Poveri, pellegrini e assistenza
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sin dal loro costituirsi le comunità cristiane si sono preoccupate di organizzare la carità. I Padri cappadoci, i cosiddetti “Dottori della povertà” hanno fornito il supporto ideologico per la strutturazione dell’assistenza che, nelle sue differenti sfaccettature, trasmigrando dall’Oriente all’Occidente, ha improntato e connotato anche il primo sviluppo del monachesimo.
Povero/pauper, sostantivo o aggettivo, nelle fonti medievali è abbinato a una vasta gamma di altri termini che sottintendono una accezione della povertà che va oltre la pura e semplice valutazione economica. C’è il pauper famelicus, attanagliato dalla fame e il pauper pannosus, nudo per la mancanza di vestiti; ci sono miseri, mendichi, indigenti in genere, privi di denaro e beni materiali. Ci sono anche i poveri resi tali da accidenti vari, circostanze, calamità private e pubbliche: la vedova, l’orfano, ne sono un esempio. Allargano la schiera quanti sono colpiti da infermità, causa ed effetto dell’indigenza stessa. Il pauper infirmus, che diventerà ben presto una categoria a parte, è rappresentato da ciechi, zoppi, storpi, ulcerosi, pazzi. I lebbrosi sono un caso a se stante. C’è una povertà connessa con la privazione della libertà personale, quella di schiavi e prigionieri innanzitutto, ma anche con il bando, l’esilio. Il pauper peregrinus è itinerante per scelta, per devozione, ma anche per necessità. C’è infine il pauper verecundus, il povero vergognoso, nobile o ricco decaduto dal precedente stato di benessere e ritroso a rendere manifesta la sua indigenza. Si vede riflessa nel povero l’immagine di Cristo, e di qui l’appellativo pauper Christi, degno di misericordia, compassione ed elemosina, motivo di riscatto per il ricco stesso che, donando liberalmente, si apre la via per il Cielo; ma si vede in lui, con una terminologia via via più chiara e precisa scorrendo dall’alto al basso Medioevo, anche l’abiectus, colui che fa ribrezzo e suscita ripugnanza e orrore, sporco, straccione, nauseabondo, forse un simulatore, un finto povero. Alle soglie del XVI secolo il percorso è ultimato. Scomparso del tutto o quasi il carattere sacrale del povero, l’unica possibile distinzione sarà fra i veri poveri, meritevoli di essere assistiti, e lo sono di solito i poveri cittadini, cioè i poveri noti, orfani, ragazze e donne sole, vedove, vecchie, e i falsi poveri: vagabondi, stranieri, furfanti e finti accattoni, in grado di lavorare ma con poca o nessuna voglia di farlo, non certo da assistere, ma da espellere o da rinchiudere.
Fin dal loro primo costituirsi le comunità cristiane si preoccupano di organizzare la carità. È appena il caso di ricordare la sollecitudine degli apostoli verso i poveri di Gerusalemme o le collette organizzate da Paolo di Tarso sempre per i poveri di Gerusalemme.
L’elemosina è al centro della vita del cristiano, apre il cuore a Dio, libera dal peccato, propizia l’aiuto divino e diventa ben presto il modo ordinario per aiutare i poveri. In un altro contesto, a Cartagine e poi ad Alessandria colpite dalla peste, i cristiani cercano di soccorrere quanti sono colpiti dal morbo. A Costantinopoli Zoticos, prima, e l’imperatore Costantino, poi, avrebbero allestito il primo lebbrosario. A Cesarea Basilio il Grande, uno dei Padri cappadoci, detti anche Dottori della povertà, sollecitato dalla carestia del 368-369, realizza una struttura detta la “nuova città”, disposta attorno alla “casa della preghiera” e agli alloggi per chierici e vescovi, destinata ad accogliere viandanti, indigenti e malati, e corredata da opifici per potervi esercitare i mestieri necessari per vivere.
È in Oriente quindi che comincia a organizzarsi la carità, con l’intervento deciso della Chiesa che dal 321, dopo l’editto di Costantino che le permette di costituirsi un proprio patrimonio, si struttura in modo adeguato per fronteggiare le varie esigenze. Le carestie e le epidemie che fra VI e VII secolo si susseguono nella parte orientale dell’Impero romano fanno rispolverare quei provvedimenti rigoristi che già dal 382 avevano indotto a distinguere poveri validi (pénes) da poveri invalidi (ptochòs), ma conducono anche, a partire dall’epoca giustinianea, a una progressiva specializzazione della rete caritativo-assistenziale, con strutture diversificate destinate a specifiche fasce di popolazione: gerokomeia per i vecchi, brephotropheia e orphanotropheia per neonati abbandonati e orfani, nosokomeia per i malati. Locali a parte sono destinati a partorienti e ciechi. Si diffondono gli asili per i poveri, ptochotropheia e le xénodocheia, che offrono un minimo di assistenza sanitaria e ospitano anche stranieri e pellegrini.
Dall’Oriente l’Occidente importa ideologie, modi e forme di carità e assistenza. Ambrogio, vescovo di Milano fa da tramite per il dettato dei Padri cappadoci. È il difensore dei deboli per eccellenza, colui che vende i “vasi sacri” per aiutare gli indigenti.
Agostino, vescovo di Ippona, nell’Africa romana, parla del superfluo del ricco come del necessario per il povero. Papa Leone Magno insiste sulla carità verso i poveri come dovere del buon cristiano. Non a caso quindi in un Occidente la cui dialettica sociale è quella del pauper/potens, squassato da crisi di sussistenza e in cui almeno fino al secolo IX il discrimine fra ricchezza e povertà è la proprietà terriera, con conseguente più o meno forte incidenza della dipendenza alimentare, attraversato a ondate dalla peste fin dal 542-544, è il vescovo il defensor civitatis e il pater pauperum. La sua casa è la casa dei poveri. Così, mutuandolo dall’Oriente, si afferma anche in Occidente l’istituto della “diaconia” che, all’ombra dell’episcopio, svolge il ruolo di ufficio di approvvigionamento, sostituendosi all’antica annona e distribuendo viveri ai poveri iscritti nelle liste.
Nel VI secolo si parla di matriculae, cioè liste di poveri mantenuti a spese della Chiesa locale. Matriculari sono i poveri che vi sono iscritti. Liste di poveri sono redatte a Reims nel 470, a Leon nel 520, a Ravenna fra 522 e 532, a Roma all’epoca di Gregorio Magno, che allestisce il triclinium pauperum, una mensa per i poveri accanto al monastero del Celio da lui fatto costruire. Con Gregorio, sollecito anche verso i prigionieri e i poveri, la chiesa è, si può dire, un “granaio aperto”. I matriculari si trasformano ben presto in stipendiati a numero chiuso, veri e propri prebendati che acquisiscono il diritto all’elemosina offrendo in cambio assistenza al servizio divino e vigilanza sull’edificio della chiesa stessa, funzioni assimilabili a quelle dei futuri “fabbricieri”.
L’attenzione per i poveri è resa palese anche da altri interventi. Papa Adriano I, papa Leone III, papa Niccolò I, ad esempio, si adoperano rispettivamente perché l’acqua arrivi a piazza san Pietro, sia alimentato un bagno presso l’obelisco di Nerone, vengano restaurate le fontane per offrire refrigerio a poveri e pellegrini. La pratica del pellegrinaggio, che fin dal IV secolo aveva privilegiato i cosiddetti luoghi santi – come testimoniano l’Itinerarium Burdigalense del 333, l’Itinerarium Egeriae, databile verso la fine del IV secolo, l’ Itinerarium Antonini Placentini, databile intorno al 560, il De Locis sanctis di Adamnano di Iona per un viaggio svoltosi fra 679 e 682, l’Itinerarium di Bernardo il Bretone per un viaggio databile fra 866 e 870 –, a partire dal VI secolo investe anche Roma, con un progressivo aumento del flusso dei pellegrini fino al X secolo. Lo testimoniano altre guide e resoconti di viaggio: l’Itinerarium Einsidlense di età carolingia, l’Itinerarium dell’arcivescovo di Canterbury, probabilmente del 990, e soprattutto le Scholae peregrinorum, luoghi di accoglienza fondati dalle colonie di cittadini stranieri residenti a Roma per dare ospitalità e aiuto a pellegrini e viandanti delle diverse nazioni, da quella dei Sassoni a quelle dei Frisoni, dei Franchi, degli Ungheresi e così via.
In Occidente la Chiesa, è ormai chiaro, è l’unica istituzione stabile in grado di farsi carico dell’assistenza. I concili che si susseguono fra VI e VII secolo e, poi, i capitolari carolingi disciplinano il flusso delle donazioni private e regolamentano la beneficenza pubblica. Ai poveri tocca la quarta parte delle collette, la terza sulle decime, il ricavato del digiuno. Fra VII e IX secolo però declina la carità episcopale e termina la cosiddetta età dei vescovi. Tocca ad altre istituzioni, i monasteri, anche questi di derivazione orientale, farsi carico dell’assistenza a poveri e pellegrini. Cesario di Arles mutua da Giuliano Pomerio con la mediazione delle Conlationes di Cassiano le consuetudini della carità monastica – fra l’altro le diaconie, di cui si è già detto –, e le diffonde, con l’esempio dei monasteri di Lérins (410) e poi quello di san Vittore di Marsiglia (415). Quasi in contemporanea la Regola Magistri fra 500 e 529 e la Regola di Benedetto da Norcia disciplinano forme e modi della ospitalità e della carità monastica. La Regula di san Benedetto supera quella certa diffidenza verso l’ozioso e il vagabondo che ancora traspare nella Regula Magistri e prescrive che si ponga gran cura nell’accogliere i poveri e i pellegrini perché in loro si accoglie il Cristo. Benedetto di Aniane verso l’816, riprendendo e coordinando le regole precedenti precisa ulteriormente le modalità dell’accoglienza e insiste soprattutto sulla figura del portinaio, il primo ad accogliere quanti chiedono ospitalità e soccorso. I poveri, gli indigenti, gli stranieri, i pellegrini, compaiono nella carta di fondazione dell’abbazia di Cluny (909), centro propulsore del rinnovamento monastico del X secolo: nei loro confronti, vi si scrive, vanno praticate tutte le opere di misericordia.
Povero di Cristo volontario, il monaco dona quel che può al povero involontario, lo conforta con gioia, allegria e liberalità, gli lava i piedi (mandatum), gli offre alloggio e ospitalità con una liturgia dell’accoglienza che inizia alla porta del convento, vera e propria frontiera, quasi spartiacque, fra il mondo, vero o presunto dell’abbondanza, e quello dell’indigenza. Una porta che il povero varca spesso per la refectio pauperum, per essere nutrito, o per essere alloggiato nell’hospitale pauperum almeno per un giorno e una notte come era consuetudine a Cluny. Una porta che anche il monaco o i suoi aiutanti potevano varcare: sempre a Cluny, per portare solo un esempio, si praticava settimanalmente la visita ai poveri ammalati che gravitavano attorno all’abbazia.