guerre puniche quelle combattute dai Romani contro i Cartaginesi, e la guerra degli Ateniesi contro Siracusa, che gli Ateniesi chiamavano Σικελικὸς πόλεμος, era detta, come pare, dallo storico siciliano Filisto 'Αττικὸς πόλεμος). In questo senso del resto v'era già stata un'altra guerra peloponnesiaca, cominciata nel 458 o nel 457 e terminata nel 446-5 con la pace dei trent'anni. La quale peraltro lasciò intatta la potenza marittima ateniese, onde si spiega come per guerra del Peloponneso per eccellenza s'intendesse e s'intenda quella del 431-404. Nel comprendere però sotto questo nome tutti i fatti di guerra svoltisi in Grecia tra il 431 e il 404, antichi e moderni sono sotto l'influsso di Tucidide, il quale è stato il primo a considerarli come fatti di un'unica guerra. In realtà vi sono in questo periodo due distinte guerre peloponnesiache, quella che gli antichi designavano col nome di archidamica dal re Archidamo che vi ebbe, al suo inizio, una parte preponderante ('Αρχιδάμειος πόλεμος, 431-421: il termine è già in Lisia) e l'altra che s'iniziò con l'occupazione di Decelea per opera degli Spartani e che fu detta perciò guerra deceleica (Δεκελεικὸς Π., 413-404) o anche guerra ionica ('Ιωνικὸς) dal teatro principale in cui venne combattuta. Di mezzo c'è un periodo di pace torbida (ὕπουλος εἰρηνη, 421-413), sul termine del quale s'iniziò quella grande spedizione di Sicilia (415-413), che solo con molte riserve si può considerare parte integrante della guerra del Peloponneso, a un di presso come se considerassimo quale parte integrante delle guerre per l'indipendenza italiana (1848-1918) la guerra di Crimea o la guerra italo-turca.
Antichi e moderni hanno dibattuto a lungo la questione della responsabilità della guerra del Peloponneso. L'analisi del primo libro di Tucidide mostra che il grande storico antico, il quale per primo s'è posto questo problema, cominciò col cercarne le cause nel conflitto tra Corinto e Corcira (Κερκυραικά) e nella ribellione di Potidea (Ποτιδαιατικά), e solo col tempo venne nel convincimento che il vero motivo fu l'avversione e il sospetto degli Spartani per la crescente potenza ateniese. La primitiva stesura del primo libro rispecchia l'opinione originaria, le aggiunte, tra cui la digressione sulla pentecontaetia, quella sulle vicende di Pausania e di Temistocle, e probabilmente il terzo discorso dei Corinzî e il discorso di Pericle per la guerra rispecchiano la conclusione ultima. E non è dubbio che la forza d'espansione per cui gli Ateniesi crearono il loro impero doveva alla lunga provocare un conflitto. Ma nella determinazione del momento e nella scelta dell'occasione intervenne la positiva volontà degli uomini: prima di tutto i Corinzî che, riaffermando con la forza la loro autorità nelle acque dello Ionio allo scopo evidentemente di prevenire e d'impedire da questa parte l'espansione degli Ateniesi, ne provocarono così l'intervento a difesa di Corcira; poi Pericle, che colse volentieri quest'occasione di guerra aggravando il conflitto col decreto contro il commercio megarese, con la violenza delle sue imposizioni a Potidea e infine col rifiuto di qualsiasi soddisfazione anche minima agli Spartani che si trovarono così costretti a prendere militarmente le difese dei loro alleati. Tucidide tanto nella prima quanto nella seconda stesura, pur non nascondendo che Pericle volle la guerra, si sforza di attenuarne le responsabilità e specialmente lascia assai nell'ombra il decreto megarico, la cui importanza è messa invece in piena luce da Aristofane. Per intendere nel rispetto militare l'andamento della guerra bisogna tener presente in prima linea la manchevolezza dell'arte degli assedî presso i Greci. Tutti gli assedî, Potidea, Platea, Mitilene, Melo, Siracusa e finalmente quello stesso di Atene, si ridussero a semplici blocchi. Per la prima volta insegnarono ai Greci come si potesse prendere d'assalto una città assediata i Cartaginesi nella spedizione in Sicilia (410), che tenne dietro al disastro ateniese. Questo spiega il protrarsi della guerra archidamica senza resultati decisivi. Il piano di Pericle era semplicemente quello di stancare gli Spartani serbando il dominio del mare e mostrando ad essi l'inutilità delle loro devastazioni nell'Attica, ma era un piano che alla lunga doveva stancare gli Ateniesi non meno degli Spartani tanto più che le spese di guerra degli Spartani erano minime, quelle degli Ateniesi per tenere in piedi una flotta che dominasse i mari e per sottomettere gli alleati ribelli come Potidea o Mitilene, notevolissime. Solo nel 425 gli Ateniesi si avvidero finalmente che l'occupazione d'un posto fortificato sulle sponde peloponnesiache permetteva loro di danneggiare gravemente il nemico. Da ciò l'occupazione di Pilo e l'accerchiamento di un corpo d'opliti spartani in Sfacteria, per liberare il quale gli Spartani dovettero consegnare agli Ateniesi in pegno tutta la loro flotta che non fu più restituita. Così le sorti della guerra, nonostante parziali insuccessi, parevano piegare decisamente a favore degli Ateniesi, quando lo spartano Brasida con un corpo di spedizione, che condusse dall'istmo ad Anfipoli in Tracia sullo Strimone, inflisse con la conquista di questa città, e le ribellioni che l'accompagnarono e la seguirono, un grave colpo agli Ateniesi. Fu la prima lunga marcia che fosse stata mai tentata da un esercito regolare europeo e fino a poco prima, come mostra la Repubblica degli Ateniesi pseudosenofontea, essa era ritenuta impossibile. Gli Ateniesi tentarono invano di ricuperare Anfipoli e furono sconfitti in una battaglia presso quella città (422), nella quale perì Cleone, il capo del partito ateniese della guerra, ma perì anche Brasida, il solo comandante spartano che avesse dimostrato attitudini di stratego. La stanchezza di una guerra in cui non si erano raggiunti né da una parte né dall'altra risultati decisivi, e non si vedeva come raggiungerli, indusse entrambi i contendenti alla pace, che fu conclusa ad opera soprattutto di Nicia (421), il capo del partito moderato e pacifista d'Atene, partito che si reclutava in massima fra i coltivatori del territorio attico, i quali avevano avuto terribilmente a soffrire delle incursioni spartane, e che aveva trovato un efficace rincalzo nella propaganda, che noi diremmo disfattista, di Aristofane nelle sue commedie, particolarmente negli Acarnesi (425).
La pace fu conclusa quando gli Ateniesi stavano per raccogliere i frutti della loro perduranza, perché lo spirare della tregua tra Sparta e Argo, che seguì poco dopo la pace di Nicia e lo spirito bellicoso da cui erano animati gli Argivi, e i moti democratici del Peloponneso avrebbero dato agli Ateniesi il modo di portare con grande speranza di vittoria la guerra nel cuore della penisola e forse d'anticipare i successi che vi ottenne Epaminonda demolendo la lega spartana: ciò che allora nel pieno rigoglio delle forze avrebbe permesso a essi di preparare l'unificazione della Grecia. Ma la pace di Nicia e più il trattato difensivo che seguì fra Atene e Sparta fecero che gli aiuti inviati da Atene agli Argivi e agli altri alleati peloponnesiaci fossero tardi e scarsi, onde l'occasione impareggiabile andò perduta e gli Spartani vinsero i collegati democratici nella battaglia di Mantinea (418).
Gli Ateniesi, chiusa loro ogni via d'espansione nella terraferma greca, desiderosi di riaffermare il loro credito scosso dalle rotte di Delio (424), di Anfipoli (422) e di Mantinea, si accanirono contro l'isola di Melo che aveva la sola colpa di essersi tenuta sempre fuori della lega ateniese, e dopo aver punito terribilmente i Melî della loro resistenza (416-415), cercarono alle loro forze espansive uno sfogo nell'impresa di Sicilia, che per la padronanza del mare pareva loro altrettanto sicura quanto quella di Melo. La responsabilità della spedizione di Sicilia non spetta soltanto alla democrazia sfrenata o all'ambizioso generale Alcibiade, come vuole far ritenere Tucidide, ma ricade egualmente sui moderati e sul loro capo Nicia, che non ne avvertivano tutti i pericoli, e vedevano in essa un diversivo alla rivalità con Sparta. La seconda spedizione di Sicilia (415) è la prima operazione militare in grande fatta da uno stato europeo con truppe da sbarco (il suo precedente, la spedizione degli Ateniesi in Egitto, non è ad essa paragonabile perché ivi gli Ateniesi agirono con forze da sbarco limitate e come ausiliarî dei ribelli egiziani). È molto dubbio se gli Ateniesi, anche superando la resistenza di Siracusa, avrebbero potuto mantenere il dominio della Sicilia: tali erano allora le forze vive dei Sicelioti. Il disastro a ogni modo, con cui l'impresa terminò, fu dovuto all'inetta direzione militare della quale è soprattutto responsabile Nicia. Il grave ritardo nell'iniziare i lavori di circonvallazione fece sì che non si trovassero compiuti quando da Corinto e da Sparta cominciarono a organizzarsi spedizioni di soccorso ai Siracusani. La riluttanza poi di Nicia alle deliberazioni pronte e gravi fece sì che gli Ateniesi rimanessero presso Siracusa anche dopo che i lavori di circonvallazione furono resi impossibili e la reazione degli assediati ebbe cominciato a infliggere gravi scacchi agli assedianti. Per questo il ripiegamento iniziatosi troppo tardi terminò col disastro dell'Asinaro (413).
Gli Ateniesi avevano frattanto rotto la pace di Nicia devastando la Laconia, non per leggerezza come altri ha preteso, ma per attrarre sopra di sé le forze peloponnesiache distogliendole dall'intervenire in Sicilia (414). Questa volta gli Spartani, prendendo esempio dalla strategia seguita dagli Ateniesi in Pilo, fortificarono Decelea nell'Attica (413) bloccando gli Ateniesi per terra. Il disastro della spedizione di Sicilia incorò le città della lega a ribellarsi l'una dopo l'altra, indusse Sparta a riprendere la guerra nell'Egeo e i Persiani a rompere la pace di Callia alleandosi con Sparta contro Atene e fornendo a Sparta i mezzi per costruire e stipendiare un'armata. Con ciò la guerra era virtualmente decisa, non potendo gli Ateniesi resistere, come già aveva mostrato la prima guerra peloponnesiaca, alle due maggiori potenze militari d'allora. Ma essi si ostinarono in una resistenza tanto eroica quanto, dal punto di vista delle possibilità di successo, folle, respingendo la pace finché era dato ottenerla con abbandonare una parte dell'impero. Superata la crisi della rivoluzione oligarchica (411), gli Ateniesi vinsero ancora a Cinossema e poi ad opera di Alcibiade ad Abido, e a Cizico, e vinti a Nozio (407) furono ancora vincitori con uno sforzo disperato alle Arginuse (406). Ma poco dopo furono disfatti a Egospotami dalla flotta spartana ricostruita da Lisandro (405), e mentre gli Spartani, distrutte le loro armate a Cizico e alle Arginuse, avevano potuto coi sussidî persiani ricostruirne una terza, gli Ateniesi, esausti di mezzi e di forze, furono ora assediati per mare e per terra e costretti a capitolare (aprile-maggio 404).
Militarmente si può dire che la catastrofe di Sicilia segnasse la decisione della guerra. Ed è anche evidente che la spedizione, la quale condusse a quella catastrofe, fu deliberata senza alcuna necessità impellente per una valutazione affatto erronea delle forze ateniesi e siceliote e delle disposizioni dei Peloponnesiaci e della Persia. Dopo l'insuccesso della guerra peloponnesiaca, da attribuire soprattutto a quella catastrofe, gli Ateniesi non raggiunsero mai più la potenza che avevano avuta nell'età di Pericle. E poiché l'insufficiente base della potenza spartana rese impossibile a Sparta quell'unificazione della Grecia ch'essa tentò dopo la caduta dell'impero ateniese, si può dire che l'esito della guerra del Peloponneso tolse alla Grecia la possibilità d'una unificazione che fosse attuata da una polis sulla base dell'ordinamento repubblicano e cittadino, e qui sta l'importanza gravissima di quella guerra nella storia della Grecia e, in generale, nella storia d'Europa.
Fonti. - Le vicende della guerra del Peloponneso sono tra le meglio conosciute della storia greca. Fonte principalissima è Tucidide (v.); inoltre Senofonte, Hell., I-II; Aristotele; Resp. Athen.; Diodoro, l. XII-XIII; Plutarco nelle vite di Pericle, Nicia, Alcibiade e Lisandro e moltissime notizie sparse in altri scrittori. Le nostre fonti secondarie, tolto Diodoro che risale ad Eforo e per la parte siciliana a Filisto attraverso Timeo, risentono largamente l'influsso di Teopompo, sia per la sua continuazione della storia di Tucidide sia per la sua digressione sui demagoghi nel libro X delle Filippiche. Pel resto tanto Plutarco quanto gli scolî ad Aristofane conservano abbondanti materiali raccolti dagli eruditi alessandrini. Per la conoscenza dell'ambiente sono di somma importanza le commedie di Aristofane, la Resp. Athen. pseudosenofontea e l'orazione pseudolisiana (XX) per Polistrato. Non poche iscrizioni di molto interesse per la storia sono in Inscr. Graecae, I, 2ª ed., Berlino 1924; le principali riportate in Dittenberger, Sylloge, I, 3ª ed., Lipsia 1914 e in Tod, Greek historical Inscriptions, Oxford 1933.
Bibl.: Delle maggiori storie greche citiamo quella di G. Busolt, Griechische Geschichte, III, ii, Gotha 1904, per la compiutissima raccolta dei dati delle fonti e per la bibliografia; così pure per la bibliografia più recente la Cambridge Ancient History, V, Cambridge 1927, p. 507 segg. V. inoltre, G. B. Grundy, Thucydides and the history of his age, Londra 1911; A. Ferrabino, L'impero ateniese, Torino 1927. - Per la storia militare della guerra v. H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst, I, 3ª ed., Berlino 1920, pp. 109-133; J. Kromayer e G. Veith, Antike Schlachtfelder, IV, ii, Berlino 1926, p. 177 segg.; id., Schlachten-Atlas, fasc. IV, col. ii segg.; B. W. Henderson, The great war between Athens and Sparta, A companion to the military hist. of Thucydides, Londra 1927; A. Ferrabino, Armate greche, in Riv. di filol., n. s., III (1925), pp. 340 segg., 494 segg. - Per la storia politica di essa: H. Müller-Strübing, Aristophanes und die historische Kritik, Lipsia 1873; G. Gilbert, Beiträge zur innern Geschichte Athens, Lipsia 1877; J. Beloch, Die attische Politik seit Perikles, Lipsia 1884. - Per le sue cause e i suoi precedenti e il piano di Pericle, v. pericle. Inoltre, soprattutto come supplemento alle bibliografie del Busolt e della Cambr. Anc. Hist., sono qui citati in particolare per la guerra archidamica: U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Sphakteria, in Sitzungsber. der preuss. Akad. der Wiss., 1921, p. 306 segg.; A. Momigliano, Pilo, in Athenaeum, n. s., VIII (1930), p. 226 segg.; G. P. Landmann, Eine Rede des Thukydides: die Friedensmahnung des Hermokrates, Kiel 1932. - Per il periodo della ὕπουλος εἰρήνη: Ed. Meyer, Die Fridenszeit und die Einheit des pelopon. Krieges, in Forsch. zur alten Geschichte, II, Halle 1899, p. 351 segg.; U. v. Wilamowitz, Das Bündniss zwischen Sparta und Athen, in Sitzungsber. d. preuss. Akad., 1919, p. 934 segg.; A. Momigliano, Le cause della spedizione di Sicilia, in Riv. di filol., n. s., VII (1929), p. 371 segg.; G. De Sanctis, La pace di Nicia e I precedenti della grande spedizione ateniese in Sicilia, in Problemi di storia antica, Bari 1932, pp. 93 segg., 109 segg.; J. W. Woodhouse, King Agis of Sparta and his campaign in Arkadia in 418 b. C., Oxford 1933. - Per la spedizione di Sicilia, oltre le maggiori storie di Sicilia: E. Odermann, Der Festungskrieg vor Syrakus in den Jahren 414-13 v. Chr., Lipsia 1927; M. Margani, Alcune questioni relative alla battaglia dell'Asinaro (413 a. C.), in Riv. di filol., n. s., VIII (1930), p. 189 segg. - Per la guerra deceleica: A. Börner, De rebus a Graecis inde ab a. 410 usque ad a. 403 a. Chr. n. gestis quaestiones historicae, Gottinga 1894; G. Cousin, Kyros le Jeune en Asie Mineure, Parigi 1904; P. Cloché, L'affaire des Arginuses, in Rev. hist., CXXX (1919), p. 5 segg.; F. Taeger, Alkibiades, Stoccarda 1925; G. De Sanctis, La battaglia di Notion, in Riv. di filol., n. s., IX (1931), p. 222 segg.