Calvi, Pellegrino
Sono ben noti, ma non ancora precisamente valutati, anche dopo un saggio fondamentale del Barbi, due passi dell'umanista e storico forlivese Biondo Flavio (v.) che costituiscono una testimonianza, indiretta ma quanto mai preziosa, di documenti e notizie tramandati dal C. in un'opera per noi perduta, nella quale erano trascritte anche alcune epistole dantesche.
Il primo, all'anno 1303 (Historiarum decades II IX, Basilea 1559, 338 EF), narra come dopo la cacciata dei Bianchi da Firenze e la partenza di Carlo di Valois " multa sunt secuta, quae Dantis Aldegerii, poetae fiorentini, verbis dictata certioris notitiae sunt, quam a Villano Ptolemaeoque lucensi referri videamus. Dantes, in Alborum partibus adnumeratus, urbe Florentia simul cum aliis profugus, Forolivium se contulit, quo ceteri quoque Albi, et paulo post Ghibellini pridem Florentia extorres, confluxerunt. Una enim ex duabus factionibus est conflata, acceptusque est ab utraque in belli ducem Scarpetta Ordelaffus, vir nobilis et Ghibellinorum in Forolivio princeps "; vi fu anche chiamato Uguccione della Faggiola e vi si aggiunsero i Bolognesi allora favorevoli alla Parte ghibellina, " et Canis Grandis Scaliger, Veronae tunc primum dominio potitus, a praedictis omnibus Forolivii agentibus per Dantis legationem oratus auxilia equitum peditumque concessit. Innuunt autem nobis Peregrini Calvi foroliviensis, Scarpettae epistolarum magistri, extantes literae, crebram Dantis mentionem habentes, a quo dictabantur, fuisse praedictis animum, in agrum Mugellanum ad Ubaldinorum terram, et inde Florentiam, se conferre "; il passo continua con un circostanziato racconto dell'infelice spedizione mugellana della primavera del 1303, a noi nota anche dalle fonti fiorentine.
Il secondo (Historiarum dec. II IX 342 GH), dopo aver narrato sotto l'anno 1308 l'elezione imperiale di Arrigo VII, i primi atti che ne conseguirono, la missione dell'imperatore, prima di passare le Alpi, ai Fiorentini, le speranze degli esuli ghibellini, riassume, in tre punti, la " expositio mandatorum " che gli oratori imperiali dovevano trasmettere a Firenze, e prosegue: " Dantes Aldegerius, Forolivii tunc agens, in epistola ad Canem Grandem Scaligerum veronensem, partis Albae extorrum et suo nomine data, quam Peregrinus Calvus scriptam reliquit, talia dicit de responsione supradictae expositioni a Florentinis urbem tenentibus tunc facta, per quae temeritatis et petulantiae ac caecitatis sedentes ad clavum notat, adeo ut Benevenutus Imolensis, quem Peregrini scripta legisse crediderim, Dantem asserat hinc coepisse Florentinos epitheto caecos appellare. Responsum enim fuisse innuit " ecc., e riassume punto per punto, certo dall'epistola perduta di Dante, le risposte fiorentine ai mandata di Arrigo.
Ora, lasciando da parte il suggerimento di Biondo che anche Benvenuto avesse prima di lui conosciuto gli stessi scripta del C. (il Barbi non ne trovò traccia nel commento, ma verosimilmente si tratta di una citazione a memoria del passo I 512-514 sui Fiorentini ‛ caeci '), e premesso che, come ha chiarito il Barbi, il secondo passo di Biondo, e pertanto la nuova dimora di D. a Forlì e quella sua epistola a Cangrande, si riferirebbero alla seconda metà del 1310, è evidente che anche la notizia di questa epistola risale alla stessa fonte dalla quale Biondo aveva tratto le notizie del 1303. Quale fu questa fonte? Si poteva pensare, come fece il Filippini, che le lettere trascritte dal C. " erano conservate nei registri del Comune " (p. 89) o, forse meglio, della cancelleria di Scarpetta; oppure a uno zibaldone cancelleresco, come tanti ce ne sono, di natura più letteraria che storica. Ma la risposta a questi interrogativi viene da una terza citazione di Biondo, finora non rilevata (Historiarum decader II IX 349 D), dove Biondo per la vittoria di Uguccione a Montecatini (1315) mette a confronto critico, secondo il suo costume, i dati delle fonti fiorentine e quelli del C.: " Caesorum numerum Fiorentini scriptores vix duum millium referunt, quam quatuor pene millium fuisse noster Calvus affirmat; captos multos plures caesis fuisse et deditum eadem hora Montem Catinum ab eodem Calvo est traditum ". Si tratta dunque, senza escludere del tutto l'ipotesi di uno zibaldone cancelleresco, con maggiore probabilità di una cronaca, che comprendeva, a quanto risulta finora, almeno il periodo 1303-1315, e nella quale il C. aveva inserito documenti e lettere, come le sue proprie e quelle di D., alle quali poteva avere accesso nella sua posizione di cancelliere dell'Ordelaffi e per i suoi stessi rapporti personali.
Dopo l'articolo del Barbi e le sue caute e attente riserve, la fiducia dei dantisti nella testimonianza di Biondo è venuta sempre più deteriorandosi (p. es. Zingarelli, Chimenz) fino a parlare gratuitamente, se non di malafede di Biondo, di una sicura mistificazione del C. per l'epistola a Cangrande. Chi conosce Biondo può bensì rendersi conto di sue inesattezze e anacronismi: è chiaro che l'ambasceria del 1303 sarà stata a Bartolomeo della Scala e non a Cangrande, che l'epistola del 1310 non poté essere scritta da D. " partis Albae extorrum et suo nomine " (proiezione della situazione del 1303; ma nulla vieta di pensare che nel 1310, nel nuovo clima delle speranze suscitate dalla discesa di Arrigo, D. avesse ripreso contatti con gruppi degli antichi amici e potesse scrivere anche a nome loro); non per questo si potrà dubitare della sostanziale validità dei resoconti di Biondo e dell'importanza della fonte che a lui fu accessibile, così nelle parti narrative come nelle epistole e documenti che il C. vi aveva inserito. Quanto alla parte avuta da D. nella cancelleria di Scarpetta, Biondo non dice, come pure gli è stato obiettato, che egli ne fosse cancelliere, ma solo che le lettere della cancelleria spesso facevano menzione di lui, " a quo dictabantur ": l'inciso non è chiarissimo, ma non deve fare meraviglia. che nel periodo in cui l'Ordelaffi fu capitano dei Bianchi, D. che in effetti era il cancelliere del loro Consiglio e università, come risulta da Ep I, avesse stretto contatto con la cancelleria personale di quel signore, e all'occasione scrivesse egli stesso lettere politiche in rapporto con il suo ufficio di capitano; e neppure che il C., tramandandone copia, avesse in qualche didascalia dato notizia della loro effettiva paternità letteraria.
Per la ricostruzione del dossier del C. si deve aggiungere che, risultando da altro passo di Biondo (Historiarum dec. II VIII 331 D -. 332 E) che l'epistola Popule mee, ugualmente perduta e a noi conosciuta da testimonianze di Leonardo Bruni, gli fu nota indipendentemente e fu da lui usata per il racconto della battaglia di Campaldino (v. BIONDO FLAVIO), ed essendo questa epistola non molto posteriore al 1303, è legittimo supporre che anche questa provenisse a Biondo dalla compilazione del C. (e non si può neppure escludere che proprio attraverso il suo amico Biondo ne avesse conoscenza lo stesso Bruni). Che altre tracce di questa fonte, specie della parte narrativa, restino nell'opera storica di Biondo, è possibile, ma potrà essere accertato o supposto solo in base a un minuzioso esame comparativo delle sue fonti. E certo è da auspicare che qualche altra derivazione dall'opera possa affiorare in cronisti e compilatori anche posteriosi a Biondo.
A quanto si può dire finora, tutto ciò che sappiamo della personalità del C. riposa sulla testimonianza di Biondo Flavio: nessun'altra fonte o documento ci ha tramandato di lui neppure il nome. La forma nominativale " Calvus " consente, secondo l'uso di Biondo, di essere interpretata come cognome, ma certo potè trattarsi anche di un patronimico; la patria, " foroliviensis ", risulta esplicitamente dal primo passo di Biondo, e vale lo stesso il " nostri " della citazione relativa alla battaglia di Montecatini; dalla prima menzione di Biondo risulta anche la carica di cancelliere dell'Ordelaffi (" epistolarum magister " è in Biondo espressione tecnica, che egli usa anche altrove, per es. per Cecco di Meletto Rossi, cancelliere di un nipote di Scarpetta, Francesco Ordelaffi: Historiarum dec. II X 370 E): ed è tutto.
Ma che quest'uomo abbia conosciuto D. e, almeno in un momento della vita dell'esule, collaborato alla sua azione politica; che, indubbiamente uomo di cultura come indica il suo ufficio, possa essere stato con D. anche in relazioni letterarie; che allora e anche dopo parecchi anni abbia avuto cura di conservare e trascrivere alcune sue epistole politiche; che per lungo tempo abbia anche scritto una cronaca; sono dati che fanno di lui un personaggio degno di ricordo e, anche indipendentemente dalle preziose informazioni dantesche, un rappresentante della cultura romagnola del primo Trecento, intorno al quale vorremmo sapere di più.
Bibl. - P. Buchholz, Die Quellen der Historiarum Decades des Flavius Blondus, dissertazione, Naumburg 1881, 102; M. Barbi, Sulla dimora di D. a Forlì, in " Bull. " VIII (1892) 21-28, fondamentale anche per la critica della confusa bibl. precedente (poi in Problemi I 189-195); ma del Barbi si v. anche, prima e dopo, " Romanische Jahresbericht " I (1891) 463, e Problemi I 21, 43, 44, e la Nota sulle epistole perdute e spurie, nell'ediz. delle Opere di D. del 1921, 447-450; poi v. almeno F. Filippini, D. scolaro e maestro, Ginevra 1929, 89, 97-98, 137 (inesattezze); Zingarelli, Dante I 430-431 e 452 n. 9; II 597 e 636 n. 6; S.A. Chimenz, A.D., in Dizion. biogr. degli Ital. II (1961) 404, 413 (seguito da E. Balzani Maltoni, La famiglia degli Ordelaffi dall'origine alla signoria, in " Studi Romagnoli " XI [1960] 260).