PASQUINO e PASQUINATE
. Pasquino è l'avanzo d'un gruppo marmoreo della prima età ellenistica (secolo III a. C.), che rappresentava o Menelao col corpo di Patroclo o Aiace col corpo di Achille. Dissotterrato dove ora è la Piazza di Pasquino, fu nel 1501 fatto erigere su un piedistallo dal card. Oliviero Carafa all'angolo volto a oriente del palazzo Orsini (ora Braschi), dove il cardinale abitava. Perché al bel torso, che il Bernini e altri artisti giudicarono una delle migliori statue che fossero in Roma, sia stato dato quel nome, rimane dubbio. Simbolica è forse la tradizione, di origine piuttosto tarda, che lo fa risalire a un sarto Pasquino, che aveva bottega lì presso; anche la statua, vedremo, tagliava i panni addosso alla gente. Più antica, perché attestata già nel 1509, è la tradizione che vuole chiamata la statua da un "literator seu magister ludi", da un maestro di scuola, che le abitava di contro. Altri parla d'un barbiere, altri d'un oste; s'è parlato pure di un Pasquino esule senese, ma vissuto un secolo prima che il torso fosse rimesso in onore.
Qualunque sia il motivo del nome affibbiato al torso, fatto è che Pasquino finì con l'impersonare la satira anonima romana, dotta e popolaresca, perché in suo nome furono composti libelli (le pasquinate) in latino e in volgare, in verso e in prosa contro i papi e il loro governo, contro i cardinali e la curia, contro persone e costumanze giudicate a dritto o a torto degne di biasimo, e i cartelli che li portavano scritti furono affissi al torso, al piedistallo, sui muri circostanti.
Dal mondo classico (basterà citare l'oraziano "mediocribus esse poetis - Non homines, non di, non concessere columnae": Orazio, Ars, 372-73) il Rinascimento aveva ereditato il costume d'affiggere versi a statue, a muri, a pilastri, dovunque un pubblico frequente potesse leggerli e gustarli: versi apponevano alle piante e ai marmi della villa di Giovanni Goritz sopra il Foro Traiano, e alla sansovinesca S. Anna nella chiesa di S. Agostino i poeti amici e clienti di quel tedesco geniale e gioviale, e versi vedevano esposti nei crocicchi più frequentati altre città italiane. Non fa dunque meraviglia che al card. Carafa o a qualcuno dei suoi dotti seguaci venisse in mente di fare del torso eretto in Parione uno di codesti luoghi d'esposizione poetica, e che il costume, prima libero e continuo, s'organizzasse poi per la volontà di quel porporato in una festa annuale. Il giorno di San Marco (25 aprile), ch'era festa anche nella vicina chiesa di San Lorenzo in Damaso, il torso era d'anno in anno variamente camuffato, mediante ripieni di cartapesta e drappi e colori, a raffigurare una divinità pagana o altro personaggio del mondo antico, ed epigrammi latini, allusivi a quel travestimento, erano appiccicati, a centinaia, a migliaia, sotto e intorno alla statua, dal segretario ordinatore della festa o dai poeti stessi, e rimanevano esposti quel giorno. Poi venivano raccolti e stampati, almeno in parte, in certi opuscoli che oggi sono delle più ghiotte rarità bibliografiche. Ce n'è una serie che va con qualche lacuna dal 1509 al 1525, e che procura a chi la legga la più amara delusione, perché non vi si trovano, come era da aspettarsi, agili poesiole volgari e, mettiamo pure, anche latine, irte di punte satiriche, scoppiettanti di spirito comico, ma epigrammi e prosette latine di esercitazione scolastica, di rettorica pedantesca, di cortigianeria adulatoria. Così è; Pasquino o, meglio, per non anticipare gli eventi, la poesia affissa a Pasquino comincia dotta, scolastica, curiale. Sarebbe però ingenuo prendere questa indiscutibile verità alla lettera, accettarla con rigore assoluto. Anche a Roma, come in ogni città d'Italia, era in uso almeno fin dalla prima metà del sec. XV la satira anonima politica: motti spiritosi, giaculatorie, epigrammi che trafiggevano principi, papi, cittadini cospicui, e andavano allegramente di bocca in bocca o comparivano appiccicati ai muri e al canti delle vie. Ci sarebbe di che stupire se sul torso che il giorno della festa ufficiale ostentava sì gran profluvie di versi pedanteschi, non comparisse durante l'anno qualcuno di quegli sfoghi satirici, tanto più che a Roma anche questi mantennero forse più a lungo che altrove un certo carattere erudito e curiale. Naturalmente chi dava in pasto al pubblico le sue anonime elucubrazioni poetiche, fossero queste melensaggini erudite o volanti frecce, desiderava, e certo più le frecce che le melensaggini, che largamente si diffondessero; che dal muro o dalla statua, cui le affiggeva, parlassero a un uditorio il più possibile numeroso. Ora Pasquino s'era venuto a trovare in uno dei luoghi più popolosi di Roma, in Parione, tra la Sapienza e San Lorenzo in Damaso, sulla via che dal campo d'Agone, centro di feste, di processioni, di cortei, conduceva alle dimore curiali allineate in Banchi verso il Vaticano, presso alle botteghe dei librai, dei copisti, degli stampatori, alle quali confluivano la vita della Curia e la vita dello Studio, e alla sua collocazione dovette la sua fortuna sia di pedante e sia di satirico. Ché sulla statua ove per volontà d'un cardinale, il Carafa prima e gli altri successi a lui nella protezione di Pasquino poi, si esponevano a giorno fisso stormi di epigrammi nel grave latino della scuola, andarono volentieri a posarsi "polizze" malediche, e latine e volgari, di mano in mano che le pubbliche contingenze acuivano il pungiglione alla satira anonima curiale, borghese, popolaresca. Fu sotto il pontificato di Leone X, e poi durante il conclave onde uscì eletto Adriano VI, che Pasquino divenne il gran divulgatore della satira politica, rubando il mestiere a quant'altri canti e statue erano in Roma, cui si solessero affiggere le maldicenze dei curiali e del popolo; prestandosi prima a lasciare parlare gli altri con le polizze anonime che gli erano appiccicate, poi parlando lui stesso con le polizze che gli attribuivano le maldicenze. Artefici di codesta, non trasformazione del Pasquino erudito, ma progressiva sopraffazione di questo per opera del Pasquino satirico, furono i molti versicciolai che Roma ospitava in quegli anni, cacciatori di comode sinecure e di uffici redditizî, allegri gaudenti e prepotenti acciuffatori senza scrupoli d'inaspettate fortune: principale fra tutti, Pietro Aretino.
Da allora in poi Pasquino fu il portavoce della satira anonima, sia che se ne facesse semplicemente esibitore, sia che, travestito o non travestito, se ne fingesse autore, scherzando, canzonando, trafiggendo in proprio nome e dialogando con altre statue, che alcune forse lo avevano preceduto e ora gli tenevano bordone nel suo malignare: con Marforio, gigantesca statua di fiume del sec. I d. C. già in una via appiè del Campidoglio e ora nel Museo Capitolino; con Madama Lucrezia, avanzo di statua d'Iside ora nell'angolo rientrante del palazzetto di Venezia; con l'abate Luigi, statua d'antico oratore, che dopo varie peregrinazioni s'appoggia ora alla chiesa di S. Andrea della Valle in fondo alla piazzetta; e perfino col Gobbo di Rialto, che scolpito nel 1541 da Pietro di Salò a reggere gli scalini della pietra del bando a Venezia, era divenuto come il gerente della satira anonima, che già dianzi parlava dalle colonne del mercato rialtino. A Roma la maldicenza privata e, specialmente nell'occasione dei conclavi, l'opposizione politica continuarono nei secoli a sbizzarrirsi con la complicità o per bocca di Pasquino, fattosi ormai quasi esclusivamente volgare (italiano o romanesco), in sonetti, in distici, in quartine, in epigrammi, in prosette e da ultimo anche in poesiole di tipo giustiano, finché non lo mise a tacere la caduta del potere temporale dei papi. Nel sec. XVI anche l'opposizione religiosa dei protestanti si valse del loquace torso di Parione per combattere la sua battaglia, sia che epigrammi eterodossi realmente affiggesse a Pasquino e sia che come affissi altri ne divulgasse. L'umanista eretico Celio Secondo Curione (v.), autore d'un Pasquillus extaticus, raccolse codeste satire anticattoliche nei due volumi Pasquillorum pubblicati nel 1544 a Basilea.
Pasquinate di P. Aretino e anonime per il conclave e l'elezione di Adriano VI, a cura di V. Rossi, Palermo-Torino 1891; P. Aretino, Poesie, a cura di G. Sborselli, I, Lanciano 1929, pp. 127-170; Pasquino. Cinquecento pasquinate, a cura di R. e F. Silenzi, Milano 1932 (a pp. 409-15 una non del tutto soddisfacente bibliografia).
Bibl.: L. Morandi, Prefazione ai Sonetti romaneschi di G. G. Belli, I, Città di Castello 1889, pagine cxli-ccxxvii; D. Gnoli, Le origini di maestro Pasquino, in Nuova Antologia, 1° e 16 febbraio 1890; A. Luzio, P. Aretino e Pasquino, ibidem, 16 agosto 1890; G. A. Cesareo, La formazione di mastro P., ibidem, 1° maggio e 1° giugno 1894; id., Pasquino e la satira sotto Leone X, in Nuova Rassegna, II (1894), nn. 1, 3, 5, 8; G.A. Cesareo, Papa Leone e maestro P., in Nuova Antologia, 16 maggio 1898. - Sull'Abate Luigi, V. Cian, in Natura ed arte, XVII, n. 5, 1° febbraio 1908; sul Gobbo di Rialto, A. Moschetti, in Nuovo Archivio veneto, V, i (1893); XI, ii (1896).