PECULATO
. Diritto romano. - Il peculato (peculatus) era in origine il delitto di chi s'impadroniva di pubblico bestiame, e solo in epoca meno remota del pubblico danaro; concettualmente molto vicino al peculato era il sacrilegium (v. sacrilegio), cioè il delitto di chi s'impadroniva di cose sacre: anzi i due reati nella legislazione penale romana, e ancora nei Digesti di Giustiniano, furono trattati insieme. Le notizie che si hanno sulle più antiche norme in proposito - la repressione dell'uno e dell'altro risale certamente molto indietro - sono poco attendibili: probabilmente, almeno per il sacrilegio, dovette esser comminata la pena capitale, come, secondo le XII Tavole, era capitale la pena in talune ipotesi di furto. Ma, generalizzatasi la pena pecuniaria per il furto, lo stesso dovette accadere pel peculato, e tale è la pena in vigore alla fine della repubblica. Quanto al processo, è nota una quaestio peculatus fin dal tempo di Silla: in ogni modo tutta la materia fu regolata sotto Cesare o Augusto da una lex iulia peculatus et de sacrilegis et de residuis (a meno che la lex de residuis non sia una legge a sé). La lex Iulia rimase la norma regolatrice della materia per molti secoli, ed è menzionata ancora nel Digesto. Essendo previsto e represso da una lex publica, il peculato fu crimen publicum, giudicato da apposita quaestio.
Il peculato propriamente consisteva nel furto di pecunia publica, cioè appartenente al populus, quindi all'erario, al quale nell'età imperiale venne ad aggiungersi il fisco, e del furto doveva aver tutti gli estremi. Ben presto però il concetto si venne allargando fino a comprendere numerose ipotesi non propriamente di furto (ad es. frodi nella monetazione diverse dal falso, l'appropriazione del bottino di guerra da parte del comandante, ecc.), e, in generale, ogni frode alla cassa pubblica. Non erano propriamente peculato le sottrazioni e le frodi alla cassa dei municipî, previste nei varî statuti municipali (che però in progresso di tempo furono riassunte nel concetto di peculato); così pure il fatto di chi non restituiva beni rimastigli in conseguenza dell'esercizio di una pubblica funzione, o di chi, avendo ricevuto dalla cassa pubblica danaro per un uso determinato, lo tratteneva presso di sé o ne usava diversamente, costituiva propriamente il crimen residuorum, colpito meno severamente.
Quanto alla pena, questa, per la lex Italia, come già si è detto, era pecuniaria e probabilmente ammontava al quadruplo del valore del tolto, e ad assai meno nel caso di crimen residuorum. Nell'epoca della monarchia assoluta, secondo una tendenza generale, le pene si inaspriscono alquanto, e nel diritto giustinianeo è comminata la morte nei casi più gravi e la deportazione negli altri.
Bibl.: Th. Mommsen, Röm. Strafrecht, Lipsia 1899, p. 760 segg.; C. Ferrini, Esposiz. storica e dottrinale del dir. pen. rom., Milano 1905.
Sul trattamento giuridico di questo reato nel diritto intermedio vedi, per notizie generali, A. Pertile, Storia del diritto ital., 2ª ed. Torino 1892, V, pp. 167, 656-657.
Diritto italiano. - L'art. 168 del cod. pen. del 1889 contemplava una sola figura di peculato, consistente nel fatto del pubblico ufficiale che sottraesse o distraesse danaro o altra cosa mobile di cui egli avesse, per ragioni del suo ufficio, l'amministrazione, l'esazione o la custodia. In base a tale articolo, si discuteva se costituisse anche peculato, oppure appropriazione indebita qualificata, il fatto del pubblico ufficiale che sottraesse o distraesse cose mobili appartenenti non alla pubblica amministrazione, ma a privati che gliele avessero affidate per ragione di ufficio. Il codice del 1930 distingue le due ipotesi, ravvisando nella prima il peculato propriamente detto (articoli 314-316), nella seconda (art. 315) la figura della malversazione a danno di privati. Di più, mentre per il codice del 1889 il soggetto attivo del reato poteva essere soltanto il pubblico ufficiale, per gli articoli 314-316 del codice del 1930, soggetto attivo può essere tanto il pubblico ufficiale quanto l'incaricato di un pubblico servizio, la nozione dei quali è data dagli articoli 357 e 358 in relazione con gli articoli 359 e 360.
L'art. 314 raffigura il peculato nel fatto delle dette persone che, avendo per ragione del loro ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, se lo appropriano, ovvero lo distraggono a profitto proprio o di altri. La pena è quella della reclusione da 3 a 10 anni e della multa non inferiore a L. 1000. La condanna importa anche la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Però, se per una delle circostanze attenuanti (per le quali si veda l'art. 62) viene inflitta dal giudice la reclusione per un tempo inferiore ai tre anni, l'interdizione è temporanea (per la pena dell'interdizione si vedano gli art. 28-33). Se si prescinde dalla qualificazione giuridica del soggetto attivo, l'intima essenza del peculato non è diversa da quella del delitto di appropriazione indebita; perciò nell'art. 314 si usa la stessa espressione usata nell'art. 646 "appropriarsi di cosa mobile... di cui si abbia il possesso", intendendosi per possesso tutte le specie di esso contemplate dal codice civile. L'elemento materiale del delitto di peculato è costituito dal disporre come di cosa propria delle cose appartenenti alla pubblica amministrazione, o dal fare delle cose stesse un uso diverso da quello a cui sono destinate, se anche ciò sia fatto con l'intenzione di restituire le medesime dopo l'uso fattone. La distrazione deve essere fatta a profitto proprio o di altre persone, con che si è voluto dire che, se è fatta a profitto della stessa pubblica amministrazione, si può incorrere in una responsabilità amministrativa o politica, ma non penale.
L'art. 316 contiene una forma attenuata di peculato mediante profitto dell'errore altrui, la quale figura era contemplata nel primo capoverso dell'art. 170 del codice del 1889 come reato di concussione. Essa nell'articolo 316 è costituita dal fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore di altri (sia questi un privato o anche un altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), riceve o ritiene indebitamente (cioè senza diritto) per sé o per un terzo, danaro o altra utilità. La pena è quella della reclusione da 6 mesi a 3 anni e della multa da L. 500 a L. 10.000. Si è ritenuto peculato ciò che nel cessato codice costituiva concussione, perché il ricevere o ritenere indebitamente ciò che non è dovuto non costituisce quella concreta attività del colpevole, diretta al conseguimento della cosa, ch'è necessaria per il delitto di concussione. L'ipotesi del "ritenere" ricorre tanto se il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico esercizio non consegni ciò che, per errore, non gli sia richiesto nell'atto di una riscossione, quanto se non restituisca ciò che gli venne dato per un errore del quale egli, solo tardivamente, venga a conoscenza.
La malversazione a danno di privati (art. 315) si ha quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio si appropria o, comunque, distrae, a profitto proprio o di un terzo, danaro o qualsiasi cosa mobile non appartenente alla pubblica amministrazione, di cui egli ha il possesso per ragione del suo ufficio o servizio. La pena è della reclusione da 3 a 8 anni e della multa non inferiore a L. 1000. Si applica pure l'interdizione dai pubblici uffici secondo il capoverso dell'art. 314. Riguardo al significato delle espressioni usate nell'art. 315 per indicare gli estremi del reato, vale quanto abbiamo detto riguardo all'art. 314.
Di malversazione si parla anche nell'art. 570 cod. pen. il quale nel n. 1 del primo capoverso punisce, con la reclusione fino a un anno e con la multa da L. 1000 a L. 10.000, chi malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge. Nella relazione al re (n. 185) è spiegato che col termine malversare si intende l'appropriazione della cosa altrui a scopo di lucro e che la malversazione di cui parla l'art. 570, e che costituisce uno dei casi di violazione degli obblighi di assistenza familiare, può avvenire soltanto a opera del genitore e del coniuge i quali, senza la detta disposizione, rimarrebbero impuniti, mentre il tutore che si appropria delle cose del pupillo risponde del reato più grave di appropriazione indebita aggravata (art. 646 e 61, n. 11 cod. pen.) giusta la riserva contenuta nell'ultima parte dell'art. 570.
Il delitto di malversazione è contemplato anche nell'art. 864 cod. comm. ed è quello commesso nella sua amministrazione dal curatore di fallimento (il quale, dall'art. 2 della legge 10 luglio 1930, n. 995, è, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, ritenuto pubblico ufficiale a tutti gli effetti di legge). L'art. 864 cod. comm. non spiega in che consista la malversazione, ma si ritiene che tale parola abbia lo stesso significato che nell'art. 315 cod. pen., e cioè "di appropriazione o distrazione, comunque fatta, a profitto proprio o di un terzo, di danaro o qualsiasi cosa mobile appartenente alla massa fallimentare".
Bibl.: G. Marciano, Il peculato nel nuovo codice penale, in Rivista penale, 1932, p. 1086 segg.