Pather panchali
Pather panchali (India 1952-55, 1955, Il lamento sul sentiero, bianco e nero, 115m); Aparajito (India 1956, 1957, L'invitto, bianco e nero, 110m); Apu sansar (India 1959, Il mondo di Apu, bianco e nero, 106m); regia: Satyajit Ray; produzione: Satyajit Ray; soggetto: dal romanzo Pather panchali di Bibhutibhushan Bandyopadhyay; sceneggiatura: Satyajit Ray; fotografia: Subrata Mitra; montaggio: Dulal Dutta; scenografia: Bansi Chandragupta; musica: Ravi Shankar.
Pather Panchali. Nato da una famiglia di bramini, il piccolo Apu trascorre l'infanzia nel suo villaggio. Il padre Harihar è assente per lunghi periodi in cerca di lavoro, la madre Sarbojaya fa del proprio meglio per sfamare la famiglia con il poco di cui dispone, la sorella Durga, adolescente in età da marito, vede via via sfumare la prospettiva del matrimonio. Attirato dalla possibilità di un grosso guadagno, Harihar parte e resta a lungo lontano. Al ritorno troverà la casa devastata dal monsone e la figlia morta per una grave malattia.
Aparajito. Alla famiglia di Apu non resta che trasferirsi a Benares e vivere delle elemosine che i fedeli elargiscono ad Harihar per le sue letture dei testi sacri. Quando quest'ultimo muore in seguito alla tisi, Sarbojaya decide di tornare al villaggio. Apu, ormai decenne, mostra attitudine per l'apprendimento e, al termine di una brillante carriera scolastica, vince una borsa di studio per l'Università di Calcutta. Gli impegni universitari e il fascino della grande città fanno sì che Apu ignori il dolore della madre per la sua partenza: quando Sarbojaya muore, il ragazzo non riesce a giungere in tempo per darle l'estremo saluto.
Apu sansar. Tornato a Calcutta, Apu frequenta l'università ancora per alcuni anni, senza tuttavia riuscire a laurearsi: vive poveramente, cerca lavoro e, al tempo stesso, tenta di far pubblicare i propri scritti. Conosce Aparna, promessa a un uomo che, poco prima del matrimonio, impazzisce. Apu si lascia convincere dalla famiglia della giovane a sposarla. Quando Aparna muore di parto nella casa dei genitori, il ragazzo, sconvolto, prende a vagabondare attraverso l'India. Trascorsi cinque anni decide di incontrare il figlio che non ha mai voluto conoscere, ritrovando così la fiducia nella vita.
Pur nella sua eccezionalità all'interno del panorama cinematografico indiano, la cosiddetta 'trilogia di Apu', aperta da Pather panchali, è considerata il prodotto del clima intellettuale bengalese che, caratterizzato da una forte componente ideologica di stampo marxista, attorno alla metà del secolo scorso portò il cinema di quella regione ad allontanarsi dai modelli commerciali elaborati a Bombay e a Madras, puntando su opere di forte impegno sociale connotate da un vigoroso spirito populista. Ispirandosi alla concezione filosofica elaborata da Rabindranath Tagore (che vede nel ritmo cosmico il tentativo dell'Infinito di offrire amore e compassione a ciò che è per sua natura caduco), Satyajit Ray propone, all'interno di una tradizione cinematografica stereotipata, modelli narrativi ed espressivi completamente nuovi. A consentire un simile scarto è uno sguardo sensibilissimo sui personaggi, capace di narrarne le esistenze a partire dalla minuta quotidianità e di calarne le vicende in ambienti autentici attraverso riprese effettuate in esterni, fatto rarissimo in un cinema come quello indiano, quasi esclusivamente realizzato in teatri di posa. Partendo da questo presupposto, nei film della trilogia si è voluto leggere, spesso con eccessiva facilità, una filiazione diretta del neorealismo italiano. In realtà, per molti versi essi sono più vicini ai documentari del regista americano Robert J. Flaherty, nei quali le vicende degli uomini, narrate con una prosa piana e realistica, spesso si riflettono simbolicamente sugli eventi naturali.
Quello di Ray è un universo rappresentativo che, evitando accuratamente di cadere nel bozzettismo, riesce a infondere in ogni singolo atto un profondo valore metaforico, attraverso un'economia dei mezzi linguistici mirabile nella sua armoniosa essenzialità. Grazie a questo rigore, Ray scandisce la narrazione degli eventi, anche luttuosi, con un ritmo che, pur ricalcando lo spirito di serena accettazione dei suoi personaggi, non suggerisce mai un atteggiamento fatalista o remissivo nei confronti della società. La realtà, malgrado sia filtrata da una visione poetica sensibile e raffinata, che riesce a conferire nobiltà anche a ciò che di più umile possa esistere e che sembra trovare in ogni gesto il segno di una superiore spiritualità, resta quella violentemente contraddittoria dell'India post-coloniale. La trilogia, infatti, pur concentrandosi esclusivamente sulla narrazione delle vicissitudini della famiglia di Apu e sulla formazione del protagonista attraverso un percorso di sofferenza, si impone come ritratto di un intero paese e della sua evoluzione in un preciso momento storico: di film in film, diviene sempre più evidente che l'indebolirsi del legame con la tradizione (che pur continua a gravare su molti aspetti della vita sociale) porta gli individui ad allontanarsi dal proprio nucleo familiare, con conseguenze disastrose per chi è più debole. Una costante simbolica tesa a sottolineare la fortissima tensione dialettica tra la famiglia, intesa come fragile nido sottoposto a violente spinte esterne, e la società, concepita come elemento disgregante, è rappresentata dall'immagine del treno, che funge da vero e proprio filo conduttore delle vicende e assume il valore di presagio di morte e di elemento che disgrega gli affetti.
Nel corso degli anni Cinquanta, i tre capitoli della trilogia di Apu furono tra i primi film asiatici (insieme a quelli giapponesi degli stessi anni) a varcare i confini nazionali e a trovare spazio nei circuiti cinematografici occidentali: presentato a Cannes nel 1956, Pather panchali ricevette un premio minore, ma contribuì a far conoscere il suo autore in Europa, permettendogli di trovare i fondi per girare i due episodi successivi: Aparajito, presentato al Festival di Venezia nel 1957 e premiato con il Leone d'oro, e Apu sansar, giudicato da molti critici l'episodio meno convincente dei tre.
Interpreti e personaggi: Subir Bannerjee (Apu a cinque anni), Pinaki Sengupta (Apu a dieci anni), Smaran Ghosal (Apu adolescente), Soumitra Chatterjee (Apu adulto), Kanu Bannerjee (Harihar), Karuna Bannerjee (Sarbojaya), Runki Banerjee (Durga bambina), Uma Das Gupta (Durga adolescente), Sharmila Tagore (Aparna), Chunibala Devi (Indir Thakrun), Ramani Sengupta (vecchio zio), Subodh Ganguli (preside), Hemanta Chatterjee (insegnante), Kali Bannerjee (Kathak adolescente), S. Aloke Chakravatry (Kathak adulto), Shapan Mukerji (suocero di Apu).
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Sceneggiatura: in "L'avant-scène du cinéma", n. 241, février 1980.