pelle
Il sostantivo è usato nella Commedia (spesso in rima) e in due luoghi del Fiore. Come si deduce dai vari contesti (anche in Fiore LXXXI 12 il lupo di sua pelle non gittate, e XCVII 1 Chi della pelle del monton fasciasse / il lupo), il termine conserva in D. le caratteristiche di vocabolo ‛ comico '.
Per quanto riguarda il senso, si ricordi che già il latino pellis indicava indifferentemente la " cute " che ricopre gli uomini e quella degli animali (di ogni tipo di animale, peloso o squamoso che fosse). Quest'uso comprensivo del sostantivo, rimasto nell'italiano medievale, si riscontra nel linguaggio dantesco: cfr. If XXV 110 la sua pelle [del serpente] si facea molle / e quella di là [del peccatore] dura. P. è anche definito il rivestimento peloso, la " pelliccia " gaetta (I 42) e dipinta (XVI 108) della lonza. Manto (XX 54) ha il viso rivolto all'indietro e quindi ha di là ogne pilosa pelle, contrariamente agli altri esseri umani. In If XXXIV 60 la schiena di Giuda rimane spesso de la pelle tutta brulla, a causa dei feroci graffi di Lucifero; l'espressione ricorda, per l'efficacia, Cerbero che graffia li spirti ed iscoia ed isquatra (VI 18).
Ma l'uso più pregnante di p. è in due luoghi del canto XXIII del Purgatorio. L'inaudita magrezza dei golosi è tale che da l'ossa la pelle s'informava (v. 24): " la pelle con tutte e tre le sue tonache era venuta alla maggior possibile tenerità, cotalché assottigliandosi anche un minimo che, ella era lacerata e perduta " (Cesari).
Molti commentatori suggeriscono passi biblici cui D. potrebbe essersi ispirato: si veda per esempio Iob 19, 20 " Pelli meae, consumptis carnibus, adhaesit os meum ". La p. dei golosi non solo è priva di carne, tanto da essere definita buccia strema (al v. 25), ma anche ‛ scolorata ' dalla scabbia: l'asciutta scabbia / ... mi scolora... la pelle (v. 50: per il testo cfr. Petrocchi, ad l.); anche qui evidente è l'insistenza, in apparenza impietosa, con cui D. considera la condizione di Forese: " Forese: vorrebbe non rammentarla, non accennandovi, ma come, se gli occhi di Dante non fanno che fissarsi sopr'essa? " (Pietrobono).
Si discosta appena da quello proprio l'uso di p. in Pg XVII 3, dove D. afferma che le talpe vedono per pelle, cioè attraverso " una membrana sottile che sta loro dinanzi agli occhi " (Venturi); quindi, vedono male (e nel Medioevo non si sapeva che questa " pellicola " è forata al centro). Con un breve trapasso semantico p. passa a significare " manto di pelliccia ", " cappa "; essa non è vista più sull'animale, ma come " cuoio " (v.), conciata, divenuta " rivestimento " e abito per gli uomini. Si veda Pd XV 116 vidi quel d'i Nerli e quel del Vecchio / esser contenti a la pelle scoperta: la p. di cui si rivestono gli antichi, sobri Fiorentini, è un mantello rozzo e umile: " portavano indosso le pelli senza panno di sopra: non si facevano le guarnacce, né i mantelli di scarlatto foderati di vaio, come si fa oggi " (Buti). Notevole per il forte sarcasmo il passo di Pd XXI 134: i mantelli, le pellicce, i paludamenti dei prelati che vanno a cavallo, tanto ampi da scendere sui palafreni, sono " gualdrappe " che nascondono insieme cavallo e cavaliere, sicché due bestie van sott'una pelle: " sono coperte ambedue di una cardinalesca cappa " (Ottimo). L'efficacia della rappresentazione è dovuta al fatto che p., pur significando appunto " manto ", non ha del tutto perduto il valore originario: D. ci presenta dunque uno strano e ridicolo mostro, mezzo uomo e mezzo animale, ricoperto da un'unica pelle.
In If XVII 11 la faccia di Gerione benigna avea di fuor la pelle; è probabile che qui p. assuma valore traslato e significhi " aspetto esteriore ", come afferma il Sapegno: " non sembra accettabile l'interpretazione del Porena, che intende... la pelle benigna in senso materiale, come ‛ pelle delicata e tenera dell'uomo in confronto alla pelle dura del serpente '. Qui ... pelle ... starà per ‛ apparenza, aspetto, sembiante ' ".
In Pd XXVII 136 si fa la pelle bianca nera / nel primo aspetto de la bella figlia / di quel ch'apporta mane e lascia sera (sembra certo [cfr. Barbi, Problemi I 292-293] che la bella figlia del sole sia Circe, da Aen. VII 11; ma v. anche CIRCE), il sostantivo è usato per indicare, con la trasformazione di bianca in nera, " una corruzione profonda " (Vandelli). Fra i moderni, dissente da questa conclusione il Sapegno; pur dando ampio spazio all'opinione del Barbi e di altri, ed essendo d'accordo nel riconoscere che la p. che si fa ... nera non è da riferirsi alla bella figlia del sole, accetta come la più persuasiva la spiegazione di Benvenuto (per il quale però la ‛ figlia del sole ' è la " natura umana "): " cum primo puer incipit ire ad solem pellis eius alba cito denigratur ".