PELAGIANISMO
. L'espressione pelagianismo (o pelagianesimo) è adoperata di solito per indicare non solamente la dottrina di Pelagio o gli errori che in essa furono segnalati e condannati dalla Chiesa, ma anche per individuare un momento determinato della storia ecclesiastica nel quale la particolare concezione della vita religiosa difesa da Pelagio, Celestio e Giuliano (v.) d'Eclano, fu causa d'una violenta polemica teologica (la controversia pelagiana), destinata, soprattutto per opera di Sant'Agostino, a salvare la piena originalità religiosa del cristianesimo contro il tentativo pelagiano di dare aspetto religioso e cristiano a una concezione assolutamente razionalistica, autonomistica, della vita etica: concezione che si risolveva sostanzialmente, se non formalmente, in una negazione dell'idea cristiana della salvezza conseguibile attraverso i meriti e le virtù redentrici del Cristo, e che quindi non lasciava posto, a causa dei suoi stessi presupposti individualistici, alla concezione della Chiesa come amministratrice dei sacramenti.
Pelagio (il nome corrisponde al celtico Morgan, "uomo del mare") era un monaco britanno, probabilmente di origine irlandese. Lo troviamo a Roma, nei primi anni del sec. V, personalità eminente nella società romana alla quale si era imposto così per doti personali, come per la fama che si era procacciata con l'austerità della sua vita. Uomo di grande ingegno, seppure di non grandissima cultura, Pelagio parlava un latino che tradiva la sua origine barbarica e, sembra, conosceva il greco solo molto superficialmente. Era in corrispondenza con Paolino di Nola e frequentava la casa del senatore Pammachio e quella degli Anici Probi. Una delle opere più significative di Pelagio, anzi, è proprio quella famosa lettera che egli scrisse in occasione della monacazione di Demetriade, figlia di Giuliana, nuora di Anicia Faltonia Proba (in Patrol. Lat., XXX, coll. 15-45). Da questa lettera, scritta in Africa verso il 412, e dal commento latino che Pelagio scrisse (a Roma, verso il 410) alle epistole paoline (ed. a cura di A. Souter, Pelagius' expositions of Thirteen Epistles of St. Paul, vol. IX dei Texts and Studies di J. Armitage Robinson; 1, introduzione; 11, testo, Cambridge 1922 e 1926) è facile ricostruire le idee di Pelagio nel momento in cui la sua personalità venne in urto con quella di S. Agostino.
È a priori sintomatico che, secondo l'opinione di A. Souter, Alfred J. Smith e soprattutto di E. Buonaiuti, Pelagio avrebbe scritto il suo commento (per il quale si valse dei commenti scritti da S. Agostino prima dell'episcopato, da Origene, da Teodoro di Mopsuestia e dall'Ambrosiastro) in contrapposizione a quello, appunto, dello stesso Ambrosiastro (v.).
Nella Lettera a Demetriade P. illustra alla sua giovane amica l'essenziale bontà della natura umana, di per sé stessa capace di praticare il bene, anche all'infuori della rivelazione cristiana (come prova luminosamente la vita di tanti filosofi pagani), in forza del suo libero arbitrio che la rende capace di scegliere, volontariamente, il bene ed il male: "est enim, inquam, in animis naturalis quaedam, ut ita dixerim, sanctitas, quae veluti in arce animi praesidens, exercet mali bonique iudicium". Il male non è dunque inerente alla natura umana. Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, signore di tutti gli esseri creati, difeso contro le forze brute della natura dalla sua ragione e dalla sua prudenza, le quali permettono, solo all'uomo, di riconoscere il creatore dell'universo. Ma anche di fronte a Dio l'uomo è perfettamente libero: "non pareo Deo, sed assentior; ex animo illum, non quia necesse, sequor". Prima cura di chi vuole essere gradito a Dio è quella di indagarne la volontà e di conformarsi, con un atto volontario, razionale, dello spirito, a questa, nelle proprie azioni. Non vi è virtù all'infuori di questa, né ci sono beni che non nascano dal cuore (giacché ci è straniero tutto che viene dall'esterno): beni che chiunque cerca trova, e che chiunque trova mai più potrà smarrire; ma che non possiamo rintracciare o perdere senza l'intervento della volontà. "In his ergo iure laudanda, in his merito praeferenda es, quae nisi ex te et in te esse non possunt". In perfetta armonia con questi presupposti filosofici, Pelagio, ricalcando, spesso alla lettera, il trattatello plutarcheo Περὶ παίδων ἀγωγῆς, esorta Demetriade alla pratica quotidiana della virtù, giacché "consuetudo est, quae aut vitia aut virtutes alit", all'ascesi, al disprezzo della morte, all'introspezione, alla vigilanza dei proprî pensieri, giacché il pensiero è insieme "fons vitae et origo peccandi".
Non è difficile intendere in qual maniera un programma morale che poneva l'individuo umano come centro unico della vita etica e libero creatore del bene e del male dovesse interpretare i dati più caratteristici delle dottrine soteriologiche paoline. Soprattutto interessante, in questo senso, è il commento alla lettera Ai Romani, dove l'intento polemico contro l'Ambrosiastro si rivela più chiaramente. Pelagio si sforza di attenuare quanto più può le tesi soteriologiche dell'apostolo. Là dove questo parla della redenzione "per fidem sine operibus legis" egli si affretta a segnalare come si sia abusato di questo passo da parte di coloro che "ad destructionem operum iustitiae" affermano che la sola fede può bastare al battezzato; dove Paolo afferma che Cristo è risorto "per giustificarci", egli intende "per confermare la giustizia dei credenti". Il peccato di Adamo non ha pregiudicato in nulla la bontà della natura umana, ma solo ha offerto all'uomo un esempio di peccato: come seguendo l'esempio di Adamo, l'uomo ha peccato e si è allontanato da Dio, così seguendo il luminoso esempio di Cristo, l'uomo aveva compreso di nuovo quale fosse la retta via del bene e si era riconciliato con Dio. Dunque negazione del peccato originale, almeno come colpa che ha irrimediabilmente pregiudicato, nel peccato di uno, le capacità al bene operare dell'umanità tutta. Contro coloro che affermano la trasmissione del peccato Pelagio osserva che se il peccato di Adamo nocque anche ai non peccanti, anche la giustizia di Cristo giova ai non credenti. Se il battesimo, del resto, monda da quel delitto, coloro che nascono da due battezzati devono essere immuni da questo peccato: giacché non avrebbero potuto trasmettere ai figli quello che essi non ebbero. È ingiusto che l'anima nata oggi, "non ex massa Adae", porti un peccato altrui così antico; Dio, il quale rimette all'uomo i peccati a lui proprî, non gli può imputare gli altri. Ben lungi dal concepire il peccato come qualche cosa d'immanente alla vita associata degli uomini, Pelagio interpreta il noto passo di Paolo (Rom., VII, 15-17) affermando che il peccato abita, sì, in noi, ma "quasi hospes et quasi aliud in alio; non quasi unum, ut accidens scilicet, non naturale" giacché la natura umana "potrebbe non peccare, se volesse" e la predestinazione di Dio è solo prescienza.
Quale la genesi di un simile atteggiamento religioso? Fino dal tempo di Mario Mercatore si sono segnalate le affinità fra il pensiero di Pelagio e quello di Teodoro di Mopsuestia, il commento del quale alle epistole minori di San Paolo non fu ignoto, sembra, a Pelagio. Il quale avrebbe avuto conoscenza delle dottrine di Teodoro attraverso un prete siro, Rufino (da non confondersi col famoso avversario di San Girolamo), da lui incontrato in casa di Pammachio. Ma questi avvicinamenti, come quelli che sono stati stabiliti fra pelagianesimo e stoicismo, svisano, anziché chiarire, la questione. Il modo di concepire la vita religiosa difeso da Pelagio non era un atteggiamento a lui proprio, ma era, in fondo, l'atteggiamento sia pure tendenziale di larghi strati della popolazione cristiana dì allora. Pelagio non è un iniziatore, ma piuttosto l'espressione di una tendenza diffusa indipendentemente da ogni propaganda diretta: altrimenti non si comprenderebbe né la simpatia con la quale le idee di Pelagio furono accolte dovunque, né l'ardore con il quale S. Agostino si accinse a combatterle.
Si racconta che, udendo un vescovo pronunciare la famosa invocazione a Dio che è come il motivo centrale del libro X delle Confessioni di S. Agostino (da quod iubes et iube quod vis), Pelagio, allora a Roma, si mostrasse profondamente scandalizzato; ma, per quanto S. Agostino dovesse esser informato di questo, l'episodio rimase senza seguito. A complicare le cose, sopraggiunse l'invasione dei Goti di Alarico. Pelagio, seguendo l'esempio della maggioranza, traversò il mare e cercò scampo prima in Sicilia e poi in Africa dove giunse verso il 410-411. Sbarcò a Ippona, ma non s'incontrò con S. Agostino: lo vide, di sfuggita, a Cartagine e proseguì per la Palestina lasciando a Cartagine il suo alter ego, Celestio, un avvocato romano da lui conosciuto a Roma e che l'aveva seguito a Cartagine. Spirito battagliero, a differenza del suo maestro, e sottile dialettico, Celestio, che vantava nobile nascita e una certa dose di ambizione, non rifuggiva dalla polemica, ma sembrava anzi esservi attratto da particolarissima inclinazione. Le sue idee, manifestate apertamente, fecero del chiasso e non passò molto tempo dopo il suo arrivo a Cartagine che un regolare ricorso di eresia fu presentato contro di lui da un diacono milanese residente in Africa, Paolino (v.), il biografo di S. Ambrogio. Il concilio provinciale, nonostante l'assenza di S. Agostino, si riunì subito (411) e condannò come eretiche sei proposizioni di Celestio estratte da un suo scritto Contra traducem peccati e inserite da Paolino nel suo libello di accusa.
Secondo le proposizioni incriminate, Adamo era stato creato mortale indipendentemente dal suo peccato il quale, quindi, aveva danneggiato lui solo. La responsabilità del peccato spetta dunque solo all'uomo: vi furono quindi uomini senza peccato anche prima dell'avvento di Cristo, ed anche quelli che vivevano sotto l'impero della Legge del Vecchio Testamento pervennero al Regno; i bambini, appena nati, sono in quello stesso stato in cui fu Adamo prima del peccato; né la morte di Adamo né il suo peccato, né la morte e la risurrezione di Cristo sono rispettivamente cause alla dannazione e alla salvezza del genere umano. Il concilio ebbe buon giuoco di opporre alle idee di Celestio la pratica ab immemorabili seguita dalla Chiesa di battezzare i neonati in remissionem peccatorum. Celestio, non potendo sfuggire alla forza dell'argomento, non negò l'utilità del battesimo ai neonati, il valore del quale egli peraltro restringeva a quello di un atto d'iniziazione alla vita cristiana, ma sulla questione della trasmissione del peccato rimase fermo sulle sue posizioni affermando essere questione aperta alla discussione e tutt'altro che decisa.
E il concilio lo scomunicò. Celestio tentò, pare, il ricorso a Roma, ma poi pensò meglio di allontanarsi da Cartagine. Rifugiatosi a Efeso, vi fu ordinato prete, nonostante la recente condanna.
Questo fatto non deve stupire: il cristianesimo orientale andava polarizzando sempre più i suoi interessi verso i più ardui problemi della metafisica e, come già altra volta l'occidente aveva considerato le polemiche ariane quasi come merce d'importazione, così ora l'Oriente si preparava ad assistere con una certa indifferenza alla controversia pelagiana, estraneo a quei problemi morali relativi all'uomo e al suo posto nel mondo che furono vita e tormento del cristianesimo latino. Né basta. C'era qualche cosa nelle tradizioni del cristianesimo greco che lo portava a simpatizzare, se mai, col limpido razionalismo etico di Pelagio, con il suo rigido intellettualismo, con il suo programma ascetico tutto permeato di orgogliosa certezza. Sta di fatto che Pelagio, giunto a Gerusalemme, seppe presto conciliarsi il favore di molti e trovò nello stesso vescovo Giovanni un deciso patrono.
Ma intanto anche Sant'Agostino era entrato in lizza: prima quasi con un certo ritegno come timoroso di attaccare direttamente un uomo, come Pelagio, col quale era in rapporti diretti e che godeva tante simpatie, poi, dopoché gli giunse fra le mani (circa il 412) il commento di Pelagio a San Paolo, più apertamente. Dovette infine accorgersi che il male era ben più grave; intuì chiaramente che la stabilità stessa del dogma ecclesiastico era in giuoco, e, appoggiato quasi solamente dalla maggioranza dell'episcopato africano, iniziò quella polemica aperta (v. l'elenco delle opere antipelagiane di Agostino, nella loro successione cronologica, in agostino, santo) destinata a chiarire una volta per sempre l'incompatibilità della visione religiosa pelagiana con i dati centrali della rivelazione cristiana.
In Palestina, del resto, le ostilità erano state già iniziate da S. Girolamo (Lettera a Ctesifonte). Quando nel 415 giunse a Betlemme Paolo Orosio inviato da Agostino a Girolamo, la polemica s'inasprì, e il vescovo Giovanni, di fronte alle precise accuse di Orosio, si vide costretto (luglio 415) a investire della questione l'assemblea del clero. Pelagio, molto abilmente, uscì dal giudizio vincitore morale. Ma Girolamo e Orosio non disarmarono: associatisi i due vescovi Eros di Arles e Lazzaro di Aix, profughi in Palestina, indussero questi a presentare un regolare ricorso. Al concilio di Diospoli (Lidda) del dicembre 415 i due accusatori non si presentarono e Pelagio fu riconosciuto degno della comunione, pur essendo stato costretto ad anatematizzare chiunque sostenesse le proposizioni condannate a Cartagine. A prezzo di una menzogna e speculando sul fatto che nessuno dei vescovi presenti sentiva veramente l'importanza delle questioni dibattute, Pelagio aveva trionfato nuovamente. I monasteri latini di Betlemme abitati da Girolamo e dai suoi amici furono assaliti e incendiati: a stento Girolamo si poté salvare. Papa Innocenzo fu investito della questione, ma la sua risposta, pur deplorando gli eccessi permessi dal vescovo di Gerusalemme, non entrò nel merito: che Girolamo, se lo avesse ritenuto opportuno, presentasse un ricorso in regola. In Africa si radunarono due concilî (416), a Cartagine e a Milevi: le sentenze, che rinnovarono la condanna del 411 ma non toccavano personalmente Pelagio, furono comunicate a Innocenzo. Furono spedite lettere a Innocenzo, a Ilario di Narbona e allo stesso Giovanni di Gerusalemme. Con tre lettere distinte Innocenzo rispondeva il 28 gennaio 417: la dottrina degli africani era approvata, Pelagio e Celestio erano scomunicati "apostolici vigoris auctoritate" (v. le lettere di Innocenzo in Collectio Avellana, XLI-XLIV). Agostino inneggiò alla vittoria: "causa finita est: utinam aliquando finiatur error". Ma le controversie non cessarono. Il 12 marzo 417 Innocenzo moriva e il 18 gli succedeva Zosimo. Amicissimo di Patroclo di Arles, che deteneva irregolarmente la sede episcopale dalla quale era stato cacciato (per motivi esclusivamente politici) Eros, l'accusatore di Pelagio, il nuovo papa, che per di più, a quanto sembra, era greco od orientale d'origine e si rivelerà presto caldo sostenitore delle prerogative della sede apostolica, era, per questi motivi, inclinato a guardare con una certa diffidenza l'atteggiamento dei vescovi africani. Certo è che quando ebbe udito le ambigue dichiarazioni di Celestio, che, da Costantinopoli, dove si era trasferito di recente, era venuto spontaneamente a Roma per giustificarsi, ed ebbe letto sia l'abilissimo libello che Pelagio, per difendersi, aveva inviato a Innocenzo (Patrol. Lat., XLV, coll. 1716 segg.), sia la lettera di Praulio nuovo vescovo di Gerusalemme accompagnante un trattato di Pelagio De libero arbitrio, scrisse ai vescovi. africani due lettere (XLV e XLVI della Collectio Avellana), esprimendosi in modo estremamente lusinghiero per Pelagio e Celestio, non risparmiando i loro avversarî, asserendo che i due erano evidentemente vittime di calunnie, che l'ortodossia di Pelagio non poteva mettersi in dubbio; per Celestio il papa non intendeva dare una precipitata sentenza e concedeva due mesi di tempo per presentare accuse contro di lui. Poco dopo fu anche citato a Roma Paolino di Milano, il primo accusatore di Celestio, perché sostenesse di nuovo la sua accusa; ma Paolino, sentendo il vento infido, si sottrasse (Libello di Paolino, in Collectio Avellana, XLVII). Gli africani non disarmarono: un primo concilio di Cartagine (autunno 417) giudicò insufficienti le ritrattazioni di Celestio e si richiamò nuovamente alla sentenza di Innocenzo. Le decisioni furono comunicate a Zosimo, il quale, per quanto facesse chiaramente intendere che esse (v. la lettera in Collectio Avellana, L) costituivano un'infrazione all'autorità della Santa Sede, mostrò di tornare un po' sui suoi passi: nulla di definitivo era stato sancito ed egli era lieto di udire il parere degli africani. I quali, quando (il 29 aprile 418) giunse a Cartagine la lettera del papa, avevano già convocato per il 1° maggio il concilio generale dell'Africa. Furono approvati nove canoni (Patrol. Lat., LVI, col. 486 seg.) redatti in modo tale da evitare ogni equivoco possibile.
Era condannato chiunque avesse detto che Adamo era morto "non peccati merito sed necessitate naturae" e che i bambini non erano battezzati in "remissionem peccatorum"; chi affermava l'esistenza "in regno coelorum" di un "aliquis medius aut ullus alicubi locus ubi beate vivant parvuli qui sine baptismo ex hac vita migrarunt"; chi affermava che la grazia aveva valore "ad solam remissionem peccatorum, quae iam commissa sunt, non etiam ad adiutorium ut non committantur"; chi considerava la grazia come illuminazione della mente "ut sciamus quid appetere et quid vitare debeamus" e non come una forza "ut facere diligamus atque valeamus" ciò che abbiamo conosciuto doversi fare; chi definiva la grazia come un aiuto "ut quod facere per liberum iubemur arbitrium facilius possimus implere".
Le decisioni furono inviate al papa con una lettera. Ma Agostino e il vescovo di Cartagine avevano pensato bene di spiegare un'azione su due fronti e, prima ancora che il concilio si aprisse, avevano fatto pressione alla corte di Ravenna perché intervenisse. Con un rescritto del 30 aprile 418 l'imperatore Onorio ingiungeva al prefetto del pretorio di espellere da Roma Pelagio (in realtà rimasto in Oriente) e Celestio, i quali con le loro dottrine turbavano la pace della città eterna. Non ci è dato sapere come Zosimo giudicasse il modo di procedere dei vescovi africani: certo comprese che un editto imperiale di quel genere non lasciava più adito alla discussione. Redasse un ampio documento (la famosa Tractoria, purtroppo perduta, salvo un frammento) nel quale Pelagio e Celestio erano scomunicati e le loro dottrine condannate: tutti i vescovi dell'Occidente e dell'Oriente erano invitati a sottoscrivere la condanna.
Celestio, sembra, fuggì da Roma; Pelagio, in Oriente, fu condannato da un concilio presieduto da Teodoto d'Antiochia: espulso dalla Palestina, non abbiamo più notizie di lui. Ma anche le resistenze alla Tractoria di Zosimo furono vivaci mostrando chiaramente come il male fosse diffuso. Così, per tacere d'altro, molti vescovi del patriarcato d'Aquileia presero posizione nettamente pelagiana. Così 18 vescovi dell'Italia meridionale e della Sicilia, capeggiati da Giuliano, vescovo di Mirabella Eclano (Benevento) amico di Paolino di Nola e dello stesso S. Agostino, si rifiutarono di sottoscrivere la Tractoria e furono deposti ed esiliati. Ne nacque quella polemica fra Giuliano e S. Agostino che doveva mettere in luce l'estremismo di certe posizioni agostiniane (v. i due scritti di S. Agostino Contra Iulianum pelagianum e Opus imperfectum contra Iulianum, interrotto al VI libro per la morte di S. Agostino) destinate a provocare la reazione di alcuni ambienti ecclesiastici della Gallia meridionale (v. semipelagianismo). Ma, oltreché in Gallia, dove lo stesso Sulpicio Severo si lasciò per un momento sedurre dalle idee pelagiane, il pelagianismo si diffuse al di là della Manica, in Britannia per opera di Fastidio e di Agricola (Germano di Auxerre s'incaricherà di ricondurre l'isola all'ortodossia) e in Irlanda. Del resto l'accoglienza che Giuliano e i suoi compagni ricevettero in Oriente, prima presso Teodoro di Mopsuestia quindi a Costantinopoli presso Nestorio, mostra chiaramente come l'Oriente simpatizzasse per loro.
Bibl.: Oltre quella citata sotto agostino, santo (I, pp. 927-928 e App., p. 16), v.: F. Loofs, in Prot. Realencyclopädie, XV, Tubinga 1904, pp. 747-774 (con la bibl. precedente al 1900); H. Zimmer, Pelagius in Irland, Berlino 1901; G. Morin, Pélage ou Fastidius, in Revue d'histoire ecclésiastique, V (1904); J. B. Bury, The origin of Pelagius, in Hermathena, XIII (1905), pp. 26-35; A. Brückner, Quellen zur Geschichte des pelagianischen Streites, in Sammlung ausgewählter kirchen- und dogmengeschichtlicher Quellenschriften, s. 2ª, Tubinga 1906, fasc. 7; G. Mercati, Some new fragments of Pelagius, in Journal of theological studies, VIII (1907), pp. 526-529 (cfr. A. Souter, ibid., XII, 1911, pagine 32-35); A. J. Smith, The Latin sources of the com. of Pelagius on the epistl. to the Rom., in Journal of theological studies, XIX (1918), pp. 162-230; XX (1919), pp. 55-65, 127-177; XXXI (1930), pp. 21-35; M. Zappalà, Stoicismo e cristianesimo nell'etica pelagiana, in Bollettino di studi storico-religiosi, II (1922), pp. 51-65; J. Chapman, Pélage et le texte de S. Paul, in Revue d'histoire ecclesisatique, XVIII (1922), pp. 469-81; XIX (1923), pp. 25-42 (Pelagio ha adoperato un testo latino in uso in Gran Bretagna nel sec. IV); A. Souter, The earliest Latin Commentaries on the epistles of St. Paul, Oxford 1927; E. Buonaiuti, Pelagio e l'Ambrosiastro, in Ricerche religiose, IV (1928), pp. 1-17; id., Il cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1928, pp. 369-80; A. Berthoud, La controverse pélagienne; un conflit psychologique entre l'Orient et l'Occident, in Revue de Théologie et de Philosophie, 1929, pp. 134-135; K. Müller, Der heilige Patrick, in Nachrichten von der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen. Philologisch-historische Klasse, V (1931), p. 113 e segg. (sulla patria di Pelagio); G. de Plinval, Recherches sur l'oeuvre littéraire de Pelage, in Revue de Philologie, VIII (1934), pp. 9-42 (per la ricostruzione dell'opera letteraria di Pelagio si rinvia a quest'ottimo studio avvertendo che non tutte le conclusioni dell'autore relative a scritti contenuti fra gli apocrifi geronimiani e agostiniani, i quali andrebbero attribuiti a P., possono essere senz'altro accettate. Vedi, per es., le osservazioni di U. Koch, Pelagio e la lettera agli Ebrei, in Religio, XI, 1935, pp. 21-30).