SCURA, Pasquale
– Nacque il 24 aprile 1791 a Vaccarizzo Albanese, nel Cosentino, da Rosa Ferrioli e da Agostino, proprietario terriero, entrambi di famiglia italo-albanese (arbereshë).
Pasquale era nipote dal lato paterno di due sacerdoti della chiesa cattolica di rito greco, che, insieme alla lingua, era risorsa identitaria primaria per gli arbereshë. Dopo i primi anni di scuola a Vaccarizzo, trascorse un triennio al collegio italo-greco di Sant’Adriano a San Demetrio Corone, centro di aggregazione per l’élite arbereshë che raccoglieva un clero di tendenze illuministe, imbevuto della filosofia vichiana e in contatto con la cultura giacobina, e fu perciò devastato dai sanfedisti nella guerriglia antinapoleonica del 1806. L’impronta progressista e laicista di Sant’Adriano proseguì nei decenni successivi, quando il collegio, vicino al carbonarismo, formò alcuni protagonisti della sollevazione del 1848, i democratici Girolamo de Rada (1814-1903) e Domenico Mauro (1812-1873).
Dopo il collegio, Scura tornò a Vaccarizzo, per approfondire la sua preparazione scientifica, e seguì a Castrovillari un corso di medicina che stava ancora frequentando nel 1809, quando fu chiamato al servizio militare. Il padre pagò duecento ducati per una sostituzione, così da consentirgli di proseguire gli studi per poi trasferirsi a Napoli e laurearsi in medicina, progetto che fu tuttavia interrotto, nel 1812, dalla morte di Agostino.
Primo di sette fratelli, Pasquale dovette cercarsi un impiego, e lo trovò nel 1814, grazie a un membro importante della comunità arbereshë, Salvatore Marini, presidente del tribunale penale di Monteleone (attuale Vibo Valentia), che lo nominò vicecancelliere del tribunale, funzione che non richiedeva una formazione giuridica. Dopo pochi mesi, Scura fu confermato cancelliere titolare, ed entrò così, da neofita, in un sistema che il regime napoleonico stava profondamente riformando, secondo principi – dall’abolizione delle giurisdizioni di diritto comune alla codificazione, all’introduzione del pubblico dibattimento – che i Borbone tennero in vigore nel Regno anche dopo il 1815. La magistratura divenne un corpo di funzionari inquadrati in un sistema disciplinare che ne garantiva lo status e apriva prospettive di carriera, ma li esponeva all’arbitrio ministeriale. La carriera di Scura sperimentò entrambi gli aspetti: le opportunità di carriera e l’uso arbitrario delle sanzioni, come la repentina e immotivata sospensione dal ruolo.
La rete parentale gli aveva consentito l’ingresso in carriera; le capacità organizzative ne facilitarono la progressione, insieme alla disponibilità alla mobilità territoriale. Nel gennaio 1818 passò con le funzioni di giudice istruttore a Catanzaro, dove nel 1817 si era trasferita la corte d’appello; nell’estate del 1819 rinunciò a questa carica per trasferirsi come cancelliere in Sicilia (al tribunale penale di Girgenti), ritornata alla corona dei Borbone che nel 1817 avevano introdotto nell’isola il nuovo sistema giudiziario. Vi rimase solo fino al novembre del 1820, quando il governo, in seguito alla sollevazione delle città siciliane sotto il breve regime costituzionale, richiamò i funzionari non isolani sul continente. Alla fine della rivoluzione tutti i corpi pubblici furono sottoposti al vaglio della fedeltà politica, che Scura superò brillantemente: fu così destinato a Taranto e promosso nel 1823 giudice istruttore. Trasferito a Bari, nel 1827 fu promosso giudice del tribunale penale, e destinato a Lecce, dove sposò nel 1829 la diciassettenne Concetta Miele (Lecce, 1812), figlia di un proprietario terriero. Insieme ebbero sette figli, tre maschi e quattro femmine.
Dopo il matrimonio, poiché il radicamento parentale nella sede di servizio non era ben visto dalle autorità giudiziarie, nel 1832 Scura tornò in Calabria, prima a Cosenza e poi, nel 1836, a Catanzaro. In quegli anni i suoi superiori lo descrissero come un ottimo magistrato, colto e preparato, onesto e impermeabile alle pressioni del contesto (Archivio di Stato di Napoli, Ministero di Grazia e Giustizia, f. 2983, n. 238, Notizie ed osservazioni intorno alla Magistratura dei Domini al di qua del Faro, aprile 1837, pp. 60-62). Arrivò finalmente, nel 1840, la promozione a procuratore generale, carica con la quale fu destinato a Potenza.
Il 1848 lo sorprese in questa città, da lui definita «la Siberia del Regno» per via del clima rigido, dell’isolamento e della mancanza di scuole (ibid., f. 2983 s.n., Stato de’ magistrati componenti la Gran Corte criminale di Basilicata, formato a norma della Ministeriale di S.E. il Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia in data degli 8 aprile 1848). Un soggiorno così lungo nella stessa sede gli appariva inspiegabilmente punitivo, in un sistema in cui i gradi superiori ottenevano facilmente destinazioni più convenienti. Le sue suppliche per un trasferimento a Salerno, o per un congedo che gli consentisse di visitare la figlia che studiava a Napoli, furono respinte, nonostante l’anzianità, gli ottimi giudizi dei superiori e le migliaia dei fascicoli, «trentottomila e più» (ibid.), discussi in quei sette anni a Potenza. Eppure, forse senza neanche saperlo, Scura aveva rischiato di essere rimosso dai ranghi, proprio per il suo attivismo, nel febbraio del 1848, quando durante l’epurazione dei funzionari incompatibili con il nuovo regime liberale, avviata dalla direzione della polizia tenuta da Carlo Poerio, egli fu segnalato tra gli indesiderabili (Archivio di Stato di Napoli, Ministero della Polizia generale, Gabinetto, b. 463, espediente 44, Nota de’ diversi impiegati, che per la loro cattiva condotta meritano di essere prontamente rimossi dalle loro cariche, febbraio 1848). Ma il governo fu sostituito, in aprile, dal più moderato ministero di Carlo Troya e Scura restò al suo posto.
Intanto, nella provincia di Potenza dilagava la protesta contadina e nel capoluogo si era formato un Circolo costituzionale lucano, a cui partecipavano sia l’ala democratica, in appoggio alla rivolta sociale, sia quella dei liberali, che se ne sentivano invece minacciati; al centro, il fondatore del comitato, Vincenzo D’Errico, avvocato e proprietario terriero, deputato al Parlamento, sostenitore del governo avvicinatosi ai democratici dopo il 15 maggio. Il Circolo aveva assunto un ruolo di governo provvisorio, convocato una Dieta dei deputati provinciali, ed eletto due comitati (di guerra e sicurezza e delle finanze) per la definizione della Guardia nazionale. Nell’estate del 1849, allo scatenarsi della reazione dopo la caduta del regime costituzionale, si aprì contro i membri del Circolo un processo per cospirazione e sovversione che coinvolse decine di persone, tra le quali D’Errico e Scura, che era stato cooptato nel Comitato di guerra e sicurezza. Raggiunto dal mandato di cattura a metà ottobre del 1849, Scura fuggì da Potenza e si imbarcò a Napoli insieme al figlio Angelo sul battello francese Ariel, che li portò il 21 ottobre a Civitavecchia e di lì a Genova. Seguivano così il tragitto già percorso alcune settimane prima dagli ex deputati e patrioti napoletani, Pasquale Stanislao Mancini, Vincenzo Lanza, Giuseppe Pisanelli e Raffaele Conforti, che si erano imbarcati sullo stesso battello. Altri coimputati del processo per i fatti di Potenza presero la via dell’esilio: il barone Giacomo Colonna, già intendente di Potenza nel maggio 1848 e perciò implicato nel processo, fece tappa a Marsiglia dove aprì, insieme a Conforti e altri, una cassa di soccorso per i rifugiati; nel maggio del 1850, fuggì dal Regno anche D’Errico, che da Marsiglia si spostò a Parigi fino al marzo 1852, quando insieme a Ruggiero Bonghi raggiunse a Torino gli altri napoletani. Scura si fermò a Genova, dove nel marzo del 1850 chiese al console duosiciliano un salvacondotto per tornare a Napoli a giustificare la sua fuga, dovuta all’intollerabile prospettiva di trovarsi detenuto insieme ai numerosi rei che lui stesso aveva condannato, e a presentare le prove della sua innocenza. Ma la richiesta fu respinta (ibid., b. 604, esp. 1740, vol. 1) e, nel 1851, egli fu rinviato a giudizio, in uno dei numerosissimi processi politici della reazione, che in questo caso coinvolse più di trenta imputati, alcuni dei quali furono accusati anche di partecipazione alla setta dell’Unità italiana. Il numero dei detenuti politici (fra 20 e 21.000), coinvolti in processi di dubbia legalità, mostrava come la persecuzione dei liberali fosse arrivata al parossismo. Dalla Calabria, la moglie di Scura reiterò le sue suppliche al re perché il marito venisse processato, e finalmente, nel 1855, la sua posizione fu stralciata e si aprì un procedimento che finì per confermare la natura pretestuosa dell’accusa politica.
La sua condotta, nei giorni successivi al 15 maggio, era stata quella di uomo d’ordine, estraneo alla lotta politica, che aveva accettato di partecipare al Comitato di guerra solo per impedire che vi prevalesse l’ipotesi insurrezionale; emerse, ancora, lo zelo con cui negli anni precedenti egli si era impegnato nella prevenzione dei reati politici e nel controllo sull’opinione pubblica. La pubblica accusa ne chiese perciò l’assoluzione con formula piena, sottolineando il suo «non dubbio e religioso attaccamento [...] alla augusta persona del Re N.S.» (Perri, 2011, p. 207), come recitava la sentenza della Gran Corte criminale di Basilicata del 1° ottobre 1855. La Gran Corte criminale e speciale di Potenza pronunciò l’assoluzione il 13 ottobre 1855.
Già un anno prima di essere raggiunto dal mandato d’arresto, Scura era stato sollevato dall’incarico, colpito dall’ostracismo ministeriale per lo zelo impegnato nell’inchiesta sulla morte del deputato democratico Costabile Carducci, ucciso il 4 luglio 1848 sulla costa al confine tra la Basilicata e la provincia di Salerno dalle squadriglie guidate dal prete filoborbonico Vincenzo Peluso. Tutti i magistrati impegnati nell’inchiesta furono pesantemente sanzionati: dal giudice regio al giudice istruttore del distretto al pubblico ministero Scura, «messo in attenzione di destino» (Archivio di Stato di Napoli, Ministero di Grazia e Giustizia 1843/82, folio n. 87, Cause politiche di Potenza, 1854, n. 4) senza stipendio e senza motivazione il 3 ottobre 1848. Il caso Carducci fu per l’opinione liberale la dimostrazione dell’intemperanza della reazione borbonica, che aveva mortificato i propri funzionari per aver compiuto il proprio dovere, e riservato invece all’assassino Peluso sul letto di morte addirittura la visita del sovrano, di passaggio verso le Calabrie, nel 1852.
Fallito il tentativo di rientrare a Napoli, Scura cercò senza esito, nel settembre del 1850, di entrare nella magistratura piemontese, sostenuto dalla rete degli esuli napoletani tra Genova e Torino: Conforti e l’ex intendente Colonna lo avevano incoraggiato e probabilmente aiutato a entrare nella cerchia di alcuni magistrati genovesi, che gli avevano promesso i propri buoni auspici. Mancini, che a Torino era membro della commissione ministeriale per la riforma dei codici, e che già lo aveva soccorso economicamente, ammonì Scura sulla difficoltà dell’impresa quando questi gli chiese di appoggiare la sua supplica al guardasigilli Giuseppe Siccardi. In un contesto affollato di esuli qualificati, sarebbe stato necessario un solido appoggio all’interno della magistratura torinese, oltre al possesso della cittadinanza piemontese. Senza lavoro, Scura trovò insostenibile la permanenza a Genova, e si trasferì dopo poco più di un anno a Torino, dove la rete dei contatti era più fitta. E qui il vecchio magistrato coltivò dalla distanza una nuova visione della monarchia borbonica, che espresse attraverso la collaborazione al martirologio dei patrioti italiani pubblicato dalla Società degli emigrati italiani (P. Scura, Giovannandrea Serrao (1799) e Fratelli Filomarino della Torre (1799), entrambi in Panteon dei martiri della libertà italiana, a cura di G. d’Amato, Torino 1852, rispettivamente pp. 22-33 e 102-115).
Nei camei biografici di tre vittime della furia sanfedista, i fratelli Filomarino della Torre e il vescovo Serrao, trucidati i primi due a Napoli e il secondo a Potenza nel 1799, Scura seguì il modello narrativo patriottico, che nelle sanguinose vicende della rivoluzione napoletana individuava la tara originaria di una monarchia che aveva fatto della violenza popolare il suo principale sostegno. Questi due scritti, gli unici di cui si abbia notizia dagli anni dell’esilio, testimoniano il suo avvicinamento a un orizzonte ideologico al quale era stato fino a quel momento estraneo.
Con gli esuli torinesi Mancini, Pisanelli e Conforti, che lo avevano sostenuto anche economicamente, Scura condivise un progetto mai realizzato di Digesto italiano, in cui fu coinvolto anche D’Errico. Due anni dopo l’assoluzione, nel 1857, gli fu finalmente concesso il ritorno nel Regno, con l’obbligo di dimora a Vaccarizzo. Ancora fuori ruolo, senza stipendio né pensione, Scura cominciò così un nuovo esilio nella città natale. Le cose cambiarono con l’estate del 1860, nel corso dell’estremo tentativo di Francesco II di salvare il Regno rinnovandone il regime mediante un’improbabile restaurazione della costituzione del 1848 e la riabilitazione dei perseguitati politici, tra i quali Scura, reintegrato in ufficio, e nominato giudice di Gran Corte criminale (a Campobasso e poi a Santa Maria Capua Vetere). Erano intanto tornati a Napoli gli esuli Conforti e Pisanelli; quest’ultimo, ministro della Giustizia nel primo governo nominato da Giuseppe Garibaldi, promosse Scura consigliere di Corte suprema a Napoli il 17 settembre. Dieci giorni dopo, Garibaldi, nel tentativo di superare la frattura tra la propria segreteria e il governo napoletano, affidò il governo a Conforti, che lo accettò in cambio della rinuncia alla Segreteria dittatoriale, e lo formò con un profilo moderato: vi comparivano gli esuli Scura, ministro della Giustizia e del Culto, e Giacomo Colonna, alle Finanze, e un ex alto funzionario borbonico come Luigi Giura, già direttore del corpo di Ponti e Strade, ai Lavori pubblici.
Era un governo di transizione in una fase di conflitti incrociati (tra Cavour e Garibaldi, tra le diverse anime del liberalismo napoletano), che dovette affrontare il contrasto tra l’opzione dell’annessione immediata al Regno di Sardegna, sostenuta dai moderati, e la convocazione di nuove assemblee parlamentari per l’Italia unita.
Il governo ratificò infine, con la firma di Scura, la formula proposta dal prodittatore Giorgio Pallavicino Trivulzio, sottoposta agli elettori napoletani il 21 ottobre per «l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale ed i suoi legittimi discendenti», che respingeva l’opzione assembleare, ma sanciva la costruzione di un Regno d’Italia, non di Sardegna. Cessato il regime dittatoriale il 9 novembre, Scura lasciò la carica politica, e il 14 fu restituito alla funzione di consigliere di Corte suprema a Napoli.
L’incarico politico era stato troppo breve per poter lasciare un’impronta di rilievo: Scura ebbe il tempo di intervenire sul sistema giudiziario, abolendo l’Alunnato di giurisprudenza pratica (decreto dittatoriale n. 104, 8 ottobre 1860) e le immunità penali dell’ordine ecclesiastico (decreto dittatoriale n. 140, 18 ottobre 1860), ed esonerando i giudici di circondario dalle funzioni di polizia (decreto dittatoriale n. 141, 18 ottobre 1860). Destinò una parte dei valori confiscati ai Borboni al fondo di risarcimento per le vittime della persecuzione politica (decreto dittatoriale n. 170, 22 ottobre 1860) e stanziò una somma per il collegio di Sant’Adriano, che Ferdinando II aveva punito per il coinvolgimento nella sollevazione calabrese del 1848 (decreti dittatoriali n. 147 del 20 ottobre 1860 e n. 192 del 26 ottobre 1860).
I temi del nazionalismo albanese tornarono nella sua ultima opera, Gli Albanesi in Italia (in Biblioteca nuova, V, 1865, pp. 117-158), ispirata all’etnografismo romantico lanciato nella prima metà del secolo dal democratico de Rada.
Morì il 12 gennaio 1868 a Napoli, ancora in servizio come consigliere di Cassazione.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Ministero di Grazia e Giustizia, Magistrati, c. 1839, n. 82; f. 1843, n. 82; f. 2983, nn. 238, 282, 381, 390; Ministero della Polizia generale, Gabinetto (1827-1861), b. 463, esp. 44; b, 604, espediente 1740; b. 576, n. 1099; b. 636, esp. 2437. Inoltre: N. Scura, P. S., in Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, a cura di L. Accattatis, Cosenza 1877, s.v.; G. Mondaini, Moti politici del ’48 e la setta dell’Unità Italiana in Basilicata, Roma 1902, passim; R. De Cesare, La fine di un regno, I, Città di Castello 1908, p. 19; N. Nisco, Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860, Napoli 1908, passim; M. Mazziotti, Costabile Carducci e i moti del Cilento del 1848, Roma 1909, passim; L. Conforti, Come si fece il plebiscito di Napoli e di Sicilia, Napoli 1910, passim; C. Castellano, Il mestiere di giudice. Magistrati e sistema giuridico tra i francesi e i Borbone, 1799-1848, Bologna 2004; F. Perri, P. S. «L’Italia una e indivisibile». La sua vita attraverso i documenti, Roma 2011; E. Francia, 1848: la rivoluzione del Risorgimento, Bologna 2012, ad ind.; R. De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Roma 2013, p. 26; Vincenzo d’Errico. Il carteggio dell’esilio (1850-1855), a cura di V. Verrastro - M. Ginnetti, I, Roma 2015, p. 335; V. Mellone,Verso la rivoluzione. Identità politiche, appartenenze sociali e culturali del gruppo radicale calabrese (1830-1847), in Archivio storico per le province napoletane, CXXXIV (2016), pp. 159-185; Ead., Napoli 1848. Il movimento radicale e la rivoluzione, Milano 2017, ad indicem.