Peleo (Peleus)
Re di Ftia in Tessaglia, era figlio di Eaco e di Endeide e padre di Achille. Sulla sua figura s'innestano moltissime tradizioni che qui non è possibile nemmeno riassumere.
Si può dire che ebbe come fratelli Telamone e Foco, il quale ultimo, eccellendo su tutti per l'abilità negli esercizi fisici, destò la gelosia dei fratelli che ne deliberarono la morte (secondo alcuni accidentale). Eaco, scoperto l'assassinio, bandì i due figli lontano da Egina: Telamone si rifugiò a Salamina, P. a Ftia, presso Eurizione, da cui ottenne in sposa la figlia Antigone e un terzo del regno. Fu perseguitato prima da Psamate, madre di Foco, poi da Acaste, figlio di Pelia, alla cui corte si era rifugiato dopo aver ucciso accidentalmente durante una partita di caccia Eurizione, e infine da Astidamia che si era innamorata di lui senza essere corrisposta. Ma si vendicò crudelmente di tutti.
Il fatto più saliente legato alla figura di P. sono le sue nozze con Tetide, figlia del dio marino Nereo. Aspiravano alla mano di Tetide Zeus e Posidone, ma, avendo Themis (o Prometeo) predetto che il figlio dell'eventuale unione sarebbe stato più forte del padre, vi avevano rinunciato e avevano stabilito di darla in sposa a un mortale e precisamente a Peleo. Le nozze ebbero luogo sul monte Pelio, alla presenza degli dei, mentre le muse intonavano l'epitalamio. Tra i doni di nozze si ricordano la lancia di Chirone e i due cavalli immortali di Posidone, Balio e Xanto, che nell'Iliade troviamo al carro di Achille, l'ultimo dei figli che P. ebbe da Tetide e il solo non ucciso dalla madre. Molte anche le vicende connesse con l'ultimo periodo della vita di P.: secondo alcuni, costretto a fuggire da Ftia, si sarebbe rifugiato nell'isola di Cos.
D. ricorda P. in Cv IV XXVII 20, al termine della sua argomentazione che l'anima nobile ne la senetta sì è prudente, sì è giusta, sì è larga, e allegra di dir bene in prode d'altrui e d'udire quello, cioè che è affabile (§ 2). Egli ravvisa (§ 17 ss.) nella favola di Eaco e Cefalo, narrata da Ovidio (Met. VI 472-662, ripresa e compendiata da Lattanzio Placido Narrat. fab. Metam. Ovidii VII 26), un esempio significativo dell'applicazione delle quattro virtù necessarie alla senettude, rispecchiandone fedelmente parecchi passi e concludendo che perché più memorabile sia l'essemplo che detto è, dice [Ovidio] di Eaco re che questi fu padre di Telamon, [di Peleus] e di Foco, del quale Telamon nacque Aiace, e di Peleus Achille (§ 20). D. riprende qui Ovid. Met. VII 475-479 " Turba ruit tantaeque virum cognoscere famae / expetit: occurrunt illi Telamonque, minorque / quam Telamon Peleus et proles tertia Phocus. / Ipse quoque egreditur, tardus gravitate senili, / Aeacus; et quae sit veniendi causa requirit ". Questo passo, insieme con Met. XII 624, dove Aiace è detto figlio di Telamone, e 619, dove Achille è detto figlio di P. (cfr. Fulgenzio Planciade Mythol. III 7), giustifica l'intervento operato già dagli Editori Milanesi sul testo dantesco e accettato da Busnelli-Vandelli come l'unico possibile rispetto alla tradizione dei codici.
A P. il poeta allude in If XXXI 4-6, quando, avviandosi verso il pozzo centrale di Malebolge, riassume la situazione psicologica rappresentata in XXX 130-148, dove Virgilio prima rimprovera e fa arrossire D. e poi lo rasserena: così od'io che solea far la lancia / d'Achille e del suo padre esser cagione / prima di trista e poi di buona mancia (XXXI 4-6). Il nome di P. ricorre anche nei versi di Orazio che D. cita in Ep XIII 30 (Ars poet. 93-96).
Già in Ovidio si favoleggiava che la lancia di P., ereditata poi da Achille, col primo colpo feriva e con quello successivo risanava la ferita (Met. XIII 171-172, Trist. V II 15-16, Rem. am. 47-48 [" Pelias hasta "], e cfr. Her. III 126). Ma non è possibile indicare in questi passi la fonte di Dante. L'immagine ovidiana era già diventata un luogo comune della poesia provenzale e italiana anteriore a D., passando a significare gli effetti delle ferite d'amore. Inoltre, D. fa un riferimento molto vago (od'io) che, come nota il Renucci (p. 181 n. 617), si addice meglio a un tema leggendario di cui il poeta ebbe notizia per sentito dire, che a una lettura classica. Bisognerà quindi supporre l'influenza della tradizione rettorica e della poesia lirica medievale (questo τόπος è presente, oltre che in Bernard de Ventadorn, anche in Petrarca Rime LXXV 1-2, CLIX 12, CLXIV 11, CLXXIV 7-8, ecc.; e ancora, tra gli altri, in Chiaro Davanzati " Così m'aven com' Paläùs sua lanza, / ca del suo colpo om non potea guerire / mentre ch'un altro a simile sembianza / un'altra fiata non si fiea ferire ", e Il mare amoroso: " Ma quella mi fu lancia di Pelùs, / ch'avëa tal vertù nel suo ferire, / ch'al primo colpo dava pene e morte / e al secondo vita ed allegrezza: / così mi die' quel bacio mal di morte, / a se n'avesse un altro, ben guerira ", vv. 103-108).
Bibl. - Oltre ai commenti al Convivio e alla Commedia: P. Toynbee, Dante's Reference to the Spear of Peleus, in " Modem Language Quarterly " I (1898) 58-59, ristampato con aggiunte in D. Studies and Researches, 137-141 (recens. anonima in " Bull. " VI [1898-99] 52); E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 302-303; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 181 n. 617. Sulla lancia di P., cfr. M. De Riquer, La lanza de Pellés, in " Romance Philology " IX (1955) 187-196; A. Pézard, Manche et mancia, in Studi in onore di A. Monteverdi, Modena 1959, II 571.