Il rito speciale detto “patteggiamento”, di cui agli articoli da 444 a 448 del codice di procedura penale, consente a difesa ed accusa di accordarsi per presentare al giudice richiesta di applicazione di una sanzione sostitutiva di qualunque entità, di una pena pecuniaria di qualunque importo, oppure di una pena detentiva che, in concreto, non superi i cinque anni. Nell’impianto originario del codice, il rito era pensato per la definizione di reati bagatellari e, in quest’ottica, il limite massimo di pena detentiva patteggiabile era di due anni; con l’innalzamento a cinque, operato dalla legge 12 giugno 2003, n. 134, esso è ora suscettibile di essere applicato anche ad episodi di media ed alta gravità. Poiché comporta per l’imputato la rinuncia alla celebrazione del dibattimento ed al godimento delle garanzie che gli sono connesse, il rito si connota anche per una spiccata premialità, il cui aspetto principale, ma non esclusivo, consiste nella riduzione della pena sino ad un terzo. Tutto ciò, unitamente al fatto che il patteggiamento può essere chiesto a partire dalla fase delle indagini preliminari e sino alla chiusura dell’udienza preliminare o, ove questa manchi, sino all’apertura del dibattimento, ne fa uno dei giudizi speciali di più largo impiego nella prassi giudiziaria
Nella consapevolezza che un modello “monolitico” di processo non può rispondere alle doverose esigenze di efficienza del sistema penale, il codice di rito, nel momento in cui delinea uno schema di procedimento articolato in primo grado in tre fasi (le indagini preliminari, l’udienza preliminare ed il giudizio dibattimentale), consente, al contempo, in presenza di specifiche condizioni, di derogare a tale schema ed evitare così di celebrare una o più di quelle fasi.
È il caso dei «procedimenti speciali» contenuti nel Libro VI del codice, tra i quali si segnala l’applicazione della pena su richiesta delle parti, c.d. patteggiamento (artt. 444-448 c.p.p.), il cui nucleo consiste in un accordo tra accusa e difesa sul quantum di pena da irrogare, con rinuncia a contendere e richiesta al giudice di recepire l’accordo in sentenza. Il rito è pertanto definibile come “deflativo” perché, rispetto allo schema generale, tende ad evitare la celebrazione del dibattimento, consensuale, perché richiede l’assenso dell’imputato e, infine, premiale, perché gli riconosce una serie di benefici quale contropartita alla sua decisione di non difendersi in dibattimento.
Il rito patteggiato ha un referente diretto negli ordinamenti di common law, al quale il codice italiano del 1988, ispirato a principi accusatori, appare essere per più versi debitore: si pensi, in particolar modo, al c.d. plea bargaining statunitense (cfr. Amodio, E. -Bassiouni, C., a cura di, Il processo penale negli Stati Uniti d’America, Milano, 1988). In questa linea di tendenza, volta ad accrescere gli spazi di consensualità all’interno del processo penale, anche altri paesi di diritto continentale hanno di recente messo a punto dei meccanismi di negoziazione della pena per fini di speditezza processuale: la Spagna con la conformidad nel 1988, la Francia con il plaider coupable con una legge del 2004 e la Germania con la Verständigung di cui al § 257-c del codice di procedura tedesco, introdotta nel 2009 (per una panoramica di diritto comparato cfr., volendo, Marcolini, S., Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata, Milano, 2005, 41 ss.).
Sul versante interno, invece, il precedente diretto del patteggiamento è ravvisabile nella c.d. «applicazione di sanzioni sostitutive a richiesta dell’imputato», disciplinata agli artt. 77-85, l. 24.11.1981, n. 689, ed abrogata dal nuovo codice di rito (cfr. artt. 234 e 248, co. 4, disp. att. c.p.p.). L’istituto, la cui lacunosità diede luogo a non poche incertezze applicative, permetteva al giudice, ove l’imputato ne avesse fatto richiesta ed il p.m. avesse dato il proprio parere favorevole, di applicare con sentenza la sanzione sostitutiva della libertà controllata, di cui all’art. 56, l. n. 689/1981, o della pena pecuniaria, ma con esclusione della semidetenzione, prevista dall’art. 55 della medesima legge (per una analisi, in generale, cfr. almeno Amato, G., Natura, contenuti ed effetti della sentenza nel procedimento di «patteggiamento», in Cass. pen., 1986, 912 ss., nonché Marzaduri, E., Poteri delle parti e poteri del giudice nella determinazione della sanzione sostitutiva applicata su richiesta dell'imputato, in Cass. pen., 1985, 1628 ss.).
In un simile quadro, il patteggiamento codicistico è stato accolto, nel 1988, tra le speranze di chi vedeva nel massiccio ricorso ai procedimenti speciali la precondizione per il successo del nuovo processo accusatorio (così la stessa Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, in G.U., 24.10.1988, n. 93, 237 s.) e lo scetticismo, quando non proprio l’aperta ostilità di chi vi scorgeva il mezzo per la surrettizia ed inaccettabile irruzione di logiche mercantilistiche e di parte nella determinazione della pena (Dolcini, E., Problemi vecchi e nuovi in tema di riti alternativi: patteggiamento, accertamento di responsabilità, misura della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 569, nonché Caputo, M., Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Napoli, 2009, passim). Tali opposte tensioni hanno avuto ricadute nella giurisprudenza, impegnata, sin dai primi anni di vigenza dell’istituto, in un faticoso lavoro di interpretazione di molti suoi aspetti problematici, di cui il gran numero di pronunce a sezioni unite costituisce la prova più evidente (per una copiosa rassegna, già solo dopo poco più di dieci anni di vita, cfr. Vigoni, D., L’applicazione della pena su richiesta delle parti, Milano, 2000, 133 ss.).
La legge 12.6.2003, n. 134, ha più che raddoppiato l’ambito oggettivo di applicazione del rito, portando da due a cinque anni il quantum di pena detentiva patteggiabile. Ciò lascia trasparire l’inequivoca volontà del legislatore di investire sulle potenzialità dell’istituto, posto, accanto al giudizio abbreviato, come sempre più diffusa opzione alternativa per l’imputato che non intenda avvalersi del contraddittorio dibattimentale.
La logica negoziale sottesa al rito non è, invece, filtrata nel processo penale minorile ed in quello di pace, in cui l’epilogo patteggiato è espressamente escluso (rispettivamente, dall’art. 25, co. 1, d.P.R. 22.9.1988, n. 448, e dall’art. 2, d.lgs. 28.8.2000, n. 274). Infine, una forma speciale di applicazione concordata della sanzione amministrativa è prevista nel processo agli enti dall’art. 63, d.lgs. 8.6.2001, n. 231 (su cui cfr., volendo, Marcolini, S., Art. 63, in Enti e responsabilità da reato, a cura di Cadoppi, A. -Garuti, G. -Veneziani, P., Torino, 2010, 691 ss.).
Ad oltre venti anni dall’entrata in vigore del codice di rito, i problemi del patteggiamento, che ancora cercano una appagante soluzione, sono in definitiva sempre i medesimi: l’instabile rapporto tra l’accordo delle parti, che vorrebbero essere sempre più libere di dedurre nel negozio oggetti anche in origine non previsti, ed il potere di autonomo sindacato del giudice; la necessità o meno di un accertamento giudiziale di responsabilità dell’imputato ai fini dell’emissione della sentenza; l’ambito di estensione del catalogo premiale, soprattutto nell’impatto con una legislazione speciale spesso caotica.
Il patteggiamento è un rito “allo stato degli atti”, come esplicitamente affermato dall’art. 444, co. 2, c.p.p. (che fa appunto riferimento alla decisione presa «sulla base degli atti»). La sua peculiarità consiste nel fatto che la piattaforma probatoria o factual basis, su cui si innesta l’attività decisoria del giudice, è data non dalle prove dialetticamente formate nel dibattimento orale, ma dagli atti d’indagine unilateralmente formati, ai quali viene attribuita piena efficacia.
È da questa “base fattuale”, costituita dall’attività investigativa del p.m. e/o del difensore, che emergono gli elementi a carico, che consentono al giudice di formulare un giudizio in termini di responsabilità e di emettere la sentenza concordemente richiesta dalle parti. La consistenza di tale piattaforma e la latitudine dell’attività di accertamento di responsabilità dell’imputato, da parte del giudice, rappresenta proprio uno dei nodi maggiormente problematici dell’istituto (v. infra, § 4).
Il secondo presupposto del rito è rappresentato dall’accordo tra pubblica accusa ed imputato (personalmente od a mezzo di procuratore speciale: art. 446, co. 3, c.p.p.) il cui contenuto è chiuso e predeterminato ex lege.
È esclusa dal rito la persona offesa, anche se costituita parte civile. A seguito della sentenza C. cost., 12.10.1990, n. 443, e del suo recepimento nel tessuto dell’art. 444, co. 2, c.p.p. ad opera dell’art. 32, co. 1, l. 16.12.1999, n. 479, ove l’accordo tra accusa e difesa venga suggellato dal giudice, alla parte civile non resta che promuovere autonomo giudizio civile per le restituzioni ed il risarcimento, salva solo la liquidazione, ad opera del giudice del patteggiamento, delle spese di costituzione (e sempre che non vi siano giusti motivi per dichiararne la compensazione totale o parziale). L’unico ruolo che, in sede di patteggiamento, può e deve riconoscersi alla parte civile è quello di un controllo pro legalitate sull’accordo a patteggiare: essa deve poter conoscere i termini della richiesta di patteggiamento e deve avere la possibilità di interloquire con il giudice, prima della sua decisione, al fine di segnalare eventuali cause di inammissibilità o di rigetto della richiesta stessa (Cass. pen., sez. III, 18.6.1997, n. 2442, Groppelli, in CED Cass., rv. 208809).
Dal punto di vista oggettivo, la richiesta di patteggiamento ha un contenuto che è la stessa legge a predeterminare (Vigoni, D., L’applicazione della pena, cit., 179 ss.): «l’applicazione, nella specie e nella misura indicata» (così l’art. 444, co. 1, c.p.p.) di una sanzione sostitutiva, di una pena pecuniaria oppure di una pena detentiva. Questa indicazione rappresenta peraltro il punto di arrivo, al quale le parti giungono attraverso la qualificazione giuridica del fatto oggetto di contestazione, l’individuazione delle eventuali circostanze aggravanti ed attenuanti previo, se occorre, loro bilanciamento, l’effettuazione dei calcoli di pena in concreto che ne derivano e, da ultimo, l’applicazione della diminuente processuale fino ad un terzo della pena (Cass., pen., sez. V, 16.7.1997, n. 3724, Simone, in CED Cass., rv. 208326). In caso di continuazione le parti devono individuare la violazione più grave, determinare la pena in concreto applicabile anche per effetto delle circostanze, effettuare l’aumento ex art. 81, co. 2, c.p. e, solo alla fine, applicare la diminuente (Cass., pen., sez. VI, 29.5.1992, n. 9351, Casella, in CED Cass., rv. 191695).
Per le sanzioni sostitutive, la sequenza diviene: determinazione della pena in concreto irrogabile; calcolo della diminuente processuale sino ad un terzo; conversione in pena sostitutiva (Cass. pen., S.U., 12.10.1993, n. 295, Scopel, in CED Cass., rv. 195618).
Nulla essendovi da segnalare circa le pene pecuniarie, che possono essere oggetto di patteggiamento senza alcun limite edittale (anche quando congiunte a pene detentive), con riguardo alle pene detentive (arresto o reclusione) sono previsti limiti massimi e limiti minimi.
Il massimo patteggiabile è di cinque anni di pena detentiva in concreto. Per determinare l’ampiezza dei benefici connessi al rito, tuttavia, occorre distinguere il c.d. patteggiamento “tradizionale”, per pene contenute entro i due anni, dal c.d. patteggiamento allargato, per pene superiori ai due anni e non superiori ai cinque (cfr. infra, § 5).
In relazione ai limiti minimi, la giurisprudenza (che si legge compiutamente in Vigoni, D., L’applicazione della pena, cit., 162 ss.) ritiene che nemmeno per effetto della diminuente processuale la reclusione possa scendere sotto il limite legale di quindici giorni (art. 23, co.1, c.p.) e l’arresto sotto quello di cinque giorni (art. 25, co. 1, c.p.).
Un ulteriore elemento su cui è possibile che cada l’accordo delle parti è la sospensione condizionale della pena (artt. 163 ss. c.p.). Ciò non avviene in forza dell’art. 444, co. 3, c.p.p., che prevede la facoltà unilaterale di una delle parti (normalmente l’imputato) di subordinare il proprio consenso a patteggiare al fatto che il giudice, in sentenza, applichi la sospensione condizionale. Il fenomeno qui evocato è, invece, di origine squisitamente pretoria. Da tempo la giurisprudenza viene riconoscendo alle parti, congiuntamente, il potere di chiedere (o meno) al giudice, con effetti vincolanti, il beneficio sospensivo: beneficio che, quindi, non può essere accordato d’ufficio, ma solo in presenza di un previo accordo (Cass., pen., sez. fer., 23.7.2009, n. 31301, in Guida dir., 2009, 44, 67; Cass., pen., sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 40950, Ciogli, in CED Cass., rv. 241371).
Ogni altro elemento, che venga dedotto nell’accordo, è viceversa da considerarsi spurio e come non apposto. La giurisprudenza, ad esempio, ha chiarito che la sospensione della patente, quale sanzione amministrativa accessoria prevista dal codice della strada in conseguenza della commissione di taluni reati, non può essere oggetto di accordo delle parti, volto ad escluderne o predeterminarne la durata, ma va indefettibilmente calcolata dal giudice in piena libertà, senza che una eventuale intesa sul punto lo vincoli in alcun modo (Cass. pen., sez. IV, 17 dicembre 2010, n. 2631, in Guida dir., 2011, fasc. 25, 71).
Nel caso in cui la richiesta di patteggiamento abbia ad oggetto una pena detentiva superiore ai due anni ma pur sempre non superiore ai cinque (c.d. patteggiamento allargato), l’art. 444, co. 1 bis c.p.p., nella formulazione introdotta dalla l. n. 134/2003, prevede una serie di esclusioni oggettive e soggettive, che debbono quindi essere considerate alla stregua di presupposti in negativo.
Sul piano oggettivo, l’elencazione contenuta all’art. 444, co. 1 bis, c.p.p. deve essere considerata tassativa. In conseguenza, si è affermato che l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti di lieve entità, punita dall’art. 74, co. 6, d.P.R. n. 309/1990, non sia compresa nell’elenco di cui all’art. 51, co. 3 bis-3 quater, c.p.p. e non ricada, pertanto nel divieto in esame (Cass., pen., sez. VI, 5.3.2009, n. 11938, Colasuonno, in CED Cass., rv. 243079; Cass., pen., sez. VI, 20.9.2007, n. 42639, Russi, in CED Cass., rv. 237966; cfr. anche, sia pure a diversi fini, Cass., pen., sez. un., 23.6.2011, n. 34475, Valastro, in CED Cass., rv. 250351).
Sul piano soggettivo il patteggiamento è precluso a «coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell’articolo 99, quarto comma, del codice penale».
Stante l’astenica ricorrenza nella clinica giudiziaria delle prime tre figure soggettive evocate, l’attenzione deve concentrarsi sulla ben più frequente figura del recidivo ex art. 99, co. 4, c.p. Sul punto le sezioni unite, preso atto che la locuzione legislativa «coloro che siano stati dichiarati recidivi» è tecnicamente imprecisa, hanno affermato che, ai fini dell’operatività del divieto, non occorre una pregressa dichiarazione giudiziale di recidiva, ma è sufficiente che il giudice procedente accerti, ritenga ed applichi la recidiva medesima (avente ex lege natura circostanziale) ai reati oggetto di contestazione (Cass., pen., S.U., 27.5.2010, n. 35738, Calibè, in CED Cass., rv. 247840). La stessa pronuncia ha precisato che l’unico caso di recidiva obbligatoria è quello di cui all’art. 99, co. 5, c.p., che a sua volta rinvia all’elenco di reati di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.; in tutti gli altri casi il giudice può, nell’effettuare il bilanciamento ex art. 69 c.p., ritenere l’equivalenza tra circostanze o la prevalenza delle attenuanti e, quindi, non applicare la recidiva (Cass., pen., S.U. n. 35738/2010, in CED Cass., rv. 247838). In tale ultimo caso non si produce nessuno degli effetti negativi connessi allo status di recidivo (Cass., pen., S.U. n. 35738/2010, in CED Cass., rv. 247839), nemmeno quello, che qui interessa, consistente nel divieto di patteggiamento allargato.
Applicando tale insegnamento, la giurisprudenza successiva ha affermato che, qualora ad un soggetto, già recidivo reiterato e specifico, sia contestato il delitto di rapina aggravata, ricompresa nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., la recidiva diviene obbligatoria per il giudice ed integra il divieto ex art. 444, co. 1 bis, c.p.p., inibendo l’accesso al patteggiamento allargato (Cass., pen., sez. II, 21.6.2011, n. 32567, in DeJure). Viceversa, qualora si contesti la recidiva reiterata infraquinquennale ex art. 99, co. 4, c.p., il patteggiamento allargato resta possibile nella misura in cui le parti nel loro accordo ed il giudice nella sentenza ritengano che detta aggravante possa essere assorbita nel bilanciamento con le circostanze attenuanti, in modo da non esplicare effetti sulla pena.
Una specifica norma del codice, l’art. 447 c.p.p., consente il patteggiamento nel corso delle indagini preliminari, senza individuare un preciso terminus a quo. La norma si limita a stabilire le modalità di formazione del consenso tra accusa e difesa e a prevedere l’adozione della decisione da parte del giudice all’esito di una udienza camerale, a cui la partecipazione delle parti è sancita come meramente eventuale.
In questa prospettiva, la difesa può avvalersi dell’assoluta mancanza di pubblicità del procedimento, che è definito quando ancora si trova in uno stadio in cui vige il segreto investigativo (art. 329 c.p.p.); secondo la giurisprudenza, inoltre, all’udienza non può partecipare la persona offesa che, anche autonomamente, venga a sapere della fissazione dell’udienza camerale (da ultimo, Cass., pen., sez. IV, 18.1.2011, n. 4136, in Guida dir., 2011, fasc. 32, 90).
A sua volta, l’accusa lucra una deflazione “massima”, che però ne mette al contempo in mostra i rischi con riferimento all’obbligo, costituzionalmente imposto, di indagini complete su ogni possibile pista investigativa (sul principio in discorso cfr. Siracusano, F., La completezza delle indagini nel processo penale, Torino, 2005). La parte pubblica, quindi, non dovrebbe accedere ad epiloghi patteggiati né quando vi sia il rischio che l’imputato presenti richiesta in situazioni in cui potrebbe emergere la sua estraneità ai fatti, né quando vi sia il rischio opposto di richiesta volta ad interrompere le indagini e ad impedire che si scoprano ben altre e più gravi violazioni.
Sul piano dogmatico, infine, l’istanza di applicazione della pena ex art. 447, co. 1, c.p.p. fa assumere la qualità di imputato a norma dell’art. 60 c.p.p. e, pertanto, costituisce una modalità di esercizio dell’azione penale: modalità che, nel caso di richiesta congiunta di patteggiamento, verrebbe ad essere l’unico caso, nell’ordinamento, di esercizio “consensuale” dell’accusa.
La richiesta di patteggiamento può essere avanzata, nei procedimenti per i quali è prevista la celebrazione dell’udienza preliminare, sino al momento della presentazione delle conclusioni (art. 446, co. 1, c.p.p.). La locuzione va intesa nel senso più favorevole all’imputato, cui va riconosciuta la facoltà di avanzare richiesta non all’inizio della fase delle conclusioni, quando a prendere la parola è l’accusa, bensì quando è la stessa difesa a concludere.
Trattasi comunque di termine ultimo di accesso al rito: conclusasi l’udienza preliminare, il patteggiamento non può più essere richiesto nel successivo dibattimento, salve solo le circoscritte ipotesi di cui ai paragrafi immediatamente successivi.
A norma dell’art. 448, co. 1, secondo periodo, c.p.p., «nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può rinnovare la richiesta e il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza».
Si tratta di una facoltà introdotta dalla l. n. 479/1999, che, in sede di prime riflessioni dottrinali, era parsa consentire all’imputato di ripresentare unilateralmente («rinnovare») al giudice del dibattimento una richiesta di patteggiamento in precedenza non accolta (cfr. Vigoni, D., Applicazione della pena su richiesta delle parti, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002, 34).
Sul patteggiamento in limine iudicii si è però autorevolmente espressa Corte cost., 21.12.2001, n. 426, affermando, all’opposto, che esso non esime l’imputato dal munirsi del consenso del p.m., in forza dei principi generali in materia. Secondo tale interpretazione, fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, la norma perde gran parte della possibile efficacia innovativa.
È comunque previsto che la richiesta, ovviamente nel caso rigetto, non sia «ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice» (art. 448, co. 1, terzo periodo, c.p.p.). La norma vuole evitare abusi difensivi: poiché il rigetto della richiesta in limine iudicii genera l’incompatibilità del giudice e la sua conseguente sostituzione, si è previsto che tale sequenza (richiesta - rigetto - sostituzione del giudice) possa avvenire solo una volta, ad evitare che l’imputato, con reiterate e strumentali richieste, paralizzi di fatto il processo a suo carico.
La necessità di porre un termine specifico per richiedere il patteggiamento nell’ambito del giudizio instaurato mediante citazione diretta da parte del p.m. (art. 550 c.p.p.) si deve al fatto che, in tale rito, non si celebra l’udienza preliminare e non si può applicare il termine ultimo per questa previsto, coincidente con la presentazione delle conclusioni.
Con apposita norma, pertanto, si è precisato che, nel caso in esame, la richiesta ex art. 444, co. 1, c.p.p. deve essere avanzata «prima della dichiarazione di apertura del dibattimento» (art. 555, co. 2, c.p.p.).
Il patteggiamento può innestarsi sugli altri procedimenti speciali, ad esclusione dell’abbreviato, col quale anche di recente la giurisprudenza ha confermato l’aperta incompatibilità (Cass., pen., sez. VI, 28.10.2008, n. 41120, Fiore, in CED Cass., rv. 241362).
Nel caso di emissione di decreto penale di condanna, l’imputato che intenda patteggiare deve avanzare richiesta entro il termine per proporre opposizione, perché questa non è formulabile nel giudizio conseguente all’opposizione (art. 464, co. 3, c.p.p.). L’art. 464, co. 1, terzo periodo, c.p.p. afferma poi che è cura dell’opponente notificare la richiesta di patteggiamento alla pubblica accusa, che deve valutare se prestare il proprio consenso; ove l’accordo non si perfezioni, il giudice emette decreto di giudizio immediato.
Nel caso di giudizio direttissimo – in cui la situazione di nitidezza probatoria, derivante dalla flagranza o dalla confessione, dovrebbe motivare l’imputato a ricercare una soluzione alternativa – il patteggiamento può essere richiesto «fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento» (art. 446, co. 1, c.p.p.). Tale facoltà deve essere oggetto di avviso da parte del giudice (art. 451, co. 5, c.p.p.), la cui omissione genera una nullità peraltro sanabile dalla presenza del difensore (Cass., pen., sez. II, 16.6.2010, n. 28153, Rhee, in CED Cass., rv. 247938). Qualora all’udienza dibattimentale instaurata tramite direttissimo l’imputato chieda un termine per preparare la propria difesa, ai sensi dell’art. 451, co. 6, c.p.p., la giurisprudenza ha precisato che ciò comporta l’apertura del dibattimento e, pertanto, preclude, alla successiva udienza, la richiesta di qualsiasi rito alternativo (Cass. pen., sez. IV, 2.3.2010, n. 9204, in DeJure).
Da ultimo, nel caso di giudizio immediato attivato dal p.m., l’art. 446, co.1, secondo periodo, c.p.p. precisa che la richiesta di patteggiamento deve essere presentata nel termine e con le forme stabilite dall’art. 458, co. 1, c.p.p. per il giudizio abbreviato: cioè entro quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato. La competenza a pronunciarsi sulla richiesta è del G.I.P., da considerarsi «giudice procedente» (Cass., pen., S.U., 17.1.2006, n. 3088, Bergamasco, in CED Cass., rv. 232560), mentre, per quanto riguarda le modalità di formazione del consenso tra le parti, l’assenza di una espressa disciplina viene colmata con l’applicazione analogica dell’art. 447 c.p.p.
Nel corso del dibattimento il p.m. può modificare l’imputazione in caso di diversità del fatto (art. 516 c.p.p.), oppure per contestare un’aggravante od un reato connesso (art. 517 c.p.p.).
Ciò potrebbe far sorgere, in capo all’imputato, l’interesse a patteggiare sull’accusa come modificata. La Corte costituzionale (sentenza 30.6.1994, n. 265) ha ammesso tale possibilità, ma con importanti delimitazioni: solo in caso di diversità del fatto o di reato connesso (non, quindi, in caso di contestazione di un’aggravante) e solo se il fatto già risultava dagli atti di indagine oppure l’imputato aveva presentato richiesta di patteggiamento in ordine alle accuse originarie. Al ricorrere di queste condizioni, egli viene rimesso in termini per presentare richiesta di patteggiamento (su cui dovrà naturalmente esprimersi anche il p.m.) con riguardo all’imputazione modificata od al reato connesso.
La persistente attualità del dictum della Corte è confermata da altra, recente sentenza (18.12.2009, n. 333) con cui il giudice delle leggi ha stabilito che, nei medesimi casi di cui sopra, l’imputato è rimesso in termini anche per chiedere, in alternativa al patteggiamento, il giudizio abbreviato.
Il c.d. patteggiamento unilaterale, o patteggiamento come mero beneficio, risiede nella possibilità per l’imputato, all’esito del dibattimento o nel giudizio di impugnazione, di richiedere al giudice di applicare gli effetti premiali di una sua precedente istanza di patteggiamento non perfezionatasi: o perché su di essa il p.m. ha manifestato un illegittimo dissenso, oppure perché essa è stata illegittimamente rigettata dal precedente giudice (art. 448, co. 1, quarto periodo, c.p.p.).
La necessità di simile applicazione postuma degli effetti del patteggiamento discende da una importante pronunzia interpretativa di rigetto della Corte costituzionale (Corte cost., 30.4.1984, n. 120) sul previgente istituto dell’applicazione su richiesta delle sanzioni sostitutive. In quella circostanza, la Corte ebbe a precisare che la pubblica accusa, con il suo illegittimo diniego a patteggiare, poteva certo produrre effetti processuali negativi, consistenti nella mancata deflazione, ma non poteva precludere al giudice la compiuta applicazione della legge penale sostanziale nei confronti dell’imputato: segnatamente, l’applicazione dei benefici, appunto di natura sostanziale, che discendevano dalla pronuncia patteggiata, in primis la riduzione della sanzione (sui benefici conseguenti all’attuale sentenza di patteggiamento si veda infra, § 5).
Stante la persistente attualità delle argomentazioni del giudice delle leggi, il legislatore delegato del 1988 non si è potuto esimere dal codificare espressamente la possibilità di patteggiamento unilaterale dell’imputato.
Al fine di emettere sentenza di patteggiamento il giudice deve verificare, sulla base degli atti forniti, i seguenti elementi: che non sussistano i presupposti per emettere una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; che la qualificazione giuridica data dalle parti al fatto sia corretta; che parimenti corretta sia l’applicazione e la comparazione delle circostanze; infine, che la pena indicata sia congrua (art. 444, co. 2, c.p.p.).
Dottrina e giurisprudenza si sono lungamente interrogate su quale debba essere, in concreto, il ruolo del giudice investito dalle parti di una richiesta di applicazione della pena. La questione è se, al fine di pronunciare sentenza ex art. 444 c.p.p., egli debba accertare la responsabilità penale dell’imputato oppure se il consenso prestato dalle parti comporti uno slittamento della funzione giurisdizionale verso forme di suggello del pactum di tipo notarile.
Anche per incentivare il ricorso al rito, la giurisprudenza ha sempre marcato la differenza che sussisterebbe rispetto all’accertamento della responsabilità dibattimentale. Diversamente dall’accertamento all’esito del giudizio pubblico ed orale, in sede di patteggiamento il giudice dovrebbe limitarsi ad accertare in negativo che non sussistano i requisiti per emettere una sentenza ex art. 129 c.p.p.; la sentenza di patteggiamento viene qualificata come una sentenza in ipotesi di responsabilità; la richiesta stessa di patteggiare dell’imputato vale quanto rinuncia a contestare il fatto, quando non proprio come elemento a suo carico. In particolare, con significativo allontanamento dai canoni decisori dibattimentali (cfr. art. 530, co. 2, c.p.p.), la situazione residua di dubbio probatorio non giova all’imputato patteggiante. Né la giurisprudenza ha mutato avviso a seguito dell’introduzione del patteggiamento allargato (Cass., pen., S.U., 29.11.2005, n. 17781, Diop, in Cass. pen., 2006, 2769).
La dottrina, invece, segnala che, ad intendere il patteggiamento in questo modo, il rito finisce con il confliggere con i principi costituzionali, consentendo l’applicazione di una sanzione penale – anche detentiva e di non trascurabile durata, specie dopo la riforma del patteggiamento allargato – ad un soggetto della cui penale responsabilità non si è certi, solo perché egli lo richiede (cfr., volendo, Marcolini, S., Il patteggiamento, cit., 113 ss.; per una possibile via mediana tra le posizioni “anticognitive” della giurisprudenza e quelle costituzionalmente orientate della dottrina, cfr. Gialuz, M., Applicazione della pena, cit., 21 ss.).
I possibili esiti di una richiesta di patteggiamento sono tre.
In forza dell’art. 444, co. 2, c.p.p., il giudice, investito da accusa e difesa della petitio poenae, può innanzitutto – epilogo peraltro a dir poco infrequente nella prassi – riconoscere una causa di proscioglimento ed emettere sentenza ex art. 129 c.p.p.
Il secondo epilogo possibile è la restituzione degli atti al p.m. Ciò può avvenire per mancanza di un presupposto legalmente previsto (ad es. nel caso di richiesta di patteggiamento proveniente da difensore privo di procura speciale), oppure qualora il giudice ritenga la pena richiesta non congrua o la qualificazione del fatto od il bilanciamento delle circostanze non corretti. Va infatti evidenziato come il giudice non disponga di uno ius variandi rispetto ai contenuti dell’accordo formalizzato dalle parti (sulla intangibilità dell’accordo cfr., ad esempio, Cass., pen., sez. VI, 11.3.2010, n. 13905, Secondi, in CED Cass., rv. 246689), bensì disponga unicamente dei due poteri rigidamente alternativi di accogliere o rigettare la petitio poenae. Naturalmente, residua in capo alle parti il potere di sottomettere al giudice un nuovo accordo, emendato dai vizi da questo riscontrati.
Il terzo e di gran lunga più frequente epilogo consiste nell’emissione della sentenza di patteggiamento: tale decisione, salvo dover recare nel dispositivo l’enunciazione «che vi è stata la richiesta delle parti», ciò che ne consente la precisa individuazione anche a livello formale (art. 444, co. 2, c.p.p.), ripete per il resto tutti requisiti propri di ogni sentenza, scolpiti all’art. 546 c.p.p.
Quanto ai benefici derivanti dalla sentenza, rileva nuovamente la distinzione tra patteggiamento tradizionale, con pena contenuta entro i due anni, e patteggiamento allargato, con pena superiore ai due anni ma non ai cinque.
Solo la prima tipologia, infatti, esibisce il corredo completo dei benefici previsti nella formulazione originaria del codice: la c.d. diminuente processuale, che consente di ridurre la pena, definitivamente calcolata sotto il profilo sostanziale, di un quantum che può arrivare sino ad un terzo; la mancata condanna alle spese del procedimento; la mancata applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, eccezion fatta per la confisca di cui all’art. 240 c.p. (art. 445, co. 1, c.p.p.); la inefficacia extrapenale della sentenza (art. 445, co. 1 bis, c.p.p.), salvo che nei giudizi disciplinari avanti le pubbliche autorità (art. 653 c.p.p.); la previsione di un meccanismo estintivo del reato (art. 445, co. 2, c.p.p.); infine, la non menzione della pronuncia nel certificato del casellario giudiziale (artt. 24, co.1, lett. e) e 25, co. 1, lett. e), d.P.R. n. 313/2002).
Nel caso di patteggiamento allargato, i benefici si circoscrivono alla diminuente processuale, all’inefficacia extrapenale ed alla non menzione.
Il ricorrere dei benefici appena ricordati non ha impedito al legislatore di affermare che, ad ogni altro effetto, la sentenza di patteggiamento, tanto tradizionale quanto allargato, «è equiparata a una pronuncia di condanna» (art. 445, co. 1 bis, secondo periodo, c.p.p.). Sulla base di tale ambigua locuzione di chiusura, dottrina e giurisprudenza hanno ampiamente dibattuto intorno alla natura della sentenza patteggiata: se sia davvero una pronuncia di condanna o se rappresenti invece un tertium genus, a quella solamente «equiparata». La questione rischierebbe di essere meramente nominalistica se non celasse, sotto diverse spoglie, quella relativa al ruolo del giudice ed all’estensione della sua attività di accertamento della responsabilità, già affrontata supra. È evidente, in questo quadro, come l’orientamento “anticognitivo” maturato dalla giurisprudenza (cfr. § 4) sia incline ad attribuire alla sentenza ex art. 444 c.p.p. proprio la natura di un tertium genus di pronuncia, accanto a quelle di proscioglimento e di condanna.
Il tema degli effetti promananti dalla sentenza di patteggiamento non sarebbe completo se non si desse conto del problema dell’impatto della normativa codicistica con la legislazione speciale. Spesso, infatti, la sentenza di patteggiamento è citata accanto a quella di condanna al fine di estendere il trattamento deteriore a questa riconnesso. Facendo ad esempio eccezione alla disciplina “generale” appena vista, l’art. 609 nonies c.p. rende applicabili una serie di pene accessorie anche in caso di sentenza di patteggiamento, mentre l’art. 58, co. 2, d. lgs. 18.8.2000, n. 267, equipara la sentenza di patteggiamento a quella di condanna quali cause ostative alla candidatura per le elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali. È onere dell’imputato e della sua difesa tecnica verificare la normativa speciale di volta in volta rilevante, al fine di valutare la reale convenienza di un epilogo patteggiato.
La sentenza patteggiata è inappellabile, salvo nel caso di patteggiamento unilaterale: in questo caso alla parte pubblica, già a suo tempo dissenziente, è infatti riconosciuto il potere di interporre appello avverso una sentenza emessa dal giudice, al termine del dibattimento, su richiesta del solo imputato (art. 448, co. 2, c.p.p.).
Stante l’art. 111, co. 7, Cost., non può invece essere ex ante negata la ricorribilità in cassazione. La giurisprudenza di legittimità ne ha però circoscritto l’operatività, intervenendo sull’interesse ad impugnare (art. 568, co. 4, c.p.p.): la parte che ricorre avverso una sentenza di patteggiamento ha infatti l’onere “aggravato” di dimostrare la concreta utilità che sorregge l’impugnazione avverso una sentenza che, nel proprio contenuto, ha recepito quanto la stessa parte richiedeva (Cass., pen., sez. V, 25.3.2010, n. 21287, Legari e altro, in CED Cass., rv. 247539; Cass., pen., sez. IV, 12.11.2009, n. 45328, in Guida dir., 2010, fasc. 5, 90). È ammissibile ricorrere avverso una sentenza a pena illegale, ma non avverso quella contenente un mero errore di calcolo intermedio, che non ridondi in una pena finale illegale (Cass., pen., sez. II, 4.11.2008, n. 90, in Guida dir., 2009, fasc. 11, 64); è altresì possibile ricorrere avverso una illegittima derubricazione (Cass., pen., sez. V, 29.1.2010, n. 14314, Sinatra, in CED Cass., rv. 246709), od avverso una sentenza che si sia allontanata dai termini dell’accordo o, infine, che abbia omesso di pronunciarsi su aspetti obbligatori (come l’irrogazione dell’ordine di demolizione: Cass., pen., sez. III, 17.2.2010, n. 16390, Costi, in CED Cass., rv. 246769).
Dal 2003, infine, anche le sentenze di patteggiamento possono essere oggetto di revisione: così dispone l’art. 629 c.p.p., come modificato dalla legge n. 134/2003. La giurisprudenza ha ammesso il rimedio straordinario contro la sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con la sentenza dibattimentale emessa nei confronti dei coimputati non patteggianti (Cass., pen., sez. IV, 21.12.2010, n. 2635, Bianchi, in CED Cass., rv. 249621; cfr. anche Cass., pen., sez. V, 6.5.2010, n. 21943, Ennas, in CED Cass., rv. 247437).
Controversa è, invece, la possibilità di proporre richiesta di revisione avverso sentenza di patteggiamento ai sensi dell’art. 630, co. 1, lett. c), c.p.p. per sopravvenienza o scoperta di nuove prove.
Secondo un orientamento rigoroso, in questo caso la richiesta non può basarsi su elementi conosciuti o conoscibili dall’interessato, perché questi, avendo rinunciato con la scelta del rito a farli valere nel giudizio ordinario, non può dedurli in un secondo momento con l'impugnazione straordinaria (Cass., pen., sez. VII, 25.10.2007, Barranca, in CED Cass., rv. 235940; cfr. anche Cass., pen., sez. VI, 4.12.2006, n. 8957, Tambaro, in CED Cass., rv. 235491).
Secondo, invece, una giurisprudenza meno intransigente, che applica anche alla sentenza patteggiata la nozione di prova nuova fatta propria dalle sezioni unite nel 2001 per le ordinarie pronunce di condanna (Cass., pen., S.U., 26.9.2001, n. 624, Pisano, in CED Cass., rv. 220443), tra le prove sopravvenute dovrebbero ricomprendersi anche quelle «non valutate neanche implicitamente, sempre che non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue» (Cass., pen., sez. VI, 28.5.2007, n. 32540, Cortese, in CED Cass., rv. 237655).
Artt. 444-448 c.p.p.; art. 451, co. 5, c.p.p.; art. 456, co. 2, c.p.p.; artt. 460, co. 1, lett. e), 461, co. 3 e 464, co. 1-3, c.p.p.; artt. 552, co. 1, lett. f), 556, 557 e 558, co. 8, c.p.p.; art. 629 c.p.p.; artt. 135-137 disp. att. c.p.p.; art. 159 disp. att. c.p.p.; art. 188 disp. att. c.p.p.; art. 248 disp. att. c.p.p.
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