PEDAGOGIA
(gr. παιδαγωγία).
La pedagogia greca. - La riflessione scientifica sul problema dell'educazione si sveglia in Grecia coi sofisti, con i quali s'inizia propriamente il pensiero pedagogico in Occidente. Essi spostano l'interesse speculativo dalla natura all'uomo, inteso come pura soggettività empirica, come individuo. Tutto aveva contribuito, nel periodo che li aveva immediatamente preceduti, a esaltare l'individuo, contrapponendolo al costume, alla tradizione, alla legge: l'interno dissolvimento del naturalismo con il congiunto scetticismo, il mirabile rigoglio di tutte le forze della grecità in particolar modo ad Atene dopo la vittoria sopra i Persiani, il trionfo delle libertà comunali e le lotte politiche che ne erano conseguite, nelle quali avevano ottenuto un peso decisivo l'abilità oratoria e l'arte della persuasione. La tesi educativa fondamentale dei sofisti, che ripudiavano ogni norma assoluta di giudizio, proclamando che "di tutte le cose è misura l'uomo", e che "quello che pare a ciascuno, quello anche è", che non già la verità si può insegnare, perché non esiste, ma la prudenza, la capacità di procurarsi l'utile, e che lo scopo dell'educazione non è già di foggiare individui conformi ai modelli trasmessi dalla tradizione, sibbene di sostituire gli abiti che possono riuscire nocivi con abiti che pongano l'individuo in grado di vivere meglio fra i vincoli convenzionali della vita sociale, contrastanti alla sua vera "natura", può parere a prima vista non già la fondazione, ma la negazione pura e semplice del problema educativo. Ma essi, per primi nella storia del pensiero pedagogico, assegnano consapevolmente all'educazione un compito di liberazione, la formazione della personalità del discente, sia pure ancora in un ristretto ambito che potremmo dire all'ingrosso politico, facendo appello unicamente alle forze interiori dell'uomo, e il loro scetticismo cela una profonda fede nella superiorità dello spirito sulla natura e nell'onnipotenza della ragione, unica legislatrice del mondo umano. Il pensiero posteriore si muoverà nel solco che essi hanno aperto. La profonda ragione dell'opposizione ai sofisti è sì anche nella loro interpretazione unilaterale e individualistica della personalità, ma è anzitutto nel nuovo principio che essi contrapponevano alla natura e alla tradizione, che suggellava il tramonto di una civiltà. Il loro individualismo e scetticismo apre la via al concetto di Socrate, all'idea di Platone, all'universale di Aristotele e ha quindi un significato decisivo nella storia del pensiero pedagogico.
L'unilateralità della posizione dei sofisti, la mera libertà formale della riflessione, è avvertita con piena consapevolezza da Socrate, anche se egli, pur confutandola ininterrottamente, nel corso del suo insegnamento, tutto intento alla scoperta di un contenuto universale che concilî la verità intravveduta dal soggettivismo sofistico con la saldezza di un valore oggettivo, si riduce piuttosto a postulare che a giustificare filosoficamente un criterio universale di giudizio. Per lui l'uomo continua a essere la misura di tutte le cose, ma solo in quanto pensa, in quanto si solleva al concetto, al bello, al buono, al vero. L'educazione è da lui intesa come un processo di autoliberazione, di conquista della consapevolezza etica. Ma egli non è mai riuscito a determinare il contenuto del concetto di bene; donde l'impronta di soggettivismo sofistico che ha sempre conservata il suo insegnamento agli occhi dei contemporanei e la ragione più profonda anche della sua condanna. Nonostante però la limitatezza e il formalismo del suo principio, questo ha avuto un valore decisivo nella storia dell'etica e della pedagogia, poiché è la rinuncia consapevole e definitiva alla moralità come costume, come eticità. Si proclama per la prima volta momento necessario della moralità e quindi dell'educazione la convinzione individuale, sostituita ormai all'imperativo della tradizione e dell'oracolo. La responsabilità della decisione passa interamente al soggetto, cui si suggerisce e comanda di cercare unicamente in sé medesimo la base del sapere e dell'operare. Non già quindi in singole dottrine particolari e meno che mai nel cosiddetto "metodo" e nel suo procedimento induttivo, che coincidono perfettamente con la sua determinata peculiarità storica, s'ha da cercare l'originalità pedagogica di Socrate, ma nel motivo centrale, cui abbiamo accennato, e nel principio pedagogico che gli si collega, il principio della "maieutica" (arte ostetricia), che presuppone nel discente la capacità di generare spontaneamente il vero e che diventerà, sia pure con tutt'altra giustificazione, il caposaldo della pedagogia platonica.
L'indeterminatezza del principio del bene in Socrate è attestata storicamente anche dalla molteplicità degl'indirizzi filosofici che traggono impulso dal suo insegnamento. Il nucleo speculativo troverà un originale svolgimento nelle filosofie di Platone e di Aristotele, ma il suo atteggiamento d'indipendenza e anche di estraneità verso la realtà sociale e la tradizione (si ricordi quel che afferma della vita politica nell'Apologia), l'aspetto negativo del suo insegnamento morale, insomma, è accolto e continuato in particolar modo dai cinici e dai cirenaici, che proclamano con sempre crescente ostilità il distacco dell'individuo dal mondo storico e promuovono il dissolvimento dell'ideale di armonia che aveva presieduto all'educazione dei Greci nei secoli più gloriosi della loro storia. L'individuo, fattosi estraneo al costume del suo popolo, si chiude in sé e cerca unicamente in sé stesso la propria destinazione. Sorge allora il problema del "criterio" del bene e si prende a contendere sulla raffigurazione ideale del "saggio". Per i cinici e i cirenaici il problema centrale della filosofia e dell'educazione (che sono ormai tutt'uno per loro, poiché la filosofia non persegue un fine teoretico e le si prefigge piuttosto un compito catartico) è la liberazione dell'io, concepito nella più rigida accezione atomistica, da tutti gl'interessi che avevano alimentato per l'innanzi la concreta umanità dell'Ellade. Saggio, in sostanza, tanto per l'edonismo cirenaico, che assegna all'uomo come unico scopo il conseguimento del piacere, quanto per i cinici, che ripongono il fine della vita nella conquista dell'autarchia, della sufficienza a sé stessi, attraverso l'indifferenza verso tutti gli oggetti che sógliono accendere il desiderio, è chi più si avvicina all'ideale negativo dell'assoluta indipendenza da ogni forma di bisogno e di legame. Attraverso questo sforzo di liberazione si approfondisce, sia pure in una forma unilaterale, l'esperienza socratica dello spirito come assoluta libertà. Donde anche la loro superiorità sui sofisti. Il piacere dei cirenaici, come l'autarchia dei cinici, non è un dono di natura, ma una conquista attraverso una severa educazione dell'animo di modo che essi finiscono col proclamare la libertà dello spirito nell'atto stesso che pare lo asserviscano. Con essi, si può dire, e in particolar modo coi cinici, si inizia quel processo di interiorizzazione dell'educazione come ascesi, che era destinato, al di là del mondo greco, a trovare appagamento nell'esperienza etico-religiosa del Vangelo.
Gl'interessi predominanti in Platone sono invece in gran parte opposti a quelli dei cinici e dei cirenaici. Egli accoglie il motivo più originale dell'opposizione di Socrate ai sofisti, lo svolge e approfondisce da un punto di vista metafisico, lo trasforma nella cosiddetta dottrina delle idee, fulcro di un'intuizione grandiosa, anche se essa non sia mai pervenuta a una vera intrinseca unità sistematica. Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale è condotto sino agli estremi limiti della coerenza il tentativo di razionalizzare tutto il reale (già iniziato da Anassagora a Socrate) trasformandolo in un trasparente cosmo intellettuale.
La sua dottrina delle idee sorge dall'esigenza di fondare e giustificare il concetto socratico, sottraendo il pensiero e la moralità alla caduca transitorietà dell'io individuale, ma ha una portata molto più vasta dell'esigenza socratica, poiché finisce col risolversi nel tentativo di dare un nuovo fondamento, un fondamento razionale, all'intero cosmo conosciuto dai Greci e in particolar modo alla polis, sintesi vivente della loro spiritualità, che, priva ormai del sostegno tradizionale, era tramontata negli animi e stava crollando anche nella realtà storica, come accadde difatti subito dopo la morte di Platone.
L'idea è il vero essere del mondo umano e naturale e si contrappone al regno degl'individui, all'apparenza sensibile, mescolanza di essere e non essere. L'idea sussiste in sé, è il modello, il tipo universale, necessario, eterno, immutabile e quindi anche il criterio di giudizio di tutte le realtà particolari e contingenti, che traggono quel tanto di essere che sono in grado di realizzare e la loro stessa pensabilità dalla partecipazione al mondo ideale. Il quale mondo è a un tempo l'unico oggetto della contemplazione dialettica, che è il culmine dell'attività scientifica, la fonte della moralità e il fine ultimo dell'educazione. La conoscenza che si trae dall'esperienza sensibile, la percezione e la rappresentazione o opinione, è priva di verità, non possedendo in sé un universale criterio di giudizio. Può essere persuasione, non scienza. La moralità fondata sul costume e sull'opinione, non essendo consapevole di sé, è abbandonata al caso. L'educazione che si consegue con la musica (culto delle Muse = educazione estetica) e con la ginnastica, il tradizionale curricolo dell'istruzione in Atene, le quali addestrano i ragazzi e i giovinetti a compiere il bene e ad amare il bello, e persino lo studio delle matematiche, cui è affidato, nella Repubblica, il compito di sollevare la mente dal sensibile all'intelligibile, possono essere gradini alla vera educazione, ma ad essa ci si solleva soltanto con la dialettica, con la contemplazione del mondo delle idee. Le quali idee non sono soltanto esemplari del mondo empirico, ma sono collegate fra loro in un complesso ordinamento gerarchico, in cui le più universali comprendono in sé le meno universali, facendo tutte capo all'idea somma del bene, alla cui essenza tutte partecipano. La dialettica è appunto lo studio di questi rapporti oggettivi delle idee ed essa sola apre alla mente la contemplazione della realtà in tutte le sue più intime articolazioni.
Ma come sollevarsi alla contemplazione dialettica del mondo ideale, se l'uomo è incatenato alla conoscenza sensibile e questa non si solleva sopra il particolare; in altre parole, come è possibile conoscere la verità, fare consapevolmente il bene, educare? Platone risponde con una dottrina profondamente paradossale, la dottrina dell'anamnèsi o reminiscenza. L'uomo, la conoscenza la possiede già, nessuno deve insegnargliela; compito dell'educazione è di volgerla dal mondo del divenire a quello dell'essere e di ciò che nell'essere è più luminoso, il Bene. "Imparare in generale non è altro che ricordare". L'anima, immortale, può ricordare il mondo da cui proviene. L'insegnamento deve facilitare questo ricordare. Sotto l'involucro mitico s'intravvede qui una profonda verità che Platone non poteva essere in grado di svolgere e di approfondire, ma che sarà ripresa da S. Agostino e diventerà poi il caposaldo della pedagogia moderna.
L'educazione è dunque un processo di ritrovamento di sé mediante cui l'anima, che è di origine sovrasensibile, trionfa gradatamente degli impacci del corpo e dei sensi, per rifarsi più simile che sia possibile a Dio. Donde la profonda impronta negativa e ascetica che contraddistingue il suo pensiero pedagogico, in netto contrasto con il suo vigoroso senso ellenico dello stato e col suo intento di restaurarlo su basi razionali. I due motivi procedono paralleli nella sua opera e quindi anche nella sua intuizione dell'educazione e dominano alternativamente nel suo pensiero, senza fondersi mai in un'unità superiore. Nei suoi sforzi di restaurare lo stato su basi razionali, cioè con un complesso ed elaborato sistema di educazione che faccia capo alla sapienza dialettica di un'aristocrazia di reggitori, egli si è ridotto a trasformare lo stato in un immenso paedagogium, in cui la filosofia non deve soltanto animare dall'interno la mole sociale ma dirigere e regolamentare anche le manifestazioni più particolari, dai matrimonî alla proprietà privata. Platone crede di salvaguardare la vita dello stato col sacrificare l'individuo nei suoi interessi più vitali, ma, in tal modo, non poteva non conseguire un'unità puramente astratta. Così Platone si oppone consapevolmente ed energicamente al nuovo principio, cui risale la responsabilità della distruzione della polis, il trionfante soggettivismo. Il suo tentativo di restaurazione razionale, attraverso l'educazione, di un mondo distrutto come costume e tradizione, era però destinato a fallire, poiché il nuovo principio che scalzava la polis greca era destinato a instaurare un'altra città più universale, in cui avrebbero trovato adeguato riconoscimento anche i diritti dell'umana personalità. Platone con la Repubblica tracciava per l'eternità una vivente immagine della più intima esperienza politica dell'ellenismo, la sua incapacità "di tollerare la libertà soggettiva".
Ma, accanto a questo aspetto negativo, occorre accennare all'aspetto più originale del suo pensiero pedagogico: la scoperta del concetto di cultura autonoma, traente unicamente dall'intimo dell'uomo le norme dei proprî procedimenti e mirante esclusivamente all'instaurazione di un regno dello spirito. Pur nei limiti impostigli dalle contingenze storiche e dalle finalità che Platone assegnava al suo stato, questo concetto era destinato a rivelare nei secoli la sua fecondità inesauribile. In questo senso si può far risalire realmente a lui la prima intuizione di una "cultura all'umanità" che costituisce ancora il più prezioso patrimonio spirituale del mondo occidentale.
Aristotele ha lungamente aderito al platonismo. Attraverso una lenta rielaborazione personale di esso finì però non solo col liberarsi della dottrina delle idee, concependo la forma come immanente alla materia, ma col rinunciare al connesso ascetismo morale e idealismo politico e quindi alla trascendenza del fine educativo. Non tanto però che taluni motivi fondamentali del platonismo non riaffiorino nella sua speculazione, senza riuscire mai a fondersi col complesso del suo sistema. Donde un radicale dualismo fra la tempra della sua mente tutta rivolta, nell'età più matura, a una considerazione immanentistica della realtà, congiunta a un vivissimo senso del concreto e dell'individuale, e le giustificazioni ultime del suo sistema. L'inesauribile processo del reale, in cui l'atto trionfa di continuo della potenza e in cui trova la sua spiegazione e giustificazione il mondo della "genesi", cui Platone negava ogni intrinseco valore, s'arresta dinnanzi a Dio, atto puro, pensiero del pensiero, scevro di materia. La sua dottrina etico-politica dell'attività pratica, tutta orientata verso una considerazione realistica e immanentistica dell'operare umano, sfocia nell'ideale platonico della pura contemplazione, come suprema perfezione della vita; e finalmente nella psicologia, mentre l'anima è concepita come l'entelechia del corpo, come pieno realizzarsi della sua forma, Aristotele contrappone poi all'intelletto "passivo", inscindibilmente e legato alle sorti del corpo, un intelletto "attivo", separato, di natura divina e universale, che è congiunto solo estrinsecamente con l'individuo e rimane senza giustificazione nel sistema. La ϕρόνησις, la ragion pratica di Socrate, aveva assunto in Platone, in coerenza con la dottrina delle idee, l'aspetto di una conoscenza scientificamente obiettiva della realtà ideale: conoscere il vero essere significava per lui conquistare ad un tempo l'unico verace criterio dell'operare morale. E questa conoscenza del bene si era sempre più avvicinata, nella tarda speculazione platonica, al modello della conoscenza geometrica. Il ripudio della dottrina delle idee e il generale orientamento immanentistico della mentalità aristotelica trasformarono radicalmente l'impostazione del problema morale e educativo.
Aristotele non si prefigge più di determinare il bene assoluto; in cima ai suoi pensieri sta il "bene dell'uomo", quel che si suol chiamare felicità, l'eudemonia, ch'egli definisce l'attività dell'anima secondo la sua perfezione in una vita completa. Per lui difatti il bene di un essere è nella realizzazione della sua propria attività. La ϕρόνησις non è più per lui conoscenza di una verità oggettiva, ma il giudizio retto per quel che concerne l'azione.
La conoscenza del bene ha sì un gran peso per l'azione e ci renderà più atti a cogliere il giusto. Ma le conclusioni dell'etica non possono avere il carattere di necessità che posseggono quelle di altre scienze. Sono troppo complesse e aderenti alla mutabilità delle condizioni dell'operare. Etica e politica sono scienze pratiche e divergono quindi profondamente dalla matematica e dalla metafisica. Mentre nella prima fase del suo pensiero, p. es. nel Protrettico, aveva anch'egli accarezzato l'ideale dell'uomo d'azione e del politico "filosofo", nell'Etica Nicomachea e nella Politica, nelle quali egli insiste sul carattere empirico delle due scienze in contrapposizione all'ideale metodico della morale platonica, Aristotele afferma risolutamente che per un re il filosofare è piuttosto impaccio che aiuto, e che occorre nettamente distinguere la σοϕία (speculazione) dalla ϕρόνησις (saggezza pratica), il modo in cui misura una retta il geometra "che è un contemplatore del vero" dal modo in cui la misura il falegname. E alla conoscenza del falegname egli pensa si debbano avvicinare le scienze etico-politiche.
A questo modo d'impostare il problema dell'azione si riannoda la considerazione in cui Aristotele tiene la "cultura generale" approfondendo e rendendo feconda l'intuizione più originale della sofistica. Il πεπαιδειμένος, l'uomo colto, per lui, pur non essendo né uno specialista né un tecnico, è in grado di giudicare l'uno e l'altro. Per quanto questa cultura generale fosse stata oggetto delle confutazioni e dell'ironia di Platone nel Carmide, nell'Eutidemo e nel Protagora, essa era però un passo innanzi nella determinazione di quel mondo autonomo dello spirito, che per primo Platone aveva intraveduto e che, dopo il Rinascimento, diventerà sempre più una realtà nella civiltà moderna.
L'eudemonia si raggiunge mediante la virtù, che è la perfezione dell'attività umana. Aristotele confuta l'identificazione socratico-platonica di virtù e conoscenza. "Il dire che nessuno è volontariamente cattivo né involontariamente beato, è in parte vero, in parte falso. Nessuno infatti è involontariamente beato, ma il vizio è volontario. Altrimenti si dovrebbe dire che l'uomo non è causa e generatore delle proprie azioni come dei figli". Né vale addurre che la responsabilità può scemare o essere persino distrutta dagli abiti contratti. All'origine degli abiti sta la libera volontà.
Il processo educativo consiste nella formazione di buoni abiti. I due estremi cui può condurre questa formazione di abiti sono da un lato l'ἀκόλαστος, l'individuo in cui il vizio è diventato una seconda natura e in cui la parte appetitiva domina talmente da aggiogare interamente a sé la ragione, dall'altro il σώϕρων, l'individuo in cui il bene si è talmente consustanziato con l'anima sua che non fa più alcuno sforzo a subordinare la sua condotta alla ragione. Far contrarre abiti buoni è compito, oltre che dell'educatore, anche del buon legislatore, poiché lo stato per Aristotele è il supremo educatore. Segni sicuri dell'effettiva disposizione alla virtù sono il piacere o il dolore che accompagnano in noi l'esercizio di essa. In questo è la ragione altresì delle punizioni.
Il criterio per la valutazione di quella certa misura, di quella medietà fra l'eccesso e il difetto, in che consiste l'abito virtuoso, non s'ha già da riporre in una norma astratta, ma nel giudizio stesso dell'uomo dabbene. "La maggiore caratteristica dell'uomo virtuoso è quella di vedere in ogni cosa la verità, in quanto egli è di tutte le cose la regola e la misura".
Siccome però l'anima oltre all'appetitiva ha una tendenza razionale, così oltre che della perfezione "etica" è suscettibile della "dianoetica" (da διάνοια, ragione dimostrativa) e della "noetica" o intellettuale (intuitiva). Nella sua maturità, abbiamo veduto, Aristotele distingue nettamente fra saggezza pratica e contemplazione. L'unica forma di immortalità cui l'uomo possa effettivamente partecipare, è questa contemplazione pura, nella quale l'uomo può sollevarsi, a tratti, alla beatitudine degli dei. Nelle opere della sua maturità Aristotele ha rinunciato a ogni forma di trascendenza, ma la contemplazione e la speculazione rimangono anche in esse il fine ultimo non soltanto del singolo, ma anche dello stato. "Misura della felicità è la contemplazione". Mentre tramonta ormai definitivamente la città e tramontano nella coscienza gl'ideali ch'essa aveva incarnato, Aristotele traccia l'ideale del nuovo mondo, la patria della cultura e della filosofia, che trascende e trascenderà i confini non solo della polis, ma di tutti gli aggregati politici, e nella quale gli uomini si sentiranno sempre più affratellati. È questo il legato di Aristotele che sarà accolto immediatamente dall'ellenismo e in particolar modo da epicurei e stoici. Un legato che giacerà invece inoperoso per secoli è il suo concetto della filosofia, della scienza come indagine disinteressata del vero, in cui culmina il suo pensiero educativo.
Già Epicuro, pochi anni dopo Aristotele, interpreterà l'esigenza più assillante dell'età sua col contrapporre all'ideale aristotelico un ideale diametralmente opposto della scienza: "Vano è quel discorso di filosofo che non medichi qualche umana passione". La filosofia diventa così strumento di liberazione per l'individuo, che ha spezzato tutti i legami con la tradizione del suo popolo ed è unicamente preoccupato del suo benessere.
L'educazione non è più concepita come preparazione all'azione, all'ἀρετὴ πολιτική, e neppure come iniziazione alla verità, ma piuttosto come ascesi che deve condurre alla pace interiore, la suprema felicità per le prime generazioni dell'ellenismo, che, attonite, videro crollare sotto i loro occhi non solo la Grecia classica e l'Atene di Pericle, ma altresì i colossali imperi orientali, per le generazioni che assistettero al fulmineo tramonto dell'astro di Alessandro e all'affermarsi della potenza di Roma.
L'individuo tende ormai a ripiegarsi su sé stesso, concentrandosi tutto nel suo io. "L'essenziale per la felicità è la nostra condizione intima di cui siamo noi i padroni". La filosofia si deve limitare ad affrancarlo dal timore della morte, del fato e degli dei (relegati negli "intermundia"), insegnandogli che soltanto il caso e la causa operano nella realtà, come deve pure affrancarlo da tutti gli altri legami che lo avvincono alla realtà e sono fonti di perenne turbamento. Ideale dell'educazione diventa l'aponia e l'atarassia, la liberazione dal dolore e dal turbamento. L'individuo non chiede più una risposta per il suo intelletto, ma una certezza dommatica per la sua fede. Donde l'aspetto piuttosto di chiese che d'istituti scientifici che assumono le loro scuole.
Per quanto l'epicureismo si ricolleghi direttamente ai cirenaici come lo stoicismo ai cinici, il suo accento cade ormai sull'astinenza piuttosto che sull'appagamento, sull'inerzia contemplativa piuttosto che sul piacere attivo. Il fine che persegue lo avvicina al suo antagonista, lo stoicismo, che pone come fine dell'educazione l'apatia, l'assenza del desiderio, sebbene l'etica stoica poggi su una fisica radicalmente diversa dall'epicurea. Essa ha una netta impronta religiosa. Tutto è dominato da un'immanente legge di necessità razionale. Chi si solleva alla comprensione di questa ragione, alla saggezza stoica, non ha più ragione di dolersi. Siccome comprende tutto, deve tutto ammirare e conformarsi all'ordine della realtà, subordinando l'impulso alla ragione, che lo identifica in certo modo con Dio. Questo significa per lo stoico "vivere secondo natura", che è cosa ben diversa dall'analogo principio del cinico, per il quale la natura si identifica con l'immediatezza dei bisogni più elementari. La persuasione che la perfezione consiste nell'identificarsi con la realtà universale, spiega talune delle affermazioni più caratteristiche e feconde dello stoicismo, la proclamazione della fratellanza umana e del cosmopolitismo e la condanna della schiavitù. Affermazioni che attestano l'abbandono non soltanto dell'ideale politico ma dei fondamenti stessi della spiritualità greca e valgono da un lato a giustificare teoreticamente l'universalismo politico e giuridico della nuova dominatrice, Roma, e dall'altro preludono e preparano gli animi alla buona novella del Vangelo.
Gli stoici coltivarono anche i problemi tecnici dell'educazione, ma dalle scarse notizie che ci sono pervenute non pare che le opere perdute fossero altro che raccolte di precetti e di osservazioni prive di un collegamento sistematico.
La pedagogia romana. - Il pensiero educativo stoico ci è stato invece largamente conservato nelle opere degli stoici romani e in particolar modo di Lucio Anneo Seneca.
Roma, la quale ha creato un nuovo tipo di educazione, così originale e distinta dalla greca, e così intrinsecamente vigorosa, non ha espresso dal suo seno nessun pensatore che abbia fatto oggetto di indagine la sua intuizione educativa. Quando molto tardi, sotto l'Impero, con Cicerone e Seneca e poi con Quintiliano, si prendono a dibattere i problemi dell'educazione, lo si fa alla luce di un pensiero che non profonda le sue radici nella tradizione indigena, e Seneca e gli stoici in particolar modo sono mossi da preoccupazioni che già trascendono gl'interessi spirituali della romanità classica. La ragione di questa infecondità pedagogica dei Romani è la medesima che spiega la loro aridità speculativa. Il loro pensiero riflesso è rimasto sempre di gran lunga al di sotto della loro originalità creatrice nell'ambito della politica e del diritto.
Popolo profondamente, sebbene angustamente religioso, che possedeva per così dire connaturato il senso dello stato e della disciplina civica, congiunto a una vivissima e gelosa consapevolezza dei proprî diritti e della propria libertà; poco dotato di fantasia e privo di gusto per le indagini disinteressate della scienza e della filosofia, ma ricchissimo di sapienza pratica, di equilibrio e di orgoglio, il Romano s'è venuto foggiando un tipo di educazione, che è rimasto un modello insuperato anche dai maggiori popoli cui fu affidata più tardi dal destino una missione imperiale. Tu regere imperio populos, Romane, memento (Hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, Parcere subiectis et debellare superbos. Il verboso eclettismo ciceroniano e la disincantata saggezza di Seneca sono ormai lontani dalla più originale esperienza pedagogica romana, tutta vibrante di fede operosa e di sano ottimismo realistico, e appartengono, in sostanza, alla storia del pensiero filosofico e pedagogico dell'ellenismo, in cui si compie la dissoluzione dell'intuizione classica della vita e si prepara il terreno alla conquista cristiana.
La filosofia delle tarde scuole greche è accolta dai Romani come un ornamento, uno strumento di dominio sociale e politico o come un mezzo di liberazione interiore, non come risposta a una spontanea esigenza speculativa. L'apparente indipendenza filosofica di Seneca p. es. si riduce all'atteggiamento d'insofferenza e di fastidio dell'uomo pratico verso le "sottigliezze" del filosofare, cui egli chiede che insegni soltanto a vivere bene e onestamente. Il motivo centrale della sua pedagogia è difatti il problema della formazione del saggio. Questa educazione consiste nel creare un centro organizzatore della personalità, che dia unità al pensiero e alla condotta, in modo che si operi sempre come "uno e identico", mentre di consueto gli uomini obbediscono a ispirazioni molteplici e contrastanti. Questa unità la può dare soltanto la cultura liberale (la cultura che rende liberi), che è tutt'uno, per Seneca, con la consapevolezza filosofica; questa soltanto difatti non si limita a impartire precetti, ma ci innalza al possesso dei supremi principî regolatori della condotta.
L'originalità di Seneca, che dà un nuovo tono al suo stoicismo, ai suoi precetti educativi, è nell'avere interiorizzato la considerazione della vita morale, nell'avere concepito decisamente Dio come un essere previdente e provvidente, fonte suprema della moralità, nell'aver sublimato la sofferenza come un mezzo di purificazione, nell'accento di umana commiserazione per le sofferenze dei proprî simili e di solidarietà nel dolore ch'egli reca nel suo insegnamento morale. Con le Epistulae ad Lucilium la romanità ha fatto il passo più decisivo verso la nuova intuizione cristiana del mondo, sebbene fra le due permanga un abisso, che la "ragione" della filosofia classica non era in grado di colmare.
L'unica opera organica sui problemi tecnici dell'educazione e dell'istruzione tramandataci dalla letteratura romana sono le Institutiones oratoriae di Quintiliano, che si propone di tracciare le linee di una sistematica educazione del futuro oratore, vir bonus dicendi peritus, che incarna l'ideale civico-retorico dell'età imperiale. Quintiliano ha nella storia del pensiero educativo un posto analogo a quello di Aristotele nella storia della filosofia. Egli fu a lungo considerato dall'umanesimo come un'autorità suprema e indiscussa in fatto di educazione; ancora Erasmo chiedeva venia per l'impudenza di aver osato affrontare problemi trattati dal maestro romano.
La pedagogia cristiana. - Col cristianesimo il problema dell'educazione veniva posto su basi radicalmente nuove. Gesù ha rivelato agli uomini il valore della personalità ("che gioverà all'uomo di guadagnare tutto il mondo, se fa perdita dell'anima sua?"), con l'additare nell'interiorità dell'intenzione l'unica sorgente della vita morale e religiosa e con l'identificare l'educazione con un processo tutto intimo di adeguazione dello spirito a una verità che gli è intrinseca, con la conquista e l'instaurazione di un regno di Dio immanente nella buona volontà dell'uomo.
Il valore assoluto della personalità, implicito nell'affermazione della filiazione divina della creatura, era destinato a trasformare dalle radici l'intuizione pedagogica così del mondo greco-romano come dell'ebraismo, e ha rivelato nei secoli un'inesauribile fecondità di motivi e di svolgimenti.
Siccome Dio non è più concepito né come demiurgo ordinatore del mondo né come inerte contemplatore della propria perfezione, ma come Padre che ama e che si dona, ai figli incombe sopra ogni altro il dovere di meritare questo amore, di farsi figli secondo lo spirito con l'instaurare nel mondo un regno di fratelli in Cristo ("amatevi come vi ho amato"), fra cui domini sovrana non già la semplice legge della giustizia, ma quella della carità. Gesù svela in tal modo il profondo significato del paradosso della vita dello spirito, che si potenzia prodigandosi e rinunciando a sé. L'amore e la dedizione diventano le virtù capitali della nuova comunità che si raccoglie fraternamente nel nome di Gesù, e l'imitazione del Padre, che per amore ha affrontato il supremo sacrificio, diventa il caposaldo di ogni educazione cristiana. I concetti di autorità e di obbedienza conseguono un approfondimento decisivo per tutta la storia posteriore del pensiero pedagogico ("Chiunque vorrà divenire grande fra voi, sia vostro ministro; e chiunque tra voi vorrà essere il primo, sia servitore di tutti").
L'ideale dell'educazione cessa di essere la contemplazione teoretica o, comunque, l'inerte autosufficienza di chi ha conquistato la saggezza. L'uomo ha il dovere di impegnarsi a fondo nel dramma dell'esistenza, che già con S. Paolo diventa il dramma, a un tempo individuale e cosmico, della redenzione. Ogni astensione è segno di egoismo, è peccato contro lo Spirito. La carità non può non essere attiva. Non il nostro io carnale dobbiamo salvare, ma il nostro io più profondo che conquistiamo attraverso l'abnegazione e il sacrificio ("solo chi odia l'anima sua, la salverà"). La polemica di Gesù contro scribi, farisei e contro ogni forma di sufficienza morale e religiosa trae il suo accento di verità dalla persuasione dell'inesauribile fecondità del buon volere, che non può conoscere sosta, e dell'incommensurabile valore di ogni atto d'amore che ha la virtù di risolvere in sé e quindi di lavare anche un'intera vita di peccato.
Accanto all'imperativo di collaborare infaticabilmente all'instaurazione del regno di Dio nelle coscienze, attraverso l'amore e la dedizione, sopravvivono nei Vangeli altre intuizioni, quella p. es. che tende a identificare la bontà con l'innocenza, o quella che preannunzia già l'indirizzo ascetico-monastico dei secoli seguenti, che all'ideale di vita intesa come milizia attiva tende a sostituire quello della rinuncia all'azione, della contemplazione e della preghiera nell'attesa fiduciosa che si compia la volontà del Padre. Questo intrinseco dualismo, fecondo di problemi e di contrasti, attraversa tutta la storia dell'etica e della pedagogia dei popoli cristiani sino alle soglie del mondo contemporaneo.
La nuova intuizione della vita spirituale coinvolgeva una radicale condanna della filosofia e della cultura che stavano a fondamento dell'educazione greco-romana e quindi di questa stessa educazione.
Il contrasto si accentua dopo Gesù. Già con S. Paolo, con il quale la nuova fede spezza gli angusti confini nazionali del giudaismo, staccandosi e contrapponendosi anzi decisamente ad esso, proclamando abolita l'antica legge, in virtù del sacrificio del Cristo, ed estendendo la "buona novella" a tutti gli uomini. Un più diretto contatto della nuova fede coi grandi centri della civiltà ellenistica accentua in essa la coscienza della propria originalità e l'opposizione del cristianesimo nascente così all'intuizione greca della vita come all'ebraica. Alla sapienza secondo la carne viene contrapposta la sapienza secondo lo Spirito. "Iddio ha resa pazza la sapienza del mondo, ha fatto perire la sapienza dei savi e ha annullato l'intendimento degli intendenti". È inutile avvertire che questo atteggiamento paolino di radicale negazione dell'antica sapienza conteneva in nuce una nuova sapienza più profonda e universale.
Di fronte al nuovo ideale della salvazione erano destinati a perdere valore, almeno in un primo stadio della civiltà cristiana e nei più intransigenti zelatori della nuova fede, non soltanto il sincretismo filosofico e la cultura retorico-formale, ma in complesso tutto il contenuto dell'educazione tradizionale greco-romana. Via via che la nuova intuizione della vita si veniva chiarendo a sé stessa, enucleava il suo contenuto dommatico e si organizzava in Chiesa, all'educazione greco-romana, ormai svuotata di ogni intrinseca vitalità, sempre più formalistica ed estranea non solo al cristianesimo ma alle stesse esigenze spirituali che l'avevano suscitata, si veniva contrapponendo una nuova forma di educazione, radicalmente diversa nello spirito e nel contenuto, che ha esercitato la sua azione dapprima fuori della cerchia dell'istruzione ufficiale e in particolar modo sulle classi più umili che l'organizzazione pedagogica dell'Impero aveva sempre ignorato, e poi su coloro che erano più inclini a spezzare decisamente i legami con la vita sociale e politica circostante per dedicarsi al servizio di Dio e alla salvazione della propria anima, come anacoreti e monaci. Essa invece, per parecchi secoli, esercitò molto minore efficacia sulle classi dominanti, sulla casta politica e burocratica e sugli esponenti dell'alta cultura.
Nei primi secoli del cristianesimo contendono dunque due ideali di educazione, che mirano ad escludersi a vicenda, sebbene fossero destinati a fondersi da ultimo in un nuovo indirizzo unitario, quando fosse stato compiuto il processo di cristianizzazione dell'orbe romano e barbarico. Essi coesistono spesso nei medesimi individui e negli stessi campioni della nuova fede, suscitando aspri dissidî interiori e dibattiti, che tengono un gran posto nella letteratura dei primi secoli della nuova era. Nella quale si nota una gamma variatissima di atteggiamenti verso la cultura greco-romana, che vanno dalla condanna esplicita alla sua esaltazione come preparazione provvidenziale all'avvento della buona novella. Nei fatti però non poteva non prevalere un'opinione media e conciliatrice, che è del resto già teorizzata in Clemente Alessandrino.
Deciso distacco dalla tradizione classica si nota unicamente nelle istituzioni scolastiche sorte da esigenze religiose, le istituzioni educative della Chiesa, nelle quali si vennero rapidamente determinando, senza compromessi e contaminazioni, i principî fondamentali dell'educazione cattolica, che costituiscono tuttora i capisaldi dell'azione educativa della Chiesa. E le fonti della più schietta pedagogia cattolica si trovano difatti nelle opere rivolte alla formazione religiosa dapprima dei catecumeni, dei santi, poi degli aspiranti al sacerdozio, dalla "Dottrina dei dodici apostoli" del sec. I al De officiis ministrorum di S. Ambrogio e al De doctrina christiana di S. Agostino, ma in particolar modo nelle opere rivolte all'educazione dei monaci e al disciplinamento della vita nei conventi, dalle Regulae longiores e breviores di S. Basilio, alla Regula monachorum di S. Benedetto, alle varie epistole educative di S. Girolamo, ecc.
Qui in particolar modo ci è dato cogliere i capisaldi del nuovo pensiero pedagogico cattolico. Il compito del maestro, tenuto in dispregio o non adeguatamente apprezzato nel mondo classico, assume ora un valore religioso. S. Girolamo si afferma più superbo di educare la piccola Paola che Aristotele di aver educato Alessandro. La paternità spirituale dell'educatore diventa il fondamento del nuovo pensiero educativo. Le norme sono magari attinte da Quintiliano, come in S. Girolamo, ma lo spirito e il fine dell'educazione si sono interiorizzati e profondamente mutati. L'educazione è fatta coincidere con l'intero processo della vita. Tutta l'esistenza terrena del cristiano è considerata difatti come un incessante dovere di penfezionamento morale.
Mentre la Chiesa nascente doveva venir presto a contatto con la sapienza del mondo per poterlo meglio conquistare, in particolar modo dopo la fine del seeondo secolo, già nel sec. IV (la colonia monastica di Pacomio è dei primi anni del 300) e più decisamente poi nel VI si diffondeva una istituzione, in cui la nuova esperienza religiosa era vissuta con intensità e freschezza da una minoranza eletta, il monachismo (v.). Esso fa centro della sua attività la "cura dell'anima" e, sebbene accentui, almeno in un primo tempo, il lato negativo del messaggio di Gesù, diventa rapidamente la più originale istituzione pedagogica del cattolicesimo, esercitando per secoli un'azione rivoluzionaria che ha avuto anche notevoli riflessi culturali, in particolar modo dopo che S. Benedetto con la sua regola ebbe imposto ai monaci di Montecassino due ore di lettura della Bibbia e dei Padri e dopo che furono introdotti gli studî dotti nei conventi per opera dei monaci anglo-irlandesi e di Cassiodoro. L'unica e vera filosofia, secondo il detto di Giustino, è in queste scuole il Vangelo, ma attraverso lo studio del Vangelo si prepara una nuova organica rielaborazione del sapere, in cui le lettere profane ritroveranno il loro posto come primo gradino allo studio delle lettere sacre. Naturalmente la cultura antica era destinata a perdere in questa nuova rielaborazione ogni autonomia. Il suo contenuto diventa un ingrediente, senza intrinseco valore; le artes liberales (trivio e quadrivio) sono coltivate come avviamento alla teologia. E quando, dopo secoli di rozzezza in cui gli elementari bisogni della conoscenza potevano essere soddisfatti coi detriti del mondo antico raccolti in infantili compilazioni enciclopediche, si tentò una vera sistemazione filosofica del nuovo organismo culturale, la forma si rivelò presto inadeguata alla nuova materia e i due elementi arbitrariamente congiunti si separarono presto per sempre.
La pedagogia patristica e scolastica. - Poverissime sono tanto la patristica quanto la scolastica di opere speculative sull'educazione. Nella patristica l'unico a lasciare la sua geniale impronta anche su questo problema è stato S. Agostino. L'intuizione religiosa della filiazione divina, approfondendosi e interiorizzandosi, diventa in Agostino un concetto speculativo, la prima affermazione filosofico-teologica della soggettività e immanenza del vero, con cui il cristianesimo tentava di svincolarsi, anche nell'ambito della speculazione, dall'antinomia che aveva alimentato lo scetticismo del tardo pensiero classico: ineliminabile individualità di ogni atto di conoscenza, ultra-individuale oggettività del vero. Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Dio si rivela soltanto nell'intimo di te stesso: scendi in te e ascolterai il suo insegnamento. Donde l'impostazione del problema educativo nel De magistro: c'è un unico vero maestro, il Christus docens; egli non è però un estrinseco modello da imitare, ma una fonte interna di perenne rivelazione. Gli altri maestri possono unicamente stimolare e aiutare chi è disposto ad ascoltare questa profonda voce interiore. La redenzione cessa di essere un puro fatto storico, si trasforma in un processo perenne che si identifica con lo stesso processo dell'educazione alla Verità. Agostino non svolge e approfondisce questa sua intuizione, che sarà ripresa da S. Tommaso con intenti più decisamente sistematici, ma essa rivelerà tutta la sua fecondità con la Riforma e con Cartesio.
Anche la scolastica annovera una sola opera veramente notevole di pedagogia, un opuscolo di S. Tommaso. Per la scolastica l'interesse è tutto concentrato sulla determinazione e giustificazione del contenuto oggettivo della fede. Il soggetto come soggetto non ha in sé verità e originalità alcuna. Alla verità esso si può sollevare sia mediante un progressivo processo di unione con la divinità, attraverso la dedizione e l'amore, quale è stato descritto nell'Itinerarium mentis in Deum di S. Bonaventura sia col processo di esplicazione di quel che è implicito nella mente per via deduttiva e analitica, in cui consiste propriamente l'educazione secondo S. Tommaso e altri scolastici. Le opere dell'indirizzo agostiniano e francescano in particolar modo sono miniere di acutissime osservazioni sul modo di edificare l'anima cristiana", ma il problema dell'educazione e dell'istruzione, insolubile da un punto di vista rigorosamente scolastico, non è affrontato in modo speculativo e sistematico se non da Tommaso nel De magistro. Egli determina che la luce divina che ci illumina dall'interno è il "lume di ragione" o, aristotelicamente, la "luce dell'intelletto attivo", "quasi similitudine dell'increata verità che in noi risuona". A Dio risalgono altresì i "primi concetti dell'intelletto", le "notizie comuni", così immediatamente comuni ad ogni mente che si possono anche dire innate. Il materiale poi della conoscenza è fornito dalla "specie intelligibile", che l'intelletto trae dai singoli oggetti; p. es. nel concetto di essere è contenuto in potenza quello di animale. La conoscenza consiste nel rendere attuale quel potenziale. E l'insegnamento si riduce a facilitare questo passaggio dalla potenza all'atto, dall'implicito all'esplicito, che si compie in virtù della nativa forza della mente.
Se da un lato dunque è vero quel che affermava Sant'Agostino che "Dio solo è colui che interiormente e principalmente insegna", poiché nessun insegnamento umano può avere efficacia se non per virtù di quel lume, dall'altro però l'acquisire scienza da sé è "causa imperfetta", ché l'autodidatta dispone soltanto delle "ragioni seminali della scienza, le quali sono principî comuni", mentre "causa perfetta" è il maestro, in quanto possiede l'intera scienza cui deve iniziarsi l'alunno. Insomma la scienza di chi impara preesiste "in potenza attiva completa", vale a dire "l'agente estrinseco non agisce se non aiutando l'agente intrinseco e somministrandogli i mezzi onde possa sboccare nell'atto". Così il medico nella guarigione è ministro della natura. È questo il maggiore sforzo fatto dalla scolastica per giustificare la profonda fede nell'interiorità del vero, nell'originalità della mente, trasmessale dall'agostinismo. Di fatto, però, il processo dell'apprendere si risolve, conforme all'intima natura della filosofia tomistica, in un puro processo logico deduttivo, che non arricchisce lo spirito e non è quindi vero sapere.
Gli schemi logici dell'aristotelismo erano inadeguati a cogliere e giustificare l'intuizione cristiana dell'originalità creatrice dello spirito.
È stata la conoscenza dapprima oscura, poi sempre più chiara di questa radicale infecondità della scolastica aristoteleggiante a provocarne dall'interno la dissoluzione e a suscitare la reazione dei varî indirizzi di opposizione, dall'empirismo alla mistica, con cui s'inizia una nuova intuizione dell'educazione, che culminerà da un lato nella filosofia del Seicento e dall'altro nella Riforma.
La pedagogia del Rinascimento. - Con l'inizio del periodo che si suol denominare Umanesimo e Rinascimento, anche il problema dell'educazione assume decisamente un nuovo aspetto. Il pensiero pedagogico di quest'età è caratterizzato intanto, alla superficie, dalla molteplicità delle esperienze e delle teorie: all'uniformità metodica e dottrinale della scuola e del pensiero educativo medievale sottentra una grande varietà di indirizzi: ogni maestro aspira a creare una sua scuola, a propugnare proprî metodi, a formulare nuovi canoni didattici. Ma il periodo è soprattutto caratterizzato da un radicale mutamento nel modo di considerare la natura e il fine dell'educazione e della cultura. A intendere lo spirito della nuova pedagogia basterebbe osservare che all'Umanesimo risale la creazione della scuola media, della scuola di cultura disinteressata e liberale, formatrice di "umanità". Sotto la molteplicità degl'indirizzi, un motivo profondo difatti accomuna tutti i novatori e persino coloro che si illudono di poter resistere alla diffusione del travolgente spirito umanistico. In loro l'accento non cade più sulla trasmissione della verità, sulla traditio, ma sulla formazione dell'"io", di quell'"io" che, dal Petrarca in poi, si accampa dominatore nella letteratura e nella filosofia, come già nella vita. La persuasione, se pur solo di rado consapevolmente espressa, che sta a fondamento della rivoluzione umanistica, in tutte le sue forme, è la fede nell'assoluta autonomia dell'elemento mondano, dello stato, della filosofia, della scienza e dell'arte, e della stessa coscienza religiosa. Anche l'educazione nuova trae alimento da questa fede.
I classici dell'arte e del pensiero greco-romano, che riacquistano un pieno diritto di cittadinanza nella scuola umanistica e ne diventano presto i dominatori, non sono più considerati strumenti di edificazione religiosa e neppure fonti di sapere enciclopedico propedeutico agli studî sacri. Si comincia a studiarli e ammirarli per il loro intrinseco valore, come modelli insuperati di arte, di eloquenza, di pensiero indipendente. Il che non impedisce naturalmente che in essi, e in particolar modo nei pensatori che si reinterpretano in funzione delle nuove esigenze spirituali, quel che si cerca davvero sia una conferma autorevole della nuova intuizione della vita, che si va delineando sempre più chiaramente e imponendo in modo sempre più deciso in contrapposizione alla cattolico-aristotelica, e che soltanto in questo senso si possa correttamente parlare di un ritorno, in pedagogia, a Quintiliano, Plutarco, Seneca, Cicerone, come si suol discorrere in filosofia di un ritorno a Platone, agli stoici, agli epicurei.
Naturalmente Umanesimo e Rinascimento sono ancora lontani dal moderno concetto dell'autonomia della personalità. Non occorre molto per accorgersi che anche i più sagaci interpreti del loro spirito non si sollevano oltre il concetto dell'educazione come processo di formazione di una élite che eccella per equilibrio e vigoria delle sue attività fisiche e spirituali. Predomina in essi l'ideale estetico di una plasmazione armonica dell'individuo (l'interesse che si prova per l'educazione del principe e della gentildonna non ha altro significato). La cultura che culmina nella filosofia liberos homines efficit, a detta di Vergerio, ma si tratta della libertà dell'individuo solitario, sibi permissus, non della concreta personalità etico-sociale, vivente sintesi di libertà e legge.
Anche i più originali pedagogisti del Rinascimento non si sollevano oltre una considerazione dell'educazione del tutto analoga alla considerazione machiavellica dell'attività politica. L'astrattezza di questo concetto della libertà spiega il rapido dissolversi dell'educazione umanistica in un formalismo retorico (prima est eloquentia virtus), dapprima con i ciceroniani, poi con i gesuiti i quali non meno dei pedagogisti e educatori della Riforma, sebbene per altre ragioni, hanno riabbassato le "lettere umane" a ornamento, a strumento di una verità che era del tutto estranea alla loro ispirazione iniziale.
Creazione tipicamente espressiva della pedagogia umanistica è stata la "Casa giocosa" di Vittorino da Feltre. Egli ha realizzato nel suo insegnamento, con un mirabile spirito di spontaneità e armonia, l'ispirazione più profonda del primo Umanesimo italiano, il tentativo di conciliare, nel processo educativo, l'etica evangelica spoglia ormai di ogni ascetica rigidezza e angustia medievale, con la cultura classica, ai fini di una formazione integrale e liberale della personalità dei discenti. Nonostante la sua pietà e fede cattolica, egli era talmente dominato dal nuovo spirito che rivolse tutte le sue cure a promuovere e disciplinare lo spontaneo svolgimento della personalità dei suoi alunni, attraverso il giuoco, gli esercizî fisici, la cultura letteraria e scientifica e la musica. La sua religione non ha ormai più nulla di esclusivo. Questa aspirazione alla conciliazione era destinata a rimanere a lungo inappagata nello molgimento del pensiero umanistico, sino a che non si sarà pervenuti alla conquista consapevole di un nuovo principio unificatore della cultura, ma essa, insieme con il suo profondo rispetto per l'originalità dello spirito, fa di Vittorino il primo grande interprete della nuova intuizione educativa, sebbene egli non le abbia dedicato nessun'opera teoretica.
Nell'ambito dalle idee appena accennate si muovono tutti i primi teorici italiani della pedagogia umanistica, Leonardo Bruni, Pier Paolo Vergerio, Maffeo Vegio, Guarino Veronese, Enea Sivio Piccolomini, Francesco Filelfo, Matteo Palmieri e in particolar modo Leon Battista Alberti e Marsilio Ficino. Con questi due ultimi l'intuizione pedagogica dell'Umanesimo si è sollevata a una consapevolezza che la distacca per sempre dalla tradizione medievale.
La pedagogia della Riforma e Controriforma. - Parallelo al Rinascimento e variamente intrecciantesi con esso procede in talune nazioni europee un altro moto di liberazione dalla tradizione pedagogica aristotelico-tomistica, la Riforma. Anch'esso, che pur si ricollega alla corrente tomistico-agostiniana, tende a promuovere, nell'ambito della vita religiosa e dell'educazione, l'individualità del sentimento. Rinascimento e Riforma sono per un lato profondamente affini, per l'altro divergenti e reciprocamente ripugnanti. La rivoluzione di Lutero, con lo spezzare l'unità gerarchica della Chiesa romana e col promuovere l'individualismo nella vita della fede, ha inconsapevolmente collaborato, insieme con i maestri del Rinascimento, a far crollare il mondo spirituale del Medioevo e a far nascere e diffondere lo spirito laico e, in ultima analisi, l'individualismo razionalistico. Ma il pensiero etico-religioso dei duci della Riforma, e in particolar modo di Lutero e Calvino, nel suo complesso non esce dal quadro della civiltà ecclesiastica medievale e si oppone non meno energicamente del cattolicesimo all'ispirazione e alle più vitali esigenze del moto umanistico.
Donde la duplice anima del protestantesimo e del suo pensiero educativo. Da un lato esso promuove, nell'ambito della fede, la libertà dello spirito, nella vita morale fa leva sulla buona volontà e sull'intimità della coscienza, si appella al criterio individuale, sia pure illuminato dalla grazia, nell'interpretazione dei testi sacri (suscitando un vasto moto di educazione popolare, che è stato il frutto immediato più notevole del protestantesimo nella scuola), respinge il ius divinum della gerarchia, l'autorità e la mediazione del sacerdozio, i sacramenti come forze liberatrici e salvatrici dall'esterno. Dall'altro però reagisce, con mentalità prettamente medievale, ai principî più profondi e originali dell'Umanesimo; accentua ed esaspera la funzione della grazia nel processo di salvazione e quindi nella costituzione della vita morale, pretende di ordinare stato e società, istruzione e scienza, economia e diritto alla stregua di norme sovrannaturali; tien fermo all'assoluta validità della rivelazione e conserva quindi l'idea di un istituto redentore autoritario di origine divina nell'atto stesso che ripudia l'ordinamento gerarchico della Chiesa romana in nome dell'interiore testimonianza dello Spirito Santo. Continua a concepire la società come un corpus christianum, negando quindi ogni autonomia allo stato e tanto più alla scuola. Filosofia e cultura continuano a essere considerate in funzione della vita ecclesiastica e delle preoccupazioni confessionali. Finalmente non si rinuncia all'ascesi nella vita morale e nell'educazione, pur sostituendo all'ascesi extraterrena quella intraterrena. Ecco perché l'ispirazione rivoluzionaria del pensiero pedagogico protestante finisce rapidamente con l'esaurirsi e lo spegnersi in un formalismo teologico-dommatico da un lato e retorico-declamatorio dall'altro.
I motivi più profondi della Riforma non potranno svolgersi in modo adeguato se non quando, spezzato decisamente l'involucro confessionaleteologico, confluiranno con le idee originali del Rinascimento nella grande corrente dell'illuminismo e poi della filosofia e pedagogia di Rousseau, Kant e Pestalozzi.
Particolare interesse per la vasta influenza nell'ambito dell'organizzazione tecnica della scuola media, specialmente sulla formazione spirituale delle classi dominanti del Seicento e Settecento, offre anche il pensiero educativo dei gesuiti e della Controriforma in generale. La loro pedagogia segna una pura e semplice reazione contro lo spirito del Rinascimento, di cui accetta l'eredità letterario-retorica, ma distrugge con metodica, raffinatissima pertinacia tutti i fermenti di libertà. E come reazione non ha lasciato tracce profonde nella storia del pensiero.
Notevolissima efficacia hanno esercitato invece gl'irriducibili avversarî dei gesuiti, i giansenisti. Non già mediante un diretto svolgimento speculativo di concetti, ma, indirettamente, con la loro polemica contro i gesuiti accusati di lassismo morale e di pedanteria disciplinare. La loro posizione è sì un compromesso fra un rinnovato agostinismo in teologia e un radicale cartesianismo nei problemi filosofici. Ma il compromesso, piuttosto che segno di scarsa vigoria spirituale, come è spesso, sta in loro ad attestare piuttosto un'energica volontà di comporre a ogni costo un dissidio comune a molti spiriti del tempo, senza sacrificare né la grazia divina, di cui i giansenisti accentuano anzi, come i calvinisti, l'irresistibile azione, né i diritti della ragione. Le loro "scolette" di Portoreale sono rimaste in fama di modelli di un altissimo spirito educativo, religiosamente e maternamente vigilante, severo e talvolta forse un po' duro, ma a un tempo rispettosissimo della personalità dei discenti. I loro testi scolastici, in lingua francese, accurati, chiari, sobrî hanno giovato a liberare definitivamente la scuola dalla letteratura scolastica che l'ingombrava. La Logique ou l'arte de penser, scritta in collaborazione dall'Arnauld e dal Nicole, è un modello di penezione, oltre per le doti stilistiche, per la finezza e la sapienza con cui ha saputo fondere talune dottrine della tradizionale logica aristotelica (teorie del concetto, del giudizio, del ragionamento) con i principî del metodo cartesiano. La piccola comunità fu presto dissolta d'autorità, fu perseguitata dai poteri politici e religiosi, ma il suo pensiero rivelò una sorprendente vitalità ai primi anni del secolo XIX. Alla sua ispirazione si deve ancora la tempra morale eroica di parecchi fra gli spiriti più eletti del primo Ottocento, anche in Italia.
La pedagogia moderna da Bacone a Vico. - Un'impostazione profondamente originale del problema pedagogico è avviata dal cartesianismo e dall'empirismo baconiano-lockiano, due indirizzi che, pur divergendo nel procedimento del metodo e della ricerca, perseguono un'unica meta e finiranno difatti col fondersi in una sola corrente speculativa.
Cartesio ripudiò la fede dommatica della gnoseologia tradizionale nella congruenza del conoscere al reale. Né il procedere deduttivo dell'antica logica aristotelica né l'induttivo contrappostogli da Bacone ci possono dare una conoscenza certa. Nessuna fonte del nostro conoscere deve dunque sottrarsi al dubbio che Cartesio denomina metodico per distinguerlo da quello assoluto dello scetticismo. Di una cosa soltanto non è possibile dubitare senza distruggere la possibilità stessa del dubbio, del nostro pensiero che dubita. Cogito ergo sum. Il pensiero che dubita non può non esistere. Ecco la prima certezza che ridà al pensiero una saldezza, che nessuno scetticismo sarà in grado di scuotere. Sarà dunque vero per noi tutto ciò che ci apparirà con la chiarezza e la distinzione con cui cogliamo il nostro io. D'ora innanzi non accetteremo più per vero nulla che non ci appaia evidentemente tale. Questo principio dava finalmente la giustificazione scientifica dell'individualismo pedagogico del Rinascimento, che, diffusosi dall'Italia in altre nazioni aveva trovato particolarmente in Francia due fervidi e poderosi propugnatori in Rabelais e Montaigne, tempre diversissime di pensatori e pure accomunati nella lotta contro il dommatismo e la pedanteria; ambedue corifei dell'emancipazione della ragione e della natura dall'ascetismo e dal fanatismo confessionale.
Ma come uscire dall'io, che Cartesio continua a considerare finito, come passare dall'io al reale, dal certo al vero? Egli risponde semi-teologicamente: la consapevolezza della nostra finitezza e imperfezione postula in noi l'idea di un essere perfetto: questa idea deve provenire da una causa adeguata che non può essere se non Dio. Le conoscenze che in noi hanno l'impronta dell'evidenza razionale immediata sono idee innate, sono state impresse in noi da Dio. È vero tutto che ci appare chiaro e distinto; ce n'è garante Dio, somma verità. L'errore non è intrinseco al pensiero, nasce dall'indebita intrusione degl'interessi pratici nella conoscenza. La risposta di Cartesio non poteva in tutto soddisfare; era ancora troppo teologica; i due termini erano piuttosto accostati estrinsecamente che mediati fra di loro. Da un lato difatti il cartesianismo sbocca nel monismo spinoziano, dall'altro nel monadismo leibniziano e nel razionalismo illuministico. Mentre Spinoza ha avuto scarsa efficacia sullo svolgimento del pensiero pedagogico moderno, il motivo vitale che sta a fondamento del leibnizianismo e che è stato sviluppato in modo popolare dall'illuminismo ha esercitato un'azione decisa sul nuovo orientamento immanentistico e laico dell'educazione. L'originalità dell'empirismo in generale è l'affermazione che il soggetto deve sentirsi presente nel proprio oggetto, che il suo mondo non può essere che il mondo della sua propria esperienza. Fuori di esso non è certezza. Locke ha posto nettamente il problema nei riguardi delle idee innate di Cartesio: non c'è nulla d'immediato e d'innato in noi. Tutto che possediamo risale alla nostra esperienza sensibile. Ricorrere all'intuito, come fa Cartesio, non è spiegare. Occorre dedurre, indagare l'origine della nostra conoscenza. È nota l'obiezione di Leibniz alla soluzione lockiana: è vero, nulla è nell'intelletto che prima non sia stato nel senso, eccettuato però l'intelletto. Il limite della ricerca di Locke è difatti nel carattere psicologico di essa. Egli confondeva l'apparizione dell'idea nella coscienza con il valore intrinseco di essa, il processo del suo apparire empirico con l'essere. La sua originalità è nell'avere insistito sulle idee di esperienza e di deduzione. Esse condurranno il lockismo, attraverso Berkeley, a mettere in risalto anch'esso, come il razionalismo cartesiano, la soggettività del reale.
La pedagogia di Locke, in particolar modo i Pensieri sull'educazione, non ha nulla di sistematico e si fa persino fatica talvolta a ricollegarla alle sue tesi gnoseologiche. Procede per affermazioni, aforismi, consigli, in modo banalmente rapsodico. Eppure tutta la sua attenzione è sempre rivolta alla formazione della personalità del discente attraverso la sua propria esperienza. "Il fine dell'educazione, dice nella Condotta dell'intelletto, non è già di rendere gli uomini perfetti in alcuna scienza, ma di aprir loro la mente, in modo che siano capaci di riuscire in tutto ciò a cui si applicano". Donde il suo disprezzo per le investigazioni sul metodo migliore, per le regole, per le dispute di scuola, per il formalismo e le cognizioni libresche, per il sapere che non germoglia dall'esperienza personale. Egli ha già intravveduto il problema di Rousseau, sia pure con molto minore chiarezza, energia e coerenza. La fiducia inconcussa nell'appello alla ragione anche coi bimbi, nell'efficacia della persuasione il richiamo continuo al senso dell'onore e della dignità personale, il ripudio di ogni forma di imposizione coattiva dell'intelletto e della volontà, la celebrazione della libera iniziativa nel lavoro e nel giuoco, il suo modo di concepire la moralità come frutto naturale dello svolgimento normale dello spirito, quel senso profondamente umano d'indulgenza intelligente e bonaria che alimenta le migliori pagine dei suoi Pensieri, traggono tutti ispirazione dalla fede nelle forze spontanee e nell'autonomia della ragione umana, presupposto che imprime a tutto il lavoro, letterariamente frammentario, un'intima unità ideale, che non possiede nessun'altra opera pedagogica contemporanea, e un sapore di modernità che la distingue nettamente da tutte le precedenti.
Chi ha inteso l'originalità filosofica di Cartesio e, sia pure in ambito più ristretto, di Locke, non potrà accettare senza beneficio d'inventario la denominazione di "Galilei della pedagogia", che è stata attribuita al Comenius. La sua Didactica Magna e, in generale, tutta la sua farraginosa produzione letterario-educativa è un tardo frutto del naturalismo del Rinascimento, geniale spesso per le intuizioni precorritrici che vi abbondano e molto notevole nella storia delle istituzioni scolastiche per l'azione rinnovatrice che ha esercitato su vaste zone educative e politiche, ma in sé inorganica e priva di un concetto animatore veramente originale (v. Komenský).
Dopo Locke e prima di Rousseau, l'unica voce nuova nella storia del pensiero pedagogico è il Vico. Vico è il primo critico europeo veramente degno di Cartesio, essendo stato il primo a indicare la via per approfondirne e superarne a un tempo il motivo di vero che era nel suo razionalismo. Il criterio cartesiano della verità, egli obietta, è insufficiente. Vero non è quel che noi conosciamo in modo chiaro e distinto, ma quel che produciamo noi. "Il criterio di avere scienza di una cosa è mandarla ad effetto". Noi conosciamo davvero le sole proposizioni geometriche, quia facimus, ma esse non sono adeguate alla concretezza del reale e quindi noi siamo sì ricchi, ma di una ricchezza illusoria. Dio solo ha scienza perfetta. Più tardi però e in particolar modo nei suoi Principii di um scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni, Vico trionfa dello scetticismo iniziale con la scoperta del concetto di storia. Poiché "quando avviene che chi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa la storia" vero e fatto coincidono (verum et factum convertuntur) e noi possiamo avere scienza perfetta del mondo umano, perché esso è fattura nostra. La verità è nel soggetto, ma non già nell'intelletto del singolo, bensì nello spirito umano come si viene svolgendo nella storia. Vico rivalutava d'un colpo tutte le forme di sapere, cui Cartesio aveva negato verità (storia, lingua, norme della prudenza ecc.), e che costituiscono il fondamento di ogni educazione. E lo poteva fare perché per lui verità e libertà dello spirito non sono più dati, ma un processo inesauribile, in cui anche i momenti che ai cartesiani parevano errore e schiavitù a loro luogo sono anch'essi celebrazione di umanità. Come Vico scopriva la mentalità dei popoli primitivi e indicava i canoni d'interpretazione della loro natura e della loro civiltà, scopriva altresì il mondo dell'infanzia. La verità non ci è porta da un'intuizione, ma è conquista faticosa. Ubbidire alla storia non è già servire un padrone capriccioso, ma obbedire a noi stessi, alla nostra più profonda natura. "Si dee certamente obbligazione a Renato, che volle il proprio sentimento regola del vero; perché era servitù troppo vile star tutto sopra l'autorità. Ma che non regni altro che il proprio giudizio, e non si disponga che con metodo geometrico, questo è pur troppo. Ormai sarebbe tempo da questi estremi ridursi al mezzo: seguire il proprio giudizio, ma con qualche riguardo all'autorità; usare l'ordine, ma qual sopportano le cose".
In tal modo il principio cartesiano era liberato della sua unilateralità individualistica e rivoluzionaria e reso infinitamente più profondo e comprensivo.
Il suo De nostri temporis studiorum ratione, orazione inaugurale del 1708, è il primo grande monumento pedagogico italiano moderno e preannunzia la critica che sarà rivolta alla pedagogia illuministica dall'idealismo del sec. XIX. In esso, e in poche altre pagine del carteggio e in particolar modo nella lettera a Francesco Solla, la pedagogia di Cartesio o meglio dei cartesiani, poiché il maestro non aveva rivolto la sua attenzione al problema dell'educazione in senso ristretto, è assoggettata a una critica tagliente, cui fa però spesso difetto un'adeguata comprensione del motivo di vero ch'era nella posizione degli avversarî, vale a dire della ragione storica del loro razionalismo. Sostituire nell'educazione il criterio delle idee chiare e distinte al senso comune, all'autorità del genere umano, significa capovolgere il processo naturale e porre all'inizio il punto d'arrivo. I cartesiani "empiono il capo" de' giovani de' magnifici vocaboli di "dimostrazione", di "evidenze", di "verità dimostrate", "come se i giovani dalle accademie dovesser uscire nel mondo degli uomini, il quale fossesi composto di linee, di numeri e di spezie algebraiche". E negano autorità al verisimile, mentre invece "è un gran motivo di vero ciò che sembra vero a tutti o alla maggior parte degli uomini, di che non hanno più sicuro i politici in prendere i loro consigli, né i capitani in guidare le loro imprese, né gli oratori in condurre le loro cause, né i giudici in giudicarle, né i medici in curare i malori de' corpi, né i morali teologi in curar quelli delle coscienze; e finalmente la regola sopra la quale tutto il mondo si acquieta e si riposa in tutte le liti e controversie, in tutti i consigli e provvedimenti, in tutte l'elezioni, che tutte si determinano con tutti o con la maggior parte de' voti".
Ecco perché la gioventù esce dalle scuole "arida e secca nello spiegarsi e senza far nulla vuol giudicare di ogni cosa". L'arte della critica appresa troppo per tempo taglia il nerbo al senso comune che solo soccorre "negli affari ferventi che non danno tregua al consiglio". Il comune degli uomini non è mente, ma memoria e fantasia e ad ogni modo all'uso della mente ci si solleva soltanto attraverso la cultura della memoria e della fantasia. Prima di giudicare, i giovani devono aver appreso. Solo chi avrà coltivato la memoria con lo studio delle lingue, la fantasia con le lezioni de' poeti, storici ed oratori, l'ingegno con la geometria lineare, sarà in grado di giudicare.
La pedagogia da Rousseau a Herbart. - Anche Rousseau è parso a molti volere "il proprio sentimento regola del vero", e ne fu tratta la facile conseguenza, ch'egli fosse stato già confutato da Vico, "avant la lettre". Ma "il problema Rousseau" è assai più complicato che non paia a certa critica. Da un lato egli esaspera molti motivi individualistici della pubblicistica dell'illuminismo, e accoglie in sé, accentuandone la virulenza, si può dire tutti i fermenti d'insofferenza e di rivolta del tempo suo. Fu proclamato un anarchico e un dissolvitore, e lo fu realmente nei riguardi della realtà sociale esistente. Ma è vero altresì che niun contemporaneo suo ebbe più vivo di lui, si direbbe quasi più religioso, il senso della "legge", nessuno superò il suo odio implacabile contro ogni forma di asservimento dell'uomo all'uomo. Questo egoarca era assetato di ordine, di diritto, di giustizia. Nonostante le molte apparenze in contrario, Hegel ha colto nel segno: "il principio della libertà è sorto con Rousseau, e ha dato all'uomo, che si considerava infinito, questo infinito vigore". "Renoncer à la liberté", aveva difatti affermato il Ginevrino, "c'est renoncer à ce qui caractérise l'homme".
Eppure non è men vero che, nella considerazione del problema politico, pare che Rousseau si dibatta fra l'anarchia e il dispotismo statale e, nella teoria dell'educazione, fra la negazione di ogni disciplina o esaltazione dell'io naturale e dei suoi impulsi e la sottile, ininterrotta, insopportabile oppressione del pedagogo onnipresente. E non è men vero che il suo stato e il suo metodo educativo dànno l'impressione anche al più distratto osservatore di essere alcunché di artificioso, di "costruito", che contrasta profondamente col concetto moderno di spontaneità e di libertà spirituale, di cui Hegel fu banditore e profeta. La contraddizione si risolve o almeno si chiarisce da un punto di vista storico, se invece di considerare su uno stesso piano tutte le opere e tutte le affermazioni di Rousseau, si tenta di seguire, al di là delle espressioni verbali, l'evoluzione del suo pensiero, dall'ingenua posizione retorico-naturalistica dei Discorsi, in cui si proclama l'artificiosità e innaturalità della vita sociale e dello stato, e si esaltano l'immediatezza istintiva e la primitività edenica, alle opere della maturità, in particolar modo l'Emilio e il Contratto sociale, dove il problema è del tutto nuovo: determinare la natura intrinseca dello stato e della educazione. Da questo nuovo punto di vista, che non è mai assurto in lui a tale grado di consapevolezza da liberarlo del tutto dalla posizione naturalistica della giovinezza (donde le contraddizioni e incongruenze che tutti hanno sempre messo in risalto nell'opera sua), l'essenza dello stato è riposta nella volontà e non più nella forza, è cioè riconosciuta la razionalità dello stato così apertamente che viene affermato che si possono costringere i cittadini ad obbedire alla legge senza violare la loro libertà personale. La "volonté générale" è la volontà dello stato perché è ad un tempo la più profonda volontà dei cittadini e non ha nulla a che vedere con la "volontà di tutti". Rousseau intravvede cioè il principio che diventerà la sostanza stessa del concetto idealistico moderno dello stato, essere esso la suprema celebrazione della libera volontà dell'individuo ("on est plus libre dans le pacte social que dans l'état de nature"), ed espone ingenuamente il nuovo punto di vista conquistato col dire ch'egli è in cerca di "una forma di associazione grazie alla quale ciascuno non obbedisca che a sé stesso, e rimanga non meno libero di prima". Nelle quali parole balza vivo agli occhi l'equivoco fondamentale di Rousseau, esprimere in termini del più crudo individualismo una verità che è il superamento di ogni individualismo.
Così nell'Emilio il ritorno alla natura diventa l'obbedienza alla "marche de la nature", al "développement interne de nos facultés et de nos organes"; il problema è ormai dunque quello d'intendere l'educazione come processo di autosvolgimento della personalità. L'uomo, attraverso l'educazione deve essere posto in condizione "qu'il voie par ses yeux, qu'il sente par son coeur; qu'aucune autorité ne le gouverne hors celle de sa propre raison". Due soli maestri gli possono dare questo dominio di sé: "l'expérience et le sentiment" (cioè l'immediatezza del sentimento morale). Gli altri insegnanti debbono collaborare con essi, non sostituirsi ad essi. L'educazione deve essere "negativa", vale a dire tempestiva, non già "attiva", che è quanto dire non intervenire a sproposito, violando il normale e spontaneo svolgimento del processo naturale. Oramai l'educazione naturale non è già quella che tende a conservare l'integrità di un'ipotetica purezza originaria contrapposta alla mala influenza della vita sociale, come è stato troppo spesso affermato, con gli occhi rivolti alla posizione dei Discorsi, ma a salvaguardare e a promuovere la spontaneità, l'autonomia dell'educando nella vita sociale. "Émile n'est pas un sauvage à reléguer dans les déserts, c'est un sauvage fait pour habiter les villes". Naturalmente questo nuovo punto di vista conquistato è continuamente contrastato in lui dai pregiudizî naturalistici suoi e del suo tempo. Egli finisce con l'irrigidire in uno schema empirico, spesso arbitrario e fantastico, in una storia tipica dello svolgimento spirituale il profondo concetto di autoformazione. L'Emilio è una fenomenologia senza sintesi a priori. Ma, nonostante le deficienze, le contraddizioni, i limiti del suo pensiero, Rousseau rimane il primo filosofo moderno della personalità prima di Kant, e Kant ha dichiarato di avere imparato da lui ad apprezzare l'umanità nell'uomo.
È questo il segreto del fascino che le sue pagine esercitano ancora su di noi, sebbene i nostri interessi e i nostri gusti siano ormai così radicalmente diversi dai suoi.
Con il concetto di sintesi a priori e in particolar modo con quello di autonomia della volontà (la moralità è la volontà che si realizza ovvero il fine della volontà è la realizzazione della sua stessa libertà), Kant poneva implicitamente le fondamenta di una pedagogia come scienza della personalità autonoma, verso la quale, abbiamo veduto, si muovono tutti gli indirizzi educativi più vitali dall'Umanesimo in poi e appagava l'esigenza più profonda dell'autore dell'Emilio. Ma né Kant né i grandi maestri dell'idealismo postkantiano rivolsero la loro attenzione ai problemi specifici dell'educazione se non incidentalmente e sempre in margine ai dibattiti centrali dei loro sistemi. Per quanto, indirettamente, l'approfondire la conoscenza del processo dialettico dello spirito mediante il quale esso perviene alla consapevolezza di sé, che è stata la maggiore originalità dell'idealismo da Kant a Hegel, significava fondare speculativamente quella pedagogia del soggetto, che sarà poi svolta in modo sistematico molto più tardi. Ci è pervenuta anche una Pedagogia di Kant, ma è opera di scarso valore, raccolta inorganica di appunti tratti da sue lezioni accademiche. L'indagine non è rivolta a dedurre dai principî delle tre Critiche una sistematica pedagogica, fatta eccezione in parte per il problema della cultura morale, che è però esaurientemente discussa soltanto nella seconda parte della Critica della ragione pratica (Dottrina del metodo della ragion pura pratica). Essa si limita a illustrare dal punto di vista del buon senso e di una fine e penetrante esperienza educativa molte questioni che suole sollevare la considerazione empirica della scuola. Vi si sente di continuo l'influsso del Rousseau, ma di un Rousseau ripensato da una mente indipendente e originalissima anche nelle piccole cose.
L'uomo per natura non è né buono né cattivo, non essendo per natura un essere morale. "Lo diventa solo quando la sua ragione s'innalza all'idea del dovere e della legge. L'uomo non può diventare moralmente buono che grazie alla virtù, ossia mediante la padronanza di sé stesso, sebbene possa rimanere innocente fino a che gli mancano gli stimoli al male. I vizî derivano per lo più dal fatto che la civiltà fa violenza alla natura; eppure il nostro destino di uomini è di uscire dallo stato primitivo di natura, nel quale siamo meramente animali. L'educazione consiste nello stabilire in tutto i giusti principî e farli intendere e accettare dagli educandi. Questi debbono imparare a sostituire all'odio (per le persone) l'orrore per tutto ciò che è spregevole e assurdo; al timore degli uomini o dei castighi divini il timore della propria coscienza; all'opinione altrui la stima di sé e la dignità interiore; al valore delle parole e degli affetti il valore intrinseco delle azioni e della condotta; al sentimento la ragione; debbono infine imparare a sostituire una serenità di spirito e una pietà fidente alla devozione paurosa, tetra e opprimente".
Il lato più originale del suo pensiero educativo è, storicamente, l'opposizione decisa a ogni forma di sentimentalismo, di rispetto della "natura", di appello al cuore, con cui si era, inadeguatamente, voluta affermare l'autonomia della personalità, opposizione condotta proprio in nome di questa autonomia. Educato moralmente è soltanto chi ha appreso a subordinarsi consapevolmente alla legge del dovere, che coincide con la stessa sua libertà. Dopo un breve periodo di disciplinamento con mezzi eteronomi, "dev'essere assolutamente presentato all'anima il motivo determinante morale, il quale non solo per essere l'unico che fondi un carattere (un modo pratico e coerente secondo massime immutabili), ma anche perché insegna all'uomo a sentire la sua propria dignità, dà allo spirito una forza ch'esso stesso non supponeva, per distaccarsi da ogni affezione sensibile che tenda a diventare predominante, e per trovare nell'indipendenza della sua natura intelligibile e nella grandezza d'animo, a cui l'uomo si vede determinato, un largo compenso per i sacrifici ch'egli affronta".
Hegel ha osservato che "il principio formale della legislazione in questa solitudine non perviene in sé stesso a determinarsi". Lo sforzo maggiore della speculazione idealistica posteriore a Kant fu infatti di determinare il sistema in cui lo spirito si realizza come autonomia, che è il perno di ogni pedagogia della libertà.
Nell'ambito delle idee promosse da Kant si muovono le Lettere sull'educazione estetica di Schiller, in cui si tenta di comporre nella sintesi dell'arte creatrice l'insuperato dualismo kantiano di natura e libertà, La missione del dotto, L'essenza del dotto, i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte e, in sostanza, anche le Lezioni sul metodo dell'insegnamento accademico di Schelling. Il ripudio fichtiano della cosa in sé e la considerazione del non-io, della natura come contrapposizione necessaria in seno all'io perché esso possa realizzarsi, avvia la soluzione del dualismo kantiano di fenomeno e noumeno, d'inclinazione e ragione, e comincia a rendere finalmente pensabile l'educazione come processo di autoformazione dello spirito, che nell'apparente alienarsi da sé (così nel conoscere come nell'operare morale) conquista più profondamente sé medesimo. Il "dotto", che aspira all'universalità del vero, al di là di tutti gl'interessi contingenti e mira a instaurare in sé l'unità dell'io sulla molteplicità naturale del non-io impersona l'ideale dell'educazione umana. Nei Discorsi pronunciati a Berlino non molto dopo la sconfitta di Jena e accolti con profonda commozione ed entusiasmo, Fichte eccita la nuova Germania a prepararsi al riscatto col ritemprare le proprie forze fisiche e spirituali e col prendere coscienza della sua missione storica, che egli identifica con la più alta missione dell'umanità. A questo fine propugna l'introduzione in tutte le scuole tedesche del metodo pestalozziano. Nelle Lezioni Schelling, muovendo dal principio che "il passaggio all'obiettività importa necessariamente la reale divisione delle scienze singole, perché esse nel sapere fondamentale sono una cosa sola", tenta di spiegare e conciliare l'esigenza della molteplicità (scienze) con quella dell'unità del sapere (filosofia). Il vero sapere, che si realizza specialmente nell'insegnamento accademico, è il sapere che si solleva all'autocoscienza della sua unità, in un organico sistema di relazioni, in tutto rispondente al sistema del reale.
Ma il pensatore, che ha per primo conquistato un concetto veramente adeguato dello spirito come autonomia, inverando le esperienze filosofiche e il più profondo motivo speculativo di Fichte e Schelling, è stato Hegel; il suo idealismo assoluto, superando il parallelismo di natura e spirito, di cui non erano riusciti a trionfare interamente i suoi predecessori, risolve decisamente la realtà nel pensiero e fa dell'Idea (che è in sé nel logo, per sé nella natura, in sé e per sé nello spirito) il perno del processo assoluto mediante cui la mente si realizza nel suo mondo, pervenendo alla totale consapevolezza di sé nell'arte, nella religione e nella filosofia. Il suo concetto del divenire e dello spirito come infinita autocoscienza fondava finalmente in modo adeguato la dottrina dell'autoeducazione, con cui, abbiamo veduto, s'inizia la pedagogia moderna, per quanto Hegel non ci abbia dato una trattazione sistematica del problema pedagogico.
A questo stesso concetto piuttosto intuito e vissuto intensamente che ripensato rigorosamente alla luce di una matura consapevolezza speculativa s'ispirano pure nella loro azione di maestri e nella loro opera letteraria i due maggiori apostoli dell'educazione infantile nell'età che potremmo dire rousseauiana, perché dominata ancora immediatamente dalla personalità e dai problemi dell'autore dell'Emilio (1770-1830 circa), Pestalozzi e Froebel. La pedagogia di Pestalozzi ha superato quasi ogni traccia di dommatismo e di oggettivismo: lo spirito è legge a sé stesso; l'educazione è un processo autonomo; non c'è sapere né moralità che non provenga dall'esperienza personale. La persuasione che lo spirito si debba svolgere per intrinseco impulso domina la sua pedagogia sin dai primi esperimenti di Neuhof, ma diventa sempre più intima e chiara in seguito. Egli ha pure un vivo senso, per così dire, della storicità dello spirito, che fa difetto a Rousseau. Processo naturale per lui è quello che rispetta non già "l'homme abstrait", ma la personalità storicamente determinata del discente; altrimenti si costruisce sul vuoto. Alla formazione armonica delle varie attività dell'uomo, fine immanente di ogni educazione spontanea, si perviene unicamente con l'esercizio normale di esse, con la libera attività. "Tutte le forze umane si svolgono col semplice uso". Nella scuola si suole seguire l'ordine inverso. Si muove dal sapere dell'educatore anziché dalle esigenze concrete dell'educando. Ecco la fonte di ogni corruzione; ecco perché le scuole non sono che "ingegnosi spegnitoi". Si riempie la memoria di conoscenze altrui e si fanno contrarre abitudini. Si astrae proprio dall'unica cosa che conta, l'esperienza diretta dell'individuo. Invece "l'educazione elementare", così egli suole designare il suo metodo naturale e spontaneo, "non è altro che un ritorno alla verace arte educativa, a quella del focolare domestico, in tutta la sua semplicità. Ed è veramente l'arte suprema". Che significa "ritornare" alla "verace arte educativa" della famiglia? Esaminiamo in questo caso particolare in quali difficoltà si dibatta la didattica di Pestalozzi. Da un lato egli intende mettere così in risalto la concretezza e spontaneità del processo educativo familiare in contrapposizione all'astrattezza e meccanicità dell'esercizio scolastico, la fecondità educativa della collaborazione spontanea al lavoro della comunità familiare di contro all'occupazione imposta estrinsecamente dal maestro, e finalmente vuole affermare anche che l'amore e la dedizione disinteressata sono la prima condizione di ogni comunione educativa. Ma Pestalozzi intende dire dell'altro: la scuola deve conformarsi alla elementarità e semplicità immediata dei procedimenti materni. Se riusciremo a determinare quali sono questi procedimenti, a scoprire dei mezzi "che riducano il maestro a semplice strumento di un metodo, i cui risultati provengano dalla naturalezza delle sue forme, non dall'arte dell'esecutore" avremo risolto il problema didattico. Dove si confonde la quasi divina semplicità dei grandi maestri o della madre che sia davvero madre con la rozza elementarità di mezzi didattici alla portata di tutti. Il medesimo errore riappare di continuo nelle sue indagini, rendendo spesso infecondi i risultati della sua esperienza personale. Riappare nel concetto di "intuizione", che egli poneva a fondamento della sua didattica. Nel suo significato più profondo l'intuizione coincide col principio stesso della spontaneità e dell'autonomia. Intuitiva è per lui ogni espressione dell'attività umana che sia frutto dell'esperienza dell'individuo, ogni atto di effettuale accrescimento dello spirito su sé stesso. Ma egli ha preteso di creare anche una metodica dell'intuizione e ne è venuta fuori la teoria dei tre "elementi primi", numero, forma e linguaggio; i quali però, non essendo principî a priori dell'attività didattica (P. non tenta neppure una impostazione speculativa del problema), ma puri schemi empirici, non potevano non avvolgere Pestalozzi in una rete inestricabile di problemi insolubili, nettamente in contrasto con l'ispirazione più profonda della sua didattica. E il metodismo affliggente di molti, di troppi pestalozziani del sec. XIX è nato da queste sue indagini e pretese inconcludenti, non già dalla sua esperienza di maestro, di cui, pur fra molti difetti, rimangono insigne testimonianza le sue opere più vive. Leonardo e Geltrude, I discorsi alla mia casa, Come Geltrude istruisce i suoi figli, Madre e figlio, Il canto del cigno. Ma l'incapacità di Pestalozzi di assoggettare a riflessione sistematica i risultati delle sue esperienze didattiche e la sua scarsa consapevolezza della inconciliabilità di esigenze reciprocamente contraddittorie, non devono farci dimenticare ch'egli ci ha lasciato un tesoro di osservazioni sull'anima e sull'educazione dell'infanzia, che è diventato non solo il patrimonio dei migliori educatori del sec. XIX, contribuendo alla creazione della nostra scuola elementare e popolare e al diffondersi e consolidarsi delle idealità e dei metodi che ancora prevalgono in essa, ma ha ispirato i maggiori pensatori che, dopo di lui, hanno fatto oggetto delle loro indagini i problemi educativi, da Fichte e Herbart a Gentile.
L'unico veramente geniale discepolo di Pestalozzi è stato Federico Froebel, il creatore dei "giardini d'infanzia". La sua originalità consiste nella scoperta del mondo dell'infanzia nella pienezza dei suoi interessi. Egli ha rivelato più a fondo di Pestalozzi (ancora in parte legato ai pregiudizî naturalistici, filantropici e moralistici del suo tempo) l'umanità del fanciullo, come libera attività creatrice, avente in sé il proprio fine. Questa materna penetrazione degl'interessi della prima infanzia gli ha rivelato il significato e il valore del giuoco, cioè la profonda serietà dell'attività creatrice del bimbo. Egli, accanto a Richter, autore di Levana, e a Schleiermacher, si può considerare uno dei più originali interpreti dell'anima del romanticismo.
Alla migliore tradizione pestalozziana si ricollegano anche (mediatori altri educatori svizzeri, Padre Girard, Necker de Saussure, i Naville, Vinet), taluni dei più acuti educatori e scrittori italiani di problemi educativi del cattolicismo liberale, nel Risorgimento italiano, e in particolar modo Gino Capponi, autore di un frammento Sull'educazione, ch'è una delle opere più originali della prima metà del secolo, e Raffaello Lambruschini, il quale ha affidato il suo pensiero a numerose opere e riviste, ma soprattutto a un volume di intonazione popolare, Della educazione, e a un'opera postuma e frammentaria, Dell'autorità e della libertà. Pensieri d'un solitario, il suo capolavoro. Il loro problema centrale fu quello della conciliazione, nell'ambito dell'educazione cattolica, della tradizione dogmatica e dell'autorità della Chiesa con l'autonomia della coscienza del credente. Che è il problema che sarà ripreso da altri cattolici contemporanei, che si ricollegano al movimento del modernismo, e in particolar modo da M. Blondel e da L. Laberthonnière.
Da Kant e Pestalozzi prende pure le mosse, per discostarsene però sempre più decisamente, Herbart, che fu considerato a lungo come il fondatore della pedagogia scientifica e ha suscitato un largo movimento di ricerche psicologico-didattiche, in particolar modo in Austria e in Germania, le quali però non hanno lasciato quasi nessuna traccia nella storia della pedagogia per l'inadeguatezza filosofica dei presupposti da cui muovevano, che in Herbart, comunque li si giudichi, hanno un'impronta metafisica, mentre nei suoi seguaci sono presto degenerati a enunciazioni grossolanamente empiristiche. L'intuizione atomistica e matematizzante ch'egli ebbe della realtà, il suo ripudio dell'a priori, del trascendentale, di ogni idea di svolgimento, la sua psicologia senz'anima, regolata da leggi meccaniche, che riduce ogni forma di attività all'autoconservazione puntuale dei Reali (v. herbart), contrastano profondamente in lui con la costante preoccupazione d' interpretare e giustificare filosoficamente la sua seria esperienza del mondo morale e dei problemi della educazione, il suo pestalozzismo in atto, e hanno sempre indotto i critici più acuti a considerare la sua persona di pensatore e la sua opera come uno dei più ambigui paradossi storici.
Non soltanto è inesatto che Herbart abbia fondato la pedagogia scientifica (l'aver collegato estrinsecamente la pedagogia da un lato alla psicologia, che le dovrebbe fornire la conoscenza del meccanismo psichico, e dall'altro all'etica, che le traccerebbe la finalità da conseguire, come è stato esaurientemente chiarito, non costituisce affatto una dimostrazione dell'autonomia scientifica di essa), ma occorre piuttosto affermare che molte teorie e osservazioni pedagogiche e didattiche sue conservano ancora una loro intrinseca verità non già perché dedotte dai presupposti metafisici del sistema, ma perché accolte dalla tradizione kantiana e pestalozziana o conquistate attraverso la sua esperienza di maestro, ma non mai fuse nell'organismo del suo sistema. Ancora una volta l'uomo valeva molto di più del suo sistema. Le teorie dell'interesse multilatere, della concentrazione, del procedimento ciclico, le sue osservazioni sulla disciplina, sull'insegnamento classico ecc., debbono essere reinterpretate alla luce di un pensiero che cominci col ripudiare energicamente il suo rigido determinismo psichico per rivelare la loro verità e fecondità. Solo a questo patto, la sua Pedagogia generale dedotta dal fine dell'educazione, il Disegno di lezioni di pedagogia e altri scritti minori possono trovare un posto onorevole nella storia del pensiero pedagogico moderno.
La pedagogia del positivismo. - Con l'esaurirsi della vena speculativa, che si nota dovunque in Europa verso la metà dell'Ottocento, col tramonto dell'idealismo e del romanticismo, col diffondersi e prevalere dei nuovi indirizzi naturalistici, positivistici, materialistici, che, mentre stanno ad attestare, oltre che indifferenza e disaffezione, un profondo spostamento d'interesse (dai problemi della "humanitas" a quelli della natura; dalla letteratura, dalla storia, dalla filosofia alle scienze sperimentali, all'economia e alla vita pratica esaltati ora come studî positivi), costituiscono una salutare reazione alle esorbitanze in particolar modo della filosofia della natura e della storia, di cui si rese ripetutamente colpevole la nuova scolastica schellinghiana e hegeliana, anche la pedagogia pare rinunciare a un vistoso patrimonio di verità per ridursi a un empirismo ingenuo e grossolano e a un naturalismo che pretendeva di ricondurre alle forme elementari di attività le più alte manifestazioni dello spirito. Non si vuol più sentir parlare di metafisica. Si insiste sulla limitatezza dei poteri della ragione. Si inculca con unzione che occorre attenersi ai fatti. Si fa appello, contro le "caligini" e le "lambiccature" della filosofia, al "testimone potente dei sensi". Da Comte in poi si ripete dommaticamente che la storia ha condotto l'umanità a liberarsi della metafisica e a sostituirla con le scienze naturali, sociali e storiche, e che il compito della filosofia è ormai di coordinare i risultati delle scienze in un "sistema scevro di contraddizioni". Le soluzioni dei problemi dello spirito sono chieste alle scienze sperimentali, all'anatomia, alla fisiologia, alla patologia, alla psicologia o fisiopsicologia. Lo studio del "fatto educativo" è abbassato alla determinazione dei "fattori" dell'educazione, delle leggi fisiologiche e patologiche dell'eredità, delle nozioni utili alla vita sociale, del meccanismo dell'abitudine, ecc.
Lo scopo principale dell'educazione, afferma lo Spencer nella sua Educazione intellettuale, morale e fisica, che fu considerata a lungo l'ultimo verbo della nuova sapienza, è quello di prepararci a un'esistenza completa", "ed il solo modo razionale per giudicare un sistema educativo è quello di esaminare fino a che punto esso adempia a questo compito". Per discutere un corso di studî occorre muovere dalle seguenti idee generali: dividere la vita in diverse specie di attività secondo l'ordine decrescente della loro importanza; considerare il valore di ogni ordine di fatti che regola queste diverse specie di attività secondo il suo carattere intrinseco, quasi intrinseco e convenzionale; e riguardare le loro influenze regolatrici sotto un duplice aspetto, come sapere e come disciplina". Valore intrinseco posseggono le conoscenze delle scienze che valgono per tutti e in ogni tempo e ci sono indispensabili nella vita; quasi intrinseco quelle che valgono soltanto per noi o per un tempo determinato (p. es. la conoscenza della lingua nazionale), convenzionali le molte inutili che ingombrano la nostra cultura, p. es. la storia "semplice tessuto di nomi, di date o di eventi senza significato". Donde l'ordine gerarchico delle nozioni da impartire nell'istruzione secondo la loro intrinseca utilità: fisiologia, igiene, matematica, fisica, chimica, biologia, scienza sociale ecc.
Su questo utilitarismo si innesta arbitrariamente uno scientifismo di tipo enciclopedistico, alla Condorcet. La scienza non ci dà soltanto notizie necessarie alla nostra conservazione e al nostro benessere, disciplina anche la mente e il carattere. "Essa fa continuamente appello al raziocinio individuale, ed i suoi veri non sono accettati solo d'autorità, ma ognuno può metterli alla prova, anzi in molti casi si esige che lo scolaro giunga da sé alle conclusioni".
Non tutti i positivisti sono così candidi. In altri, p. es. nel nostro Ardigò, si trova molto maggiore vigoria di pensiero; in altri ancora preoccupazioni pratiche (p. es. l'odio implacabile contro ogni forma di teologismo e di confessionalismo religioso) infondono un accento di vita nei loro schemi pseudoscientifici. Ma il positivismo in sostanza è sempre una rinuncia al filosofare, come la sua pedagogia muove sempre dalla negazione del fatto stesso che dovrebbe spiegare.
Eppure, non si può negare che il positivismo sia stato un progresso storicamente e abbia contribuito, sia pure in via negativa e indiretta, all'approfondimento dei problemi filosofici e pedagogici. L'esigenza intimamente immanentistica e laicistica, l'affermazione della storicità del reale (compreso il mondo del meccanismo naturale), il ripudio di qualsiasi residuo di essenza, di noumeno, di inconoscibile trascendente il fenomeno, l'implacabile avversione contro ogni forma di teologismo e di finalismo astratto nell'etica e nella gnoseologia, che erano impliciti nella logica del positivismo, anche quando i positivisti individualmente hanno tradito questa logica, costituiscono un reale progresso sull'idealismo e spiritualismo precedenti e difatti sono stati accolti come motivi di vero e approfonditi dalla speculazione contemporanea che a quell'idealismo e spiritualismo si ricollega.
La pedagogia contemporanea. - Il senso vivo della inadeguatezza delle soluzioni proposte dal positivismo e dal naturalismo, conculcatrici dell'originalità dello spirito e dei diritti della personalità, accomuna molti indirizzi del pensiero contemporaneo, per altri riguardi profondamente divergenti, dal contingentismo del Boutroux alla filosofia dei valori di Windelband e Rickert, alla filosofia dell'azione blondeliana, alla critica delle scienze di Poincaré, Mach ecc., all'intuizionismo mistico di Bergson, al pragmatismo di James, al neo-idealismo nelle sue varie accezioni e diramazioni. Ma, eccettuato l'idealismo assoluto italiano, nessuno di questi indirizzi ha dato impulso a un moto di pensiero pedagogico davvero originale e organico. Fini e penetranti p. es. le pagine che il Boutroux dedica a taluni problemi didattici, ma punto originali. I discorsi ai maestri di James sono una rivendicazione della spontaneità nell'educazione, ma fa difetto la giustificazione filosofica. Profondamente pensato il saggio del Laberthonnière su la Teoria dell'educazione, ma egli rimane al di qua delle più vitali esigenze del positivismo, di cui mette in risalto deficienze e limiti. Ancora meno significativi sono altri indirizzi promossi da educatori pratici contemporanei, la cui risonanza, talora mondiale, non ha nulla a che vedere con l'approfondimento e il progresso delle idee.
La pedagogia idealistica italiana è una delle espressioni più alte di quel ravvivarsi di interessi estetici, storici, speculativi che contrassegna i primi due decennî del secolo XX in Italia. Si riannodano in quegli anni i fili di una gloriosa tradizione indigena di pensiero, che può annoverare fra i suoi maestri Vico e De Sanctis, apparentemente spezzati dalla breve parentesi positivistica, e si rivive, approfondendola, con mente spregiudicata e con grande libertà di movenze, l'esperienza speculativa non solo dell'idealismo postkantiano ma di tutti gl'indirizzi e motivi più originali del pensiero moderno. Questa pedagogia, tutta pervasa della fede nell'infinita libertà dello spirito, tenta di risolvere con vigorosa coerenza speculativa ogni residuo di dualismo nel processo autonomo dell'educazione, che è identificato con l'eterno processo mediante il quale l'uomo celebra nella storia la sua concreta umanità (donde anche l'identificazione di filosofia e pedagogia). Essa trova la sua più piena e geniale sistemazione nell'opera di Giovanni Gentile (v. attualismo; gentile, giovanni), in particolar modo nella memoria del 1900, Il concetto scientifico della pedagogia, nel Sommario di Pedagogia come scienza filosofica e ne La riforma dell'educazione. Il Sommario del Gentile è la prima esposizione intimamente sistematica in cui i problemi tradizionali della pedagogia o sono idealmente dissolti, perché se ne mostra l'origine empirica e l'inconsistenza scientifica vale a dire filosofica, o sono accolti e giustificati alla luce di un pensiero che, comunque si giudichi il sistema, è finalmente in grado di dedurli dal principio dell'autocoscienza assoluta, in cui è superato ogni residuo di oggettivismo e di connessa eteronomia morale e pedagogica. Le sue opere sull'educazione, accanto a quelle del Croce sui problemi dell'estetica e della storiografia, segnano il culmine cui si è sollevata la speculazione contemporanea.
V. anche metodo.
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Delle opere particolari ci limitiamo a citarne alcune, rinviando per il rimanente alla bibliografia già contenuta, in altre voci: educazione: Storia della; filosofia: Storia, ecc.
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