PECCATO (fr. péché; sp. pecado; ted. Sünde; ingl. sin)
È, in senso generalissimo, ogni colpa considerata sotto l'aspetto religioso: colpa che può essere concepita come la violazione sia di un sistema di forze sacrali, sia di una legge divina, che a sua volta può essere tacitamente ammessa dai fedeli, oppure formulata in una vera e propria scrittura sacra accolta come rivelazione divina. È dunque una nozione straordinariamente complessa e che assume nelle varie religioni aspetti notevolmente diversi: dall'infrazione di un divieto alla quale consegue un male concepito come qualcosa di materiale, un fluido pernicioso che può essere tolto con mezzi altrettanto materiali, sino all'offesa fatta alla divinità, che punisce l'azione religiosamente e moralmente riprovevole con castighi sia in questa vita sia nella futura.
Nei gradi inferiori della religiosità e nella sua forma più primitiva, il peccato è dunque la violazione di un tabu, cioè d'una interdizione extrarazionale relativa a un oggetto o a un'azione; generalmente corrisponde a un'infrazione della legge o del costume tribale e ha pertanto un carattere a un tempo sociale e religioso. L'interdizione però, in questo stadio primitivo, non procede ancora dalla volontà divina; e la colpa porta in sé il proprio castigo, per lo più immediato e fulmineo, che si scatena automaticamente anche quando il fallo non fosse né volontario né cosciente (v. tabu).
In uno stadio più elevato, quando la distinzione tra atti permessi e vietati diviene quella tra sacro e profano (v. sacralità), sorge la nozione del peccato rituale e del sacrilegio, la quale appare contemporaneamente all'idea di una divinità personale che esprime la sua volontà. La distinzione si esercita soprattutto nel campo delle relazioni tra gli uomini e i loro dei, cioè nel culto, oggetto di prescrizioni e divieti formulati in un codice. Il peccato è concepito come una contaminazione, che rende impuri non soltanto il colpevole, ma l'operazione rituale nel corso della quale questi lo commette.
Il progresso essenziale nell'evoluzione della nozione di peccato consiste da una parte nella sua estensione, dall'altra nella sua interiorizzazione. Ristretta dapprima alle sole azioni propriamente religiose, la distinzione tra atti buoni e malvagi, puri e impuri, si estende a poco a poco a tutte le manifestazioni della vita individuale e collettiva, creando così accanto ai doveri verso la divinità quelli verso gli uomini. Nello stesso tempo, si giunge a considerare peccato non solo il fatto in sé, ma l'intenzione, l'operazione della volontà onde è sorto; si passa, insomma, da un punto di vista oggettivo a un punto di vista soggettivo. Appare infatti in primo piano la nozione di responsabilità, e si può parlare di morale religiosa; anche se della colpa è vittima un uomo, l'offesa è sentita dal dio.
Questo stadio è rappresentato, in gradi diversi, dalle grandi religioni storiche. Nell'Avesta si trova una concezione del peccato particolarmente interessante, con la distinzione precisa tra parole, pensieri e atti. Nella maggior parte di quelle religioni, esistono codici di precetti o cataloghi di peccati, il cui tenore varia molto secondo il grado di civiltà in cui sono stati formulati (Rituale giapponese della grande purificazione, capitolo 125 del Libro dei morti egiziano, Patet della religione mazdea). Nello stesso tempo, s'introduce una gradazione tra i peccati, la cui gravità è determinata non soltanto dall'atto in sé, ma dall'elemento personale che lo caratterizza e dalle circostanze. Per precisare l'importanza della colpa, e quindi della relativa sanzione, si sviluppa tutta una casistica.
In parecchi sistemi religiosi si trova inoltre la nozione di un "peccato originale", cioè d'uno stato di natura congenito all'umanità che è conseguenza universale d'una colpa individuale primitiva, e di cui i peccati attuali non sono che manifestazioni. Quest'idea della fatalità del peccato e della solidarietà ereditaria nella colpa (ma ristretta a una famiglia) ha fornito alla tragedia greca alcuni dei suoi temi più potenti (Edipo, gli Atridi); ma il mito in cui il concetto greco del peccato originale si esprime più chiaramente è quello di Prometeo. Più precisa ancora è la concezione orfica secondo la quale l'anima umana è chiusa nel corpo come in una prigione e condannata a fare il male in punizione della colpa commessa dai Titani, antenati degli uomini. Spesso, il peccato è anche spiegato mediante il dualismo irriducibile della natura umana: il peccato è il frutto della materia. Il peccato è allora essenzialmente la privazione della vita divina, alla quale l'uomo non ha accesso se non dopo la morte corporale. Soltanto la separazione finale dalla carne, preceduta talvolta da un'epurazione attraverso una serie di esistenze successive, lo affranca dal dominio degli spiriti malvagi o delle fatali potenze astrali, che gravando su tutto l'universo sensibile fanno del peccato un autentico stato cosmico, e nello stesso tempo una potenza indipendente dall'anima, e che fanno gravare sull'uomo, tra gli altri mali, le malattie e la morte (mazdeismo, ermetismo, sistemi gnostici). Gli dei stessi non sempre sfuggono a questo dominio del male universale onde nasce il peccato; nel dualismo persiano Ahriman dirige le potenze del male e tiene in scacco il bene sino alla fine dei tempi; il dio egiziano Seth è nella sua malvagia crudeltà il vero e proprio tipo del peccatore.
Tutte le religioni hanno concesso grande spazio alla guarigione del peccato (v. penitenza). Esse la cercano, secondo il grado di sviluppo raggiunto, in riti materiali di purificazione, esorcismi e incanti, destinati a cancellare l'impurità e a cacciare il demone autore del peccato (particolarmente, la religione assiro-babilonese); in sacrifici espiatorî destinati a placare lo sdegno della divinità, nella preghiera, nella pratica del bene e della mortificazione, destinata, quest'ultima, a combattere il peccato nella sua stessa fonte, il corpo materiale; infine, nella confessione dei peccati (v.).
Bibl.: U. Morgenstern, The Doctrine of Sin in the Babylonian Religion, Berlino 1905; Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, XI, Edimburgo 1920, s. v. Sin; Latte, Schuld und Sünde in der griechischen Religion, in Archiv für Religionswissenschaft, 1920; R. Pettazzoni, La confessione dei peccati, Bologna 1930; G. Mensching, Die Idee der Sünde, Lipsia 1931; id., Die Idee der aktuellen Sünde in der Religionsgeschichte, in Zeitschrift für Missionskunde und Religionswissenschaft, 1931, n. 6.
Teologia cattolica.
Secondo la dottrina cattolica il peccato è una violazione della legge di Dio; S. Agostino, ad es., lo definisce "un'azione, un detto, o un desiderio, contro la legge eterna" (C. Faust., XXII, 27): è dunque un male morale, in quanto è un atto umano che sconvolge l'ordine imposto nel mondo da Dio, che è l'eterna bontà.
Dal punto di vista della provenienza si distingue in peccato originale (v. appresso), che proviene dal primo uomo Adamo (v.), e in peccato attuale (o personale), che proviene dalla libera volontà dei discendenti di Adamo. Dal punto di vista della gravità del male, il peccato si distingue in mortale (o grave) e veniale (o leggiero): il secondo, così detto perché più facilmente degno di venia, ossia di perdono, non allontana l'uomo dal suo ultimo fine che è Dio, e quindi non dà morte all'anima pr; vandola della grazia (v.) santificante, ma solo ne offusca lo splendore; il mortale, invece, allontana formalmente l'uomo da Dio, e dà morte all'anima privandola della grazia. Si parla anche di peccato abituale, in quanto resta nell'anima uno stato di abituale avversione dell'uomo a Dio, prodotta dal peccato attuale e perdurante fino a che il peccatore ritorni a Dio.
Perché l'atto umano costituente un peccato grave sia i mputabile, si richiedono la piena conoscenza, la libera volontà in chi agisce, e la materia gravemente riprovevole nell'atto stesso; così, ad es., chi non ha conoscenza della grave illiceità di un'azione, oppure è forzato ad agire contro sua voglia, non commette peccato grave, come non lo commette chi compia, anche avvedutamente, azione leggermente illecita. La diminuzione di conoscenza o di libera volontà in chi agisce può far sì che un peccato, per sé stesso grave, diventi veniale; d'altra parte, considerando la materia dell'azione umana, vi sono peccati gravi per sé stessi, detti anche mortali ex toto genere suo, ad es. la formale bestemmia contro Dio.
Quanto alla materia, il peccato può essere di commissione o di omissione: si ha il primo se si commette un'azione illecita, sia pensiero, sia parola, sia opera; si ha il secondo se si omette di compiere un'azione comandata.
Essendo il peccato mortale un reato grave di colpa morale, porta con sé una doppia pena: la pena del danno, ossia della ripulsa da Dio, fine ultimo dell'uomo, in quanto l'uomo stesso con la sua libera volontà e piena conoscenza si è allontanato da questo suo fine e conseguentemente ne viene rigettato; inoltre la pena del senso, in quanto l'uomo allontanandosi da Dio ha preferito a questo suo fine increato un essere creato, disordine morale da punirsi con pena eterna nella vita futura (v. inferno).
Il peccato veniale, non essendo un'aversione da Dio, non reca con sé la pena del danno; tuttavia diminuisce il fervore della carità e l'efficacia della grazia, e ripetuto spesso predi spone al mortale. Esso implica una pena soddisfattoria nella vita presente, ovvero quella del purgatorio (v.) nella futura.
Peccato originale. - Nella teologia cattolica con questo termine s'intendono sia il peccato commesso dal primo uomo Adamo (v.), sia anche talvolta le conseguenze di quel peccato che si estesero a tutti i suoi discendenti, eccettuata Maria Vergine (v. concezione, immacolata); in questo secondo senso si esprime già S. Agostino, allorché afferma che "il peccato deliberato del primo uomo è la causa del peccato originale" (De nuptüs et concup., II, 26, 43).
I punti fondamentali di questa dottrina sono i seguenti: Il peccato di Adamo fu punito in lui, non solo come persona singola, ma anche come capostipite di tutto il genere umano; perciò, oltre al venir egli personalmente privato, in pena del suo peccato, dei doni soprannaturali e dell'immortalità di cui era stato gratificato da Dio, avendoli egli ricevuti come tale, questa privazione si estese ai discendenti da lui generati dopo il peccato. Il peccato originale si propaga da Adamo in poi mediante la generazione umana, la quale moltiplica gl'individui soggetti alle conseguenze della colpa del loro progenitore. Esso perciò è peccato "abituale" (v. sopra) nei discendenti di Adamo, mentre fu "attuale" ossia volontario soltanto in lui. Esso consiste nella privazione della grazia santificante e degli altri doni preternaturali concessi ad Adamo, perciò anche nella soggezione alla morte materiale, al dolore, alla concupiscenza o ribellione delle passioni contro la ragione: i quali effetti complessivamente sono designati dai teologi quando, con allusione alla parabola del buon samaritano (Luca, X, 30), dicono che l'uomo per il peccato originale fu expoliatus gratia et vulneratus in naturalibus.
Le prove teologiche da cui è dimostrata questa dottrina sono il passo di Romani, V, 12-13, e l'intera tradizione ecclesiastica riassunta definitivamente nel concilio di Trento (sess. V). Campione massimo di questa dottrina fu S. Agostino (v.), il quale già ai suoi tempi si appellava al costante uso ecclesiastico di battezzare i bambini ancora privi dell'uso di ragione, come a prova della fede in un peccato di origine. Principali avversarî ne furono i pelagiani, a cominciare da Celestio (v. pelagianismo). I più eminenti rappresentanti della Riforma non negarono il peccato originale, ché anzi ne fecero base essenziale dei loro rispettivi sistemi, sebbene discostandosi in taluni punti centrali dalla dottrina cattolica (v. calvino; lutero, ecc.); tuttavia i sociniani finirono praticamente per respingere del tutto questo punto dottrinale.
Bibl.: Le due ampie trattazioni, Péché e Péché originel, in Diction. de théol. cathol., XII, i, Parigi 1933, coll. 140-275 e 275-624.