PATAGONIA (A. T., 159)
Vasta regione costituita dall'estrema cuspide meridionale dell'America Meridionale. Come suo limite settentrionale si prende generalmente il Río Colorado per la parte argentina e il Golfo del Corcovado per quella chilena; a sud si fa terminare sullo Stretto di Magellano, benché la Terra del Fuoco non sia altro che una sua appendice. Entro questi limiti, l'area della Patagonia può essere calcolata a circa i milione di kmq., più di tre volte la superficie dell'Italia. Sotto l'aspetto del rilievo si distinguono nella Patagonia due zone, assai differenti tra loro anche per costituzione geologica e condizioni morfologiche e climatiche: una parte occidentale montuosa, costituita dalla sezione più meridionale del sistema andino, e una parte orientale costituita essenzialmente da un complesso di mesetas, amplissimi ripiani che dai piedi delle Ande, a 800-1000 m.. d'altezza, scendono con successivi salti fino alla costa dell'Atlantico, quasi dappertutto alta e importuosa, con grandi insenature semicircolari (Golfo de San Matias, Golfo de San Jorge, Bahía Grande).
Le Ande della Patagonia (vedi ande, III, p. 179 e tavola XXVIII) si fanno cominciare comunemente a sud delle sorgenti del Neuquén, e sono formate da rilievi costituiti prevalentemente da graniti e dioriti accompagnate a est da una fascia di scisti argillosi, arenarie e calcari cretacei, e frazionati da numerose valli trasversali; essi superano di poco, per altezza, i 4000 m. (Tronador, 3470 m., per il quale v. argentina, IV, tav. XLIV; Cerro San Clemente, 4058; Cerro Cochrane, 3700; Cerro Fitzroy, 3300, ecc.), e si vanno abbassando a mano a mano che si procede verso il sud. L'alta latitudine e il clima assai umido fanno sì che le Ande della Patagonia, coperte da immense foreste caratterizzate soprattutto dal predominio di varie specie di Nothofagus (il faggio australe), dal Libocedrus chilensis, dall'Araucaria imbricata, ecc., siano ricche di nevi e di ghiacciai: anzi a sud del 44° parallelo si estendono due ampie calotte di ghiaccio, dalle quali scendono imponenti lingue ghiacciate (a partire da 44° 30′ di lat. S. la fronte dei ghiacciai sul versante chileno raggiunge il mare). Tracce di una glaciazione quaternaria assai più ampia, alla quale, fra l'altro, si deve in gran parte la ricchezza di laghi della regione, si trovano un po' dappertutto.
Il solco longitudinale del Chile centrale (Valle Lonjitudinal) si prolunga nella Patagonia chilena nel Golfo del Corcovado e nel Canal Moraleda fino al piatto istmo di Ofqui, che congiunge al continente la grande penispla di Taitao. La costa patagonica sul Pacifico è frastagliata da profondi fiordi (nei più meridionali di essi vanno a finire con le loro fronti grandi ghiacciai, come si è accennato) e fronteggiata da uno sciame immenso d'isole, di isolotti e di scogli dalle coste alte e rocciose, frastagliatissime, inaccessibili, separati tra loro da un sistema di fiordi e di canali: somigliano moltissimo a quelle della Norvegia, della Columbia Britannica e dell'Alasca meridionale.
Le mesetas della Patagonia orientale si estendono su circa 800.000 kmq. e formano una regione steppica, monotona, triste e desolata; esse hanno superficie pressoché piana, costituita dove da arenarie tenere e dove da caratteristiche formazioni ciottolose; i fiumi, diretti da ovest a est, vi hanno inciso grandi valli trasversali, a fondo ampio ma limitato da pendici ripidissime, che dànno loro l'aspetto di cañones. Questa parte della Patagonia ha clima quasi desertico, con temperature medie annue che oscillano tra i 20° (a N.) e i 10° (a S.), con inverni aspri (basse temperature, venti violenti e gelati), piogge scarsissime, di solito inferiori ai 200 mm. annui a N. del Deseado, tra i 200 e i 400 a S. di questo fiume. La Patagonia andina ha invece, dappertutto, precipitazioni molto abbondanti, che nelle zone più elevate superano anche i 6000 mm. annui; esse cadono in ogni stagione e aumentano nel complesso da N. a S., mentre vanno diminuendo le temperature. Lungo la costa si può parlare di un clima temperato oceanico.
Poiché il versante occidentale della Cordigliera patagonica è assai più umido di quello orientale, i fiumi che vanno al Pacifico (Palena, Baker, ecc.) sono molto più ricchi di acque e quindi più attivi di quelli che vanno all'Atlantico, e hanno dato luogo anche a fenomeni di cattura a danno del corso superiore dei fiumi atlantici, con conseguente spostamento verso est della displuviale, che si trova a oriente della linea delle maggiori elevazioni, ciò che ha causato lunghe e gravi controversie tra l'Argentina e il Chile per la delimitazione dei confini. I più lunghi e importanti corsi d'acqua sono peraltro quelli che vanno all'Atlantico, nessuno dei quali, tuttavia, è ben navigabile per lungo tratto, perché la loro portata è soggetta a grandi oscillazioni e perché hanno la corrente rapida, con il letto ingombro da banchi di sabbia e di ghiaia.
Tali il Colorado (1300 km.), il Negro (1250 km. dalle sorgenti del Neuquén), il Chubut (750 km.), il Deseado (600 km.) e il Santa Cruz (300 km.). Va notato che la maggior parte delle mesetas patagoniche è priva di deflusso al mare, la qual cosa è dovuta soprattutto alla scarsezza delle piogge.
La Patagonia, come si è detto, è ricchissima di laghi, prevalentemente di origine glaciale; una quarantina di essi hanno una superficie superiore ai 50 kmq., e ben 11 l'hanno superiore a quella del Garda. Il maggiore è il Lago Buenos Aires (2020 kmq.). ma il più noto e pittoresco è il Nahuel Huapí (560 kmq.; v. argentina, IV, tav. XLV). Tra i più ampî sono da ricordare ancora il San Martín (1000 kmq.), il Viedma (1220 kmq.) e l'Argentino (1570 kmq.) nella zona andina, il Colhué Huapí (723 kmq.) e il Musters (430 kmq.) nelle mesetas. I laghi andini sono chiusi a oriente da grandi morene accumulate dai ghiacciai quaternarî sul margine della Cordigliera.
Le condizioni naturali della regione non sono molto favorevoli all'insediamento umano, e la Patagonia è tuttora una delle zone più spopolate della terra. Si può calcolare che in essa vivano (1932) circa 210.000 ab. (dei quali soli 47.000 nella parte chilena). La colonizzazione della Patagonia è un fenomeno recentissimo, perché praticamente il suo interno rimase sconosciuto fino all'epoca dei viaggi del capitano G. Ch. Musters (1869-1870). Gl'Indiani furono sottomessi tra il 1879 e il 1883, e dopo di allora s'iniziò un lento movimento d'immigrazione nella regione, e gli abitanti da 35.000 intorno al 1895 salirono a 113.000 nel 1912 e a 155.000 nel 1920, per raggiungere, come si è visto, i 210.000. Date le condizioni climatiche, la Patagonia è una regione essenzialmente pastorale: le pecore vi furono introdotte nel 1880 dalle isole Falkland nella parte meridionale, e successivamente dalla Pampa nella parte settentrionale. L'allevamento degli ovini ricevette un forte impulso, intorno al 1900, dall'istituzione di un servizio regolare di vapori lungo la costa atlantica, che favorì l'es. portazione della lana. Nel 1885 furono costruite opere d'irrigazione nell'alto Río Negro, e nel 1916 si completarono quelle sul Neuquén. Non furono trascurate neppure le vie di comunicazione: nel 1899 fu completata la linea ferroviaria da Bahia Blanca a Neuquén, e intorno al 1910 il governo argentino iniziò la costruzione di varî tronchi dai porti atlantici della Patagonia verso l'interno, che hanno dato un grande impulso all'allevamento e alle colture nelle zone irrigate. L'agricoltura in alcune parti ha possibilità di sviluppo, e del resto ha fatto grandi progressi negli ultimi decennî: nel territorio del Río Negro, ad esempio, mentre nel 1895 erano coltivati soltanto 1458 ettari, nel 1920 l'area a coltura era di 42.606 ettari. Si può calcolare che intorno al 1930 l'area coltivata in tutta la Patagonia era di circa 70.000 ettari, più della metà dei quali occupati da erba medica, e il resto da cereali (grano soprattutto) e vigneti. Ma l'allevamento, in particolare quello degli ovini, è la risorsa fondamentale. Va ricordato che in Patagonia ha preso anche uno sviluppo ragguardevole l'industria delle carni refrigerate e congelate: esistono frigoriferi a Puerto Deseado, San Julián, Santa Cruz e Río Gallegos. Unica importante risorsa mineraria è il petrolio dei giacimenti di Comodoro Rivadavia, presso il Golfo di S. Giorgio, e di quelli di Plaza Huincul (Neuquén). I primi sono i più produttivi dell'Argentina (dànno i 4/5 della produzione totale) e si stendono su circa 8000 ettari, dei quali 1800 sfruttati (900 pozzi). Il porto di Comodoro Rivadavia è attrezzato appunto per il caricamento del petrolio; gli altri porti patagonici di maggiore traffico sono Puerto Deseado, Santa Cruz, Rio Gallegos e Magallanes (Punta Arenas), che esportano lane e carni refrigerate. Vaste zone della Patagonia settentrionale si servono del porto di Bahía Blanca. La maggiore risorsa economica della Patagonia andina è lo sfruttamento forestale, che, peraltro, è appena iniziato.
Politicamente la Patagonia è divisa tra l'Argentina e il Chile; la parte argentina è suddivisa nei territorî del Neuquén, del Río Negro, del Chubut e di Santa Cruz; quella chilena, è suddivisa nei territorí di Aysen e Magallanes.
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Esplorazione e storia.
Primo a toccare le coste atlantiche della Patagonia sembra sia stato A. Vespucci, il quale nel suo viaggio del 1502 si sarebbe spinto, cercando il passaggio verso il "mare dell'India", fin presso 50° S. Diciotto anni più tardi F. Magellano navigava lungo tutta la costa orientale della Patagonia, sulla quale dava il battesimo ad alcune località, mentre lo sverno nella Baia di San Julián dava agio alla spedizione di venire a contatto con gl'indigeni, che Magellano denominava appunto Patagoni per i loro lunghi piedi avvolti di pelli; scoperto e attraversato lo Stretto di Magellano, la spedizione continuava il viaggio nel Pacifico. Ma dopo queste prime scoperte, la Patagonia rimase ancora per circa tre secoli assai poco nota, anzi quasi del tutto sconosciuta nel suo interno. Approdavano talora nelle insenature della costa i navigatori, vennero tentate alcune colonie, fissati alcuni stabilimenti costieri, ma nessuna esplorazione sistematica ví fu compiuta. Nel 1535 traversò la regione dal mare alle Ande R. de Isla, ma il suo viaggio non ebbe importanza geografica; pochi decennî più tardi giunse in Patagonia P. S. de Gamboa, che vi lasciò alcune colonie.
Le colonie della Patagonia si svilupparono alquanto e il tenore di vita degli scarsi coloni spagnoli nonché degl'indigeni migliorò un poco, in seguito al permesso, accordato da Madrid ai gesuiti di creare missioni. Quanto era statti tentato e attuato nelle missioni del Paraguay e dell'Uruguay, venne fatto nel secolo XVIII anche per la Patagonia, sia pure in misura ridotta, e quest'opera riuscì indiscutibilmente a risollevare gl'indigeni. I gesuiti continuarono a operare nel Paraguay fino alla loro espulsione (1767).
Alcuni posti furono fondati, alla fine del sec. XVIII, sotto il viceré Juan José de Vertiz, sulla costa atlantica. Sulla costa meridionale solo nel sec. XIX sorgeva Punta Arenas. Alcuni viaggi alla fine del sec. XVIII resero meglio noto il contorno delle coste e il corso dei fiumi Río Negro e Santa Cruz. Il primo fu risalito nel 1778 da T. Falkner, fino al lago Nahuel Huapí, il secondo nel 1782 da F. Viedma; una cinquantina di anni più tardi, nel 1833-34, l'italiano N. Descalzi da Chiavari esplorava, per conto del governo argentino, il Río Negro, mentre nello stesso periodo C. Darwin insieme a R. Fitzroy risaliva il Río Santa Cruz. Nel 1789 giungeva in Patagonia l'italiano A. Malaspina, guidando una spedizione organizzata dalla Spagna: in quell'anno e nel successivo egli viaggiò lungo la costa patagone, approdando in diversi punti della costa orientale, visitando accuratamente quella occidentale; disgraziatamente il risultato dei suoi viaggi fu noto solo assai più tardi in Europa. Nel 1827 A. d'Orbigny passava alcuni mesi a Carmen de Patagones e raccoglieva preziose notizie sugl'indigeni.
Una nuova era nell'esplorazione geografica della Patagonia si apriva poi nella seconda metà del sec. XIX, con il viaggio dell'inglese G. Ch. Musters: questi, nel 1869-70, partendo da Punta Arenas traversò l'intera regione, dapprima avanzando lungo la costa atlantica, poi risalendo il Río Chico fino alla confluenza del Río Belgrano, dirigendosi quindi al lago Nahuel Huapí, per volgere infine a E. e traversare la Patagonia settentrionale fino al basso Río Negro. L'esplorazione del Musters segnò l'inizio di una serie d' importanti viaggi. Nel 1873, Feilberg scopriva il Lago Argentino; contemporaneamente l'argentino F. Moreno iniziava la serie dei suoi viaggi, nei quali percorse più volte la regione. Dopo avere visitato, nel 1873-74, il Río Negro e il Santa Cruz, nel 1875 da Buenos Aires si portava al lago Nahuel Huapí e quindi traversava la cordigliera andina; nell'anno seguente, avendo a compagno C. M. Moyano, tornava al Santa Cruz e lo risaliva, raggiungendo il Lago Argentino e scoprendo più a N. i laghi Viedma e San Martín; tre anni più tardi il Moreno traversava la Patagonia settentrionale da Carmen de Patagones alle sorgenti del Chubut, seguendo nel ritorno la via del Limay e Río Negro. Altri viaggi di esplorazione compiva ancora il Moreno nell'ultimo decennio del secolo: nel 1896 è di nuovo nella Patagonia centrale, nel 1897 in quella meridionale, nel 1898 risale ancora il Santa Cruz, segue la Cordigliera fino al lago Nahuel Huapí, indi valica le Ande e raggiunge Puerto Montt sulla costa chilena. Nel frattempo si compivano molti altri viaggi di esplorazione. C. Moyano, nel 1878, avendo a compagno R. Lister partiva da Punta Arenas e giungeva al Río Chico, indi lo risaliva fino alla sorgente; l'anno seguente risaliva il Santa Cruz, dov'era già stato con F. Moreno, ed esplorava la regione intorno al lago S. Martin; è suo merito anche la scoperta delle sorgenti dei fiumi Coylé e Gallegos, il secondo dei quali fu poi risalito nel 1886 da A. de Castillo, il primo, nel 1892-93, da A. Mercerat. Nel 1880 Moyano lascia S. Cruz per un nuovo viaggio: risale il Rio Chico fin presso la confluenza del Belgrano, indi prosegue verso N. scoprendo il lago Buenos Aires, infine discende il Senguerr e raggiunge quindi il Chubut: tocca così i laghi Musters e Colhué, che erano stati scoperti due anni prima, insieme al basso Río Senguerr, dal viaggiatore inglese H. Durnford. Il territorio del Chubut, fra 40° e 45°, era percorso nel 1884 da L. de Roa; due anni più tardi J. Fontana risaliva il Chubut fino a 71° 45′ O., indi trovava le sorgenti del Senguerr nel Lago Fontana ed esplorava la regione dei laghi Colhué e Musters. A queste esplorazioni altre si accompagnarono e seguirono. Dopo il trattato concluso nel 1881 fra Argentina e Chile, varie spedizioni percorsero la cordigliera andina, onde delimitarvi la linea spartiacque (v. argentina, IV, p. 238). Negli ultimi anni del sec. XIX varie spedizioni scientifiche si seguirono, soprattutto nel N. e nel S. della Patagonia: nella prima regione ricordiamo quelle di O. Nordenskiöld (1895-97), M. I. B. Hatcher (1897-1899), R. Hanthal (1899-901), K. Reiche e R. Pohlmann (1900), poi di Th. H. Halle, M. Wilcox, C. Skottsberg, ecc.; nella seconda quelle di Obligado (1881), Olaswaga (1881), O. Comor (1883-84), I. Siemiradzki (1891). Queste e altre esplorazioni e indagini scientifiche promossero la pubblicazione di varie opere sulla Patagonia.
Le popolazioni indigene.
Lo sviluppo dei viaggi di esplorazione d'America del secolo XVI fece sì che gl'indigeni della Patagonia fossero conosciuti dagli Europei ancor prima dei popoli di più progredita civiltà che abitarono la fascia andina del continente meridionale. I Patagoni vennero infatti osservati fino dal 1520 da un viaggiatore acuto e, relativamente ai tempi, molto accurato, Antonio Pigafetta da Vicenza, che accompagnò Magellano nel suo famoso periplo, e registrò circa 90 vocaboli "de li giganti Pathagoni" dalla viva voce degli indigeni del porto San Julián, i quali vocaboli costituiscono la prima raccolta linguistica dell'America australe. Gigantesca apparve fino dal primo incontro la statura dei Patagoni, e fu poi esagerata dalle relazioni posteriori e dai disegnatori di viaggi del sec. XVIII. Sappiamo oggi, grazie all'antropologia (v. appresso), che i Patagoni ebbero una statura media maschile superiore a m. 1,70. L'impressione che fecero sugli Europei si deduce anche dal nome, imposto a quegli indigeni da Magellano: Patagones (da pata "zampa"), e poi anche dalla leggenda Terra gigantum che venne apposta alla regione dai cartografi del sec. XVI.
Dal nome dato agl'Indî nacque il nome geografico Patagonia, ristretto oggi ai territorî del Neuquén, del Río Negro, del Chubut e di Santa Cruz, ma dagli scrittori dei secoli scorsi attribuito a tutta la vasta regione posta al S. di Buenos Aires, fra la Cordigliera e l'Atlantico.
Non conosciamo il nome dei Patagoni nella loro lingua, ma sappiamo che nella lingua dei Puelche fu Tehuelhet e in quella degli Araucani Tehuelche (uguali entrambi a "uomini del sud"), e Tehuelche è appunto il termine gentilizio adottato per indicare gl'indigeni che abitarono le desolate terrazze patagoniche, fra il Río Negro e lo stretto di Magellano; essi furono calcolati complessivamente in numero di 8000, e precisamente: 4000 nel Río Negro e Chubut, e 4000 nel territorio di Santa Cruz, ossia Tehuelche settentrionali e meridionali. Oggi non se ne conserva altra traccia che quella visibile negl'incroci.
L'indagine linguistica compiuta sui vocabolarî raccolti dai viaggiatori dei secoli scorsi ha rilevato una differenza notevole fra i Tehuelche settentrionali e i meridionali: i primi appartengono a un gruppo linguistico künnù e gli ultimi al gruppo cion, così denominati da R. Lehmann-Nitsche in base alla parola che indica "uomo"; il gruppo meridionale comprende anche gli Ona, che sono Patagoni passati di là dallo stretto.
Gli Ona chiamano sé stessi col nome di Šelk'nam, cioè "razza", "popolazione" (v. fuegini).
Queste popolazioni subirono un'intensa trasformazione nei costumi, nell'economia e nella religione durante i quattro secoli che seguirono alla loro scoperta, principalmente a causa della forte preponderanza esercitata su di essi dalla civiltà dei sopraggiunti Araucani, e dalla introduzione del cavallo. La trasformazione del nomadismo indigeno da pedestre a equestre, portò una vera rivoluzione dell'intero patrimonio culturale, che promosse nella Pampa, così come nella Patagonia, il sorgere di un più profittevole adattamento al terreno nel senso della vastità.
Per apprezzare questa trasformazione è necessario partire dallo stato di cose che fu trovato dalla spedizione di Magellano, nel 1520, e di cui è specchio fedele la relazione del Pigafetta. Fino dalle prime righe, dopo avere descritto la statura del Patagone, e la sua "faza grande e dipinta", il Pigafetta comincia a darci ragguagli etnografici preziosi. La pittura facciale era di color rosso, eccetto gli occhi, circondati da un cerchio giallo; due macchie a forma di cuore fregiavano le guance, i capelli erano incipriati con una polvere bianca. Unico vestito, un manto di pelli, ben cucite, di uno strano animale, che il Pigafetta descrive (è il guanaco, camelide patagonico); brandiva nella sinistra un arco di legno, corto e massiccio, con la corda di tendine di guanaco, e nella sinistra alcune frecce di canna, anch'esse corte, impiumate e con punta di silice. Al vedere che gli Europei s'avvicinavano, gl'Indî si disposero in fila, senza armi e quasi nudi, e cominciarono a danzare e cantare, alzando il dito verso l'alto, come a indicare che li consideravano venuti dal cielo. Descrive il Pigafetta il modo usato dagl'Indî per cacciare i guanachi: legavano con una specie di capestro agli arbusti alcuni animali giovani della stessa specie, e quando gli adulti silvestri si erano avvicinati ad essi, da opportuni luoghi di appostamento li abbattevano a colpi di frecce. Portavano i capelli tagliati in tondo, come usano i frati, ma più lunghi, e trattenuti sulle tempie mediante un cordone; ai piedi portavano una specie di pantofola di pelle di guanaco. Di questa stessa pelle, cucendo le varie cuoia fra loro, coprivano le tende, fatte in modo da essere agevolmente trasportate da un luogo all'altro, come lo richiedeva la loro vita errabonda. Il Pigafetta narra che si nutrivano di carne cruda e di una radice dolciastra, detta capac. Avidissimi di cibo: "ognuno de li due che pigliassemo mangiava una sporta de biscoto, et beveva in una fiata mezo sechio de haqua et mangiava li sorgi senza scorticarli". Da uno degl'indigeni prigionieri sulle navi il Pigafetta raccolse appunto il vocabolario da lui pubblicato. Ottenevano il fuoco mediante l'attrito di un trapano di legno su esca di midolla d'albero. Curavano il mal di stomaco introducendo una freccia nella gola, fino a produrre il vomito, e i dolori di testa e d'altre parti del corpo facendone versare il sangue da una ferita prodotta a bella posta. Le credenze religiose, come si deduce dagli appunti del Pigafetta, avevano per base un polidemonismo di spiriti in generale avversi (celele), con una specie di demonio maggiore, Setebos.
Queste condizioni culturali non variarono intensamente per ciò che si riferisce all'abitazione, al vestiario e al cibo. La tenda smontabile, o kau, atta a ricoverare in comune tutto un gruppo familiare, rimase sempre coperta da pelli di guanaco, e sotto di essa, nel centro, si accese il fuoco per arrostire le carni. Nel vestiario, si sostituì al sandalo la bota de potro araucana. Nella caccia del guanaco, l'introduzione del cavallo e della boleadora rese inutile l'astuzia di cui ci narra il Pigafetta, e in quella dello ñandú analogamente decadde il sistema primitivo d' introdursi nel mezzo di una frotta con un travestimento di piume e armati di frecce. Industrie fondamentali dei Patagoni rimasero pur sempre l'arte della pietra scheggiata per foggiare coltelli ascie e frecce, in gran parte di aspetto paleolitico (chelleano e più ancora mousteriano), nonché altre di ritocco più fine arieggiante al solutreano, e quella del cuoio, che offriva il materiale più usato per il vestito e la suppellettile. Ma si aggiunse anche la terracotta, per fabbricare vasellame rozzo e con qualche ornamento a linee spezzate, cordiforme, e il tessuto della lana, unicamente per il nastro frontale che reggeva i capelli; inoltre, negli ultimi stadî, anche l'oreficeria (orecchini, spilloni e ornamenti di argento). Pitture a linea di varî colori e sempre geometriche coprivano le pelli adoperate come vesti e la superficie interna del kau. Si conoscono, dai primordî del sec. XVIII, feste d'iniziazione delle giovani mestruanti. Le donne avevano il compito di preparare i cibi e trasportare le tende e la suppellettile; più tardi impugnarono le redini del cavallo sul quale tutto ciò veniva caricato. Agli uomini spettavano le cure della caccia e della guerra. In fatto di armi, all'arco e alle frecce dell'antico Patagone subentrò la boleadora anche per il combattimento, fino dalla metà del sec. XVIII; ma presto cominciò a raccogliere ogni pezzo di ferro che giungeva alla sua portata e apprese a foggiarne sciabole e pugnali; adottò anche la lancia araucana, con punta metallica. Accanto alle nuove armi entrò in uso una specie di corazza di varî cuoi sovrapposti, che proteggeva il torso, il collo e le braccia, mentre un copricapo anche di cuoio, ad ali tese e con cresta sagittale, proteggeva il capo. In fatto di usi funebri, malgrado le molte varianti locali, come la sepoltura in caverne o nelle dune d'arena, si può dire che il sistema caratteristico dei Patagoni fu il chenque, o monticolo di grossi ciottoli, di forma ovale o circolare, situato per lo più sulla cima di un'altura, che copriva direttamente il cadavere, in posizione rannicchiata, accompagnato a volte da una suppellettile più o meno modesta (cocci, frecce, pugnali, piume, ecc.). Si diffuse inoltre il sistema di seppellire il cadavere già ridotto a scheletro, sia mediante una sepoltura primaria che durava press'a poco un anno, sia mediante una vera e propria asportazione dei tessuti molli. La scarnificazione veniva affidata a una vecchia esperta che si trovava in ogni tribù, e la sepoltura definitiva era preceduta dalla colorazione delle ossa con ocra. Fu di rito anche il sacrificio di cavalli alla morte di un membro della famiglia, e pare che si preferissero luoghi speciali, a volte lontanissimi dalla toldería, per accumularvi i tumuli e le fosse. Anche il pantheon si fece più complesso, con l'intervento di divinità uraniche; ma gli spiriti avversi perdurarono, e la magia richiese l'impiego sempre maggiore dello stregone.
Antropologia. - Periodo preispanico. - I resti osteologici provenienti da diverse regioni della Patagonia, furono minutamente studiati dal Verneau. Le misure eseguite sopra un gran numero di cranî, gli hanno permesso di distinguere da una parte caratteri comuni a tutti, e dall'altra parte, caratteri variabili. Non esistono documenti sopra un periodo anteriore a questa mescolanza. Non è possibile neppure stabilire, tra i diversi tipi distinti da R. Verneau, una cronologia relativa, né assegnare a tali reperti un'epoca certa: si può dire soltanto che sono di epoca preispanica.
Su tutti i cranî il Verneau ha constatato: un aspetto generale potente, con inserzioni muscolari molto forti; una grande capacità, dovuta soprattutto allo sviluppo della parte posteriore; sporgenza della glabella e della parte interna degli archi sopraciliari; fronte stretta e sfuggente; prognatismo facciale; estroversione dell'angolo mandibolare; mento molto pronunciato, e denti molto usurati. I caratteri variabili sono: l'indice cefalico (da 74,59 a 81,52); l'indice nasale (da 57, 14 a 41,81), e l'indice orbitario (da 90,26 a 83,23).
Nonostante i caratteri comuni ai diversi cranî, queste variazioni degl'indici cefalico, nasale e orbitario hanno indotto il Verneau a concludere per l'esistenza in Patagonia di parecchi tipi etnici, che egli ha classificato secondo le località principali: tipo di Roca, platidolicocefalo; tipo di Viedma, sotto brachicefalo e platicefalo; tipo del Chubut, mesaticefalo.
La presenza di diversi modi di deformazione cranica (aymará, schiacciamento frontale, occipitale, o fronto-occipitale) starebbe a suffragare questa molteplicità di origini. Tuttavia, l'esame dei caratteri costanti consentirebbe di ammettere come possibile l'esistenza d'un sustrato unico che, per incroci o per mutamenti, sarebbe giunto ai tipi variati dei paraderos.
Lo studio comparato degli scheletri ha condotto il Verneau a formulare le seguenti conclusioni: i Tehuelche erano di statura alta, avevano ossatura robusta, femore platimerico e tibia platicnemica, presentavano tra gli arti inferiori e quelli superiori il rapporto caratteristico dei Negri. Un elemento di statura meno alta si trova associato a un tipo di cranio più fine e brachicefalo (tipo araucano), deformato secondo il sistema aymará. Il cranio ona descritto da V. Lebzelter offre i caratteri che sui cranî di Patagonia si presentano come costanti, ma è iperdolicocefalo (69,85); ciò farebbe supporre che il tipo primitivo fosse dolicocefalo.
Periodo storico. - La caratteristica degli odierni Tehuelche che maggiormente ha colpito gli esploratori, è, come si è già detto, la statura: gli Spagnoli credettero di vedere in quella popolazione veri giganti; ma le misurazioni indicano una media tra m. 1,78 e 1,80, con un massimo di m. 1,92 (d'Orbigny), (l'elemento di bassa statura segnalato dal Verneau, sarebbe dunque scomparso e non si troverebbe nella popolazione se non fortuitamente). Le forme sono massicce senza obesità, per quanto riguarda lo sviluppo dello scheletro e dei muscoli. Le donne sono, in proporzione, grandi e forti come gli uomini; entrambi i sessi presentano estremità piccole. Relativamente agli arti inferiori, il tronco è sviluppatissimo. Il colorito è bruno-olivastro (n. 21 del Broca). La testa è forte, mesocefala, con faccia larga e zigomi sporgenti, sebbene quest'ultima caratteristica sia spesso dissimulata, nell'adulto, dal sistema muscolare. La fronte è sfuggente e la faccia protesa in avanti con mento prominente; gli occhi sono profondamente incassati, piccoli, ad apertura molto stretta, orizzontali od obliqui, generalmente senza plica mongolica; il naso, stretto e fortemente depresso alla radice, s'allarga verso le narici bene aperte; le labbra sono forti, i capelli neri, lisci e grossi. Gli Ona presentano lo stesso aspetto generale dei Tehuelche; ma hanno testa più fine, senza prognatismo; naso piccolo, non depresso alla radice, talora leggermente camuso. Sono brachicefali.
Lingue. - I linguisti all'espressione lingua patagone preferiscono generalmente l'altra lingua tehuelche o cioneka.
Fra i tratti caratteristici di questa lingua ricordiamo: il plurale non è distinto; il genitivo si ottiene preponendo la particella dai o ka, per es., dai ya-nko "di mio padre" i pronomi possessivi si prefiggono, per es., yi-paiken "il mio coltello", m-paiken "il tuo coltello", d-paiken "il suo coltello", ecc. I prefissi possessivi servono anche da pronomi nella coniugazione; il tema verbale rimane immutato e riceve solo il suffisso -ško nella forma positiva, -mo nella interrogativa, per es.yi-tge-sko "io vedo", mě-tge-ško "tu vedi", yi-tge-mo? "vedo io?", me-tge-mo? "vedi tu?".
In senso più vasto il patagone fa parte della famiglia cion, che ha anche un ramo fuegino (v. fuegini, XVI, p. 150).
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