Pasquale Saraceno
Pasquale Saraceno è stato un protagonista riservato e pragmatico della politica economica italiana del Novecento. Un civil servant che voleva orientare il mercato, senza distruggerlo, verso fini sociali, lasciandosi guidare dalla realtà e non temendo di criticare soluzioni, come il partecipazionismo e il keynesismo, che godevano di un ampio consenso. Saraceno ha cercato soluzioni nuove per affrontare una sfida antica: indirizzare l’economia verso il bene comune, servirsi del mercato e non servirlo.
Pasquale Saraceno nasce a Morbegno, in Valtellina, il 14 giugno 1903. Il padre Francesco, di Siracusa, è un sottoufficiale assegnato al V Battaglione alpini di Milano. La madre Orsola Lombardo, di Caserta, segue la sorella maggiore nella capitale meneghina. I due si sposano il 18 agosto 1902 e si trasferiscono a Morbegno, centro di mobilitazione del Reggimento alpini. A Morbegno i Saraceno trascorrono anni felici. Pasquale frequenta le scuole elementari dove incontra Ezio Vanoni, che diventerà poi suo cognato. Nel 1915, primo anno di guerra, i Saraceno tornano a Milano, dove nasce l’ultimo di cinque fratelli.
Il 1918 è un anno tragico. Il padre, colpito da ‘febbre spagnola’, muore. Pasquale, che frequenta un istituto tecnico superiore, è costretto a interrompere gli studi e a cercare un lavoro. Il 19 luglio 1918 viene assunto come avventizio presso la Banca commerciale italiana. Contemporaneamente segue i corsi serali della Scuola Cavalli e Conti di Milano.
Inizia una dura vita da lavoratore-studente. Nel 1920 si diploma ragioniere. Il titolo, che rende felice la madre, dischiude un’onorevole carriera professionale. Pasquale si concentra sul lavoro e si diletta con la scherma. Una brutta ferita al petto lo costringe però a interrompere l’amata pratica sportiva. Una cugina lo convince, e l’aiuta, a riprendere gli studi. Il 30 dicembre 1924 si iscrive alla Bocconi. Ricomincia la dura vita del lavoratore-studente. Nel 1929 si laurea alla Bocconi discutendo con il maestro Gino Zappa una tesi su Coordinazioni caratteristiche di gestione bancaria. La Banca commerciale gli offre l’opportunità di trasferirsi a Sofia per dirigere la nascente filiale bulgara. Ma Pasquale rinuncia. Ha altri progetti: vuole restare in Italia, sposarsi e intraprendere la carriera universitaria.
Il 31 ottobre 1929 lascia la Banca commerciale e passa alla Compagnia fiduciaria nazionale (una società di revisione aziendale). Nell’anno accademico 1929-30 viene nominato assistente volontario presso l’Istituto di ricerche tecnico commerciali e di ragioneria della facoltà di Economia e commercio della Bocconi. Il 14 settembre 1930 sposa a San Martino Valmasino, vicino Morbegno, Giuseppina Vanoni, sorella di Ezio e amica d’infanzia. Dall’unione nasceranno cinque figli. Per Saraceno inizia una fase nuova, segnata da profondi cambiamenti.
Dalla Fiduciaria passa all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Nel 1932 Donato Menichella è alla ricerca di un revisore contabile cui affidare il compito di esaminare i bilanci di una società pugliese. Si rivolge alla compagnia milanese, che manda Saraceno. Il lavoro è ineccepibile e quando Menichella viene chiamato da Alberto Beneduce a costruire la grande holding pubblica che dovrà salvare dalla grande crisi l’economia nazionale si ricorda di quel giovane revisore contabile. Il 1° gennaio 1934 Saraceno è assunto all’IRI, Sezione finanziamenti, e si trasferisce con la famiglia a Roma.
Nello stesso periodo, dalla Bocconi passa alla Cattolica. Nei primi anni Trenta, Saraceno era stato nominato professore incaricato di istituzioni di tecnica bancaria alla Bocconi. Nel maggio del 1932, tramite Zappa, incontra padre Agostino Gemelli, il rettore della Cattolica, il quale, dopo un’iniziale esitazione, gli affida l’incarico, a partire dal 1° ottobre del 1933, dell’insegnamento di revisione e controllo aziendale. Saraceno è ormai uno studioso dei rapporti tra banca e impresa. Nel maggio del 1933 esce il saggio Le operazioni di investimento delle banche di deposito, nel 1935 la monografia su La gestione delle banche commerciali.
Nel dicembre del 1935 ottiene la libera docenza in tecnica mercantile e bancaria. I suoi interessi di ricerca si spostano dal rapporto tra banca e impresa all’organizzazione e gestione delle aziende industriali. Nel 1942 vince il concorso a cattedra bandito dalla Regia Università di Bari e dal 19 ottobre 1942 è chiamato (da padre Gemelli) a ricoprire l’incarico di professore straordinario di tecnica industriale e commerciale presso la facoltà di Scienze politiche della Cattolica di Milano.
Saraceno si divide, ormai da un decennio, tra Roma e Milano, tra l’IRI e l’università. Ai vecchi maestri, Zappa e Menichella, si è aggiunto un nuovo e giovane amico, Sergio Paronetto, anch’egli nato a Morbegno, che lo introduce negli ambienti cattolici romani.
Nella Roma dilaniata dalle bombe, Saraceno collabora alla rivista «Studium» e alla stesura del Codice di Camaldoli, forse il più importante documento sociale elaborato dai cattolici in vista della ricostruzione. Dopo il forzato trasferimento dell’IRI a Milano, a servizio dei tedeschi, decide di restare a Roma. Riesce a farsi assumere all’Alfa Romeo, una società del gruppo, e ottiene da padre Gemelli un periodo di aspettativa per motivi di salute. Ciò nonostante, viene accusato di aver collaborato al trasferimento al Nord del patrimonio dell’Istituto e sottoposto a processo di epurazione. Sarà prosciolto da ogni accusa.
Nel 1944 è nominato direttore dell’Ufficio straordinario presso il Ministero dell’Industria. Nel 1945 redige il Piano di primo aiuto richiesto dal governo americano. L’anno successivo aggiorna il documento per tener conto anche delle necessità del Nord liberato. Sempre nel 1945 viene nominato membro della Sottocommissione Industria della Commissione economica per la Costituente. Nel 1946 è tra i fondatori della SVIMEZ, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Nel 1947 presenta i suoi Elementi per un piano economico 1949-1952.
Nel decennio della ricostruzione, tra il 1943 e il 1952, Saraceno formula un programma di politica economica che considera appropriato per un Paese come l’Italia: un programma né liberista, né keynesiano.
Durante il decennio successivo alla ricostruzione, quello che culmina nel miracolo economico, è uno dei massimi teorici di una programmazione che mira a orientare il mercato verso obiettivi sociali: la piena occupazione, lo sviluppo del mezzogiorno, l’equità distributiva. Nel 1953-54 coordina, all’interno della SVIMEZ, il gruppo di lavoro che elabora lo Schema decennale di sviluppo dell’economia italiana, meglio noto come Piano Vanoni e, dopo la morte dello statista valtellinese, aggiorna lo Schema per tenere conto dell’entrata in vigore del Mercato comune europeo. Nei primi anni Sessanta è il relatore principale di due importanti convegni della Democrazia cristiana, tenuti a San Pellegrino, in cui viene riproposta una programmazione orientativa del mercato. Nel 1962 è nominato vicepresidente della Commissione per la programmazione economica nazionale e collabora alla stesura della Nota La Malfa.
Il 1962 è forse il punto più alto della riflessione economica di Saraceno. Nel 1968 lascia, per raggiunti limiti di età, i quadri dirigenziali dell’IRI e viene nominato consulente generale. Nel 1970 è eletto presidente della SVIMEZ. Nel 1978, l’Università di Venezia, dove si era trasferito nel 1959, lo proclama professore emerito. Saraceno continua a lavorare fino all’ultimo in difesa di un’idea di riscatto del Mezzogiorno e di sviluppo equilibrato del Paese. Muore a Roma il 13 giugno 1991.
Il 24 ottobre 1929 crolla la Borsa di Wall Street e inizia la grande Depressione. Negli stessi frenetici giorni, Saraceno passa dalla Banca commerciale alla Compagnia fiduciaria, e poi dalla Fiduciaria all’IRI e dalla Bocconi alla Cattolica. Diventa un esperto di banca e impresa, anzi, uno studioso dei loro reciproci e complessi rapporti.
Nelle aule universitarie viene spiegato l’ideale modello anglosassone: la banca è un intermediario del credito che raccoglie i risparmi delle famiglie e li trasferisce alle imprese rispettando un rigido vincolo intertemporale: i depositi a breve termine sono utilizzati per finanziare investimenti liquidi e i depositi a più lunga scadenza per sovvenzionare investimenti immobilizzati. Le imprese, oltre che con il credito bancario, si finanziano con capitali propri e ricorrendo al mercato finanziario.
All’IRI Saraceno scopre il reale modello italiano. Le grandi banche nazionali avevano acquistato, con i depositi a vista delle famiglie, le azioni ‘immobilizzate’ delle imprese e le imprese, anziché impiegare capitali propri o ricorrere al mercato finanziario, si erano lasciate acquistare volentieri dalle banche. Tra banche e imprese si era stabilita quella che Raffaele Mattioli avrebbe chiamato una «mostruosa fratellanza siamese» e Guido Carli un «groviglio incestuoso» (cfr. Vigna 1997, pp. 45-57).
Saraceno capisce che i modelli di sviluppo sono «irripetibili». L’Italia non può tornare indietro nel tempo e imboccare lo stesso sentiero di crescita scelto da Inghilterra e Stati Uniti. Nel capitalismo moderno servono molti più capitali, che l’Italia non ha. Si tratta, da un lato, di sbrogliare l’incestuoso groviglio tra banca e impresa e, dall’altro, di riconoscere un ruolo economico allo Stato nella formazione e allocazione del risparmio nazionale.
Nel 1936 vengono approvate due leggi che sembrano andare nella stessa direzione: le banche sono costrette a rispettare il vincolo intertemporale tra depositi e prestiti, e l’IRI viene trasformato in ente pubblico permanente.
Dopo la guerra, arriva la tanto sofferta liberazione. Nella clandestinità le forze politiche preparano la ricostruzione. In tutte affiora la volontà di costruire un ordinamento statuale che possa conciliare la ritrovata libertà con la desiderata giustizia sociale. I liberali pensano alla restaurazione di un libero mercato protetto da leggi che sanzionino ogni intesa restrittiva della concorrenza. Le sinistre temono i fallimenti del mercato e auspicano la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia nazionale. I cattolici vorrebbero orientare dall’interno, e non solo proteggere dall’esterno, il mercato verso obiettivi sociali e a questo fine riscoprono antichi strumenti come la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa.
Il 10 dicembre 1945 si costituisce il primo governo De Gasperi. Inizia, simbolicamente, la ricostruzione. Le forze politiche sono incerte se ricostruire con o senza un piano economico e cioè con o senza le riforme strutturali. Prevale la logica dei due tempi: prima la ricostruzione, poi le riforme. Agli inizi del 1949 gli amministratori americani del Piano Marshall (ERP, European Recovery Program) accusano il governo italiano di eccessiva prudenza nella gestione dei fondi ERP che dovrebbero essere utilizzati, a loro giudizio, per ristrutturare e rilanciare l’economia reale e non soltanto per ricostituire le riserve valutarie. All’interno della Democrazia cristiana i dossettiani chiedono una politica economica keynesiana finalizzata a ridurre la disoccupazione e il divario tra Nord e Sud.
Saraceno è un fautore del controllo sociale dell’economia di mercato e cioè di un «piano per ricostruire». Anzi, è l’artefice principale dei «piani di primo aiuto» richiesti dalle autorità americane per concedere «loans and grants». Ma critica sia il partecipazionismo sia il keynesismo e prospetta una soluzione nuova.
In una serie di articoli pubblicati nel 1943 sulla rivista «Studium», e recepiti dal Codice di Camaldoli, spiega perché il partecipazionismo non può funzionare. I lavoratori non accetterebbero mai di partecipare a eventuali, e possibili, perdite di esercizio. L’unica soluzione praticabile sarebbe quella di attribuire loro la quota di utili eccedente il normale profitto del capitale. Per accertare e determinare la quota di extraprofitti, i lavoratori dovrebbero essere (e sarebbero) chiamati a cogestire l’impresa. Ma, osserva Saraceno, gli extraprofitti sono una manifestazione patologica del capitalismo che dovrebbe essere eliminata o quanto meno contrastata: gli extraprofitti si formano infatti nei mercati imperfetti in cui le imprese possono alzare i prezzi, a danno dei consumatori, oltre la soglia del costo medio minimo di produzione. La conseguente cogestione rappresenterebbe un intralcio all’efficiente governo dell’impresa, che può essere esercitato soltanto dal singolo imprenditore. Il controllo sociale dell’economia moderna non può essere dunque microaziendale (Il meridionalismo dopo la ricostruzione (1948-1957), 1974, pp. 80-99).
In una serie di saggi apparsi tra il 1946 e il 1949 l’economista valtellinese spiega perché il controllo non può essere neppure macrokeynesiano.
Saraceno distingue tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. I primi dispongono di un apparato produttivo idoneo a soddisfare i bisogni della popolazione. Le crisi e la disoccupazione derivano da una carenza di domanda aggregata. L’offerta si adegua alla domanda e le imprese producono meno di quanto potrebbero. Si tratta dunque di alzare la domanda aggregata al livello del pieno impiego delle risorse esistenti. John Maynard Keynes spiega come. Alla carenza di domanda corrisponde un eccesso di risparmio. Vi è un risparmio che né le famiglie né le imprese utilizzano. Il governo dovrebbe utilizzare il risparmio disponibile per finanziare la spesa pubblica. In questo caso, la spesa pubblica si aggiungerebbe alla spesa privata alzando la domanda aggregata al livello del pieno impiego.
I Paesi in via di sviluppo non dispongono invece di un apparato produttivo idoneo a soddisfare i bisogni della popolazione. Le crisi e la disoccupazione derivano da una carenza di offerta aggregata. Le imprese non possono produrre quanto il mercato richiede. Si tratta dunque di alzare l’offerta al livello della domanda effettiva. Saraceno spiega come. Alla mancanza di offerta corrisponde una carenza di risparmio. Il risparmio esistente non è sufficiente per finanziare investimenti e consumi. In questa situazione, un aumento della spesa pubblica sottrae risparmio alla spesa privata. L’aumento della spesa pubblica, secondo Saraceno, è efficace soltanto se consente di accrescere la produzione interna lasciando invariato il livello della domanda aggregata, ovvero, se il governo utilizza il risparmio che sottrae ai privati per finanziare investimenti pubblici che sono più produttivi della spesa privata (Il meridionalismo dopo la ricostruzione (1948-1957), cit., pp. 71-92).
In breve, i Paesi sviluppati hanno bisogno di politiche di stabilizzazione che innalzino la domanda aggregata, i Paesi in via di sviluppo di politiche di sviluppo che accrescano l’offerta aggregata.
L’Italia è un Paese duale, con un’area avanzata, il Nord, e una arretrata, il Sud. Nel dopoguerra assomiglia più a un Paese in via di sviluppo: l’apparato produttivo del Nord è danneggiato, il Sud è sovrappopolato e il capitale complessivo non basta a occupare l’intera forza lavoro. La domanda eccede la produzione e genera un disavanzo commerciale finanziato con gli aiuti del Piano Marshall. Una politica keynesiana di stimolo alla domanda aggregata accentuerebbe gli squilibri macroeconomici. Si tratta invece di reperire e indirizzare lo scarso risparmio esistente verso investimenti che accrescano la capacità produttiva del sistema economico, soprattutto nel Mezzogiorno. Saraceno suggerisce una politica economica orientata dal lato dell’offerta aggregata. È questo il controllo sociale appropriato per l’economia italiana.
Negli anni della ricostruzione i governi degasperiani si rifiutano di attuare politiche keynesiane e raccolgono, talvolta in modo forzato, il risparmio necessario per finanziare investimenti pubblici volti a ridurre la disoccupazione e il divario Nord-Sud. Si pensi al piano case elaborato da Amintore Fanfani o alla Cassa per il Mezzogiorno. Tentano di attuare una politica dal lato dell’offerta aggregata ma non arrivano mai a elaborare un piano organico per la ricostruzione.
Nel 1952 si esauriscono i fondi dell’European recovery program. Termina, simbolicamente, la ricostruzione. Da quel momento, l’Italia dovrà provvedere da sola a finanziare eventuali deficit commerciali e, cioè, a coprire gli eccessi di domanda sulla produzione interna.
Il 7 giugno 1953 si svolgono le elezioni politiche generali. La coalizione centrista non raggiunge per pochi voti il quorum necessario a far scattare il premio di maggioranza richiesto da Alcide De Gasperi per dare stabilità al sistema politico italiano. Si chiude la stagione del centrismo degasperiano.
Il 25 giugno 1953 si riunisce il nuovo Parlamento e inizia la seconda legislatura repubblicana. Si apre un decennio che culmina nel miracolo economico e nell’incontro politico tra socialisti e cattolici. L’incontro avviene sul terreno della programmazione economica e Saraceno è uno dei grandi mediatori culturali.
Nel giugno 1954, poche settimane prima di morire, De Gasperi annuncia lo Schema Vanoni. Il Piano porta il nome dello statista valtellinese ma viene elaborato all’interno della SVIMEZ da un gruppo di studiosi guidati da Saraceno che ne anticipa le linee essenziali in una relazione presentata a un convegno del novembre 1953.
Il Piano è un documento di oltre cento pagine approvato dal governo Scelba il 29 dicembre 1954 che reca impresso sulla copertina il titolo: Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64.
Terminata la ricostruzione, il governo intende affrontare i grandi e irrisolti problemi dell’economia italiana: la disoccupazione e il Mezzogiorno. Lo Schema indica obiettivi, condizioni e strumenti della politica decennale di sviluppo economico.
Gli obiettivi sono tre: raggiungere la piena occupazione con la creazione di 3,2 milioni di nuovi posti di lavoro localizzati soprattutto nel Mezzogiorno, ridurre il divario tra Nord e Sud, conseguire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Le condizioni sono ancora tre. Per creare 3,2 milioni di nuovi posti di lavoro, il reddito nazionale dovrebbe continuare a crescere a un tasso medio annuo del 5%. Affinché il reddito nazionale continui a crescere al 5%, il tasso di occupazione dovrebbe aumentare del 2% e la produttività del lavoro del 3%. Per far crescere il tasso di occupazione e la produttività del lavoro del 5%, la quota di reddito risparmiata e investita dovrebbe salire dal 21% al 25%.
Gli strumenti sono sempre tre. Il governo dovrebbe procurarsi il risparmio estero necessario per attivare il processo di sviluppo; indirizzare una parte degli investimenti verso il Sud; favorire, con la politica fiscale e dei redditi, un graduale innalzamento della propensione al risparmio. In sostanza, servono più risparmi per finanziare maggiori investimenti.
Saraceno enfatizza l’importanza del secondo strumento di politica economica. Gli investimenti al Sud non possono più essere finalizzati a costruire strade, ponti e acquedotti. La cosiddetta unificazione normativa e cioè l’allineamento delle infrastrutture materiali e immateriali è una condizione necessaria ma non sufficiente per ridurre il divario tra Nord e Sud. A parità di condizioni infrastrutturali, le imprese industriali continuerebbero a localizzare i loro impianti a Nord dove la produttività del lavoro è più alta. Il Sud sarebbe destinato a specializzarsi sempre di più in agricoltura e turismo, settori a più bassa redditività e occupabilità. La proposta di Saraceno è l’industrializzazione diretta del Sud promossa dallo Stato con un «intervento straordinario». È un nuovo meridionalismo.
Lo Schema Vanoni suscita un grande interesse ma non favorisce l’incontro tra cattolici e socialisti. All’interno della Democrazia cristiana si teme che l’aumento della propensione al risparmio implichi una politica di austerità mentre i socialisti interpretano il Piano come una manovra keynesiana inadatta per l’economia italiana.
Nel febbraio 1956 muore Vanoni, il tutore politico dello Schema di sviluppo. Nel marzo del 1957 viene firmato il Trattato di Roma che modifica lo scenario macroeconomico.
Saraceno difende e tenta di aggiornare il Piano. Il problema dell’economia italiana resta quello di conciliare produttività e occupazione. Saraceno prevede che con l’entrata in vigore del mercato comune europeo l’economia italiana continuerà a crescere a un tasso medio annuo anche superiore al 5%. Ma potrebbe esserci una crescita senza occupazione (interamente dovuta alla produttività) o una crescita senza produttività (derivante interamente dalla maggiore occupazione). L’Italia ha invece bisogno di far crescere sia la produttività, per essere più competitivi nell’Europa unita, sia l’occupazione, per assorbire almeno una parte della forza lavoro presente sul mercato. Questo risultato può essere conseguito soltanto con una deliberata politica economica. In assenza di un intervento pubblico è prevedibile che gli aumenti salariali dei settori a più elevata produttività, localizzati a Nord, si estendano a Sud con un conseguente aumento della propensione al consumo e una riduzione della propensione al risparmio. Il governo dovrebbe, con la politica dei redditi, far crescere i salari meno della produttività del lavoro in modo da favorire la formazione del risparmio necessario per finanziare l’industrializzazione del Sud (Gli anni dello Schema Vanoni (1953-1959), 1982, p. 138).
Nel 1959 le forze politiche rinunciano definitivamente ad aggiornare il Piano Vanoni. Si guarda a una nuova programmazione economica.
All’inizio degli anni Sessanta cattolici e socialisti organizzano importanti convegni che preparano l’imminente intesa. Saraceno è il relatore principale in due convegni organizzati dalla Democrazia cristiana a San Pellegrino. Qui enuncia il principio che riassume l’intera sua riflessione: il governo dovrebbe servirsi del mercato per orientare l’economia verso il bene comune:
il mercato, da regolatore supremo dell’economia, si trasforma in un istituto che la politica economica utilizza per conseguire nel modo più economico i propri obiettivi (L’Italia verso la piena occupazione, 1963, p. 70).
Il fine resta lo sviluppo equilibrato del Paese. Gli strumenti sono in parte nuovi: un sistema di incentivi – fiscali, creditizi e doganali – per modificare il quadro delle convenienze private, la concertazione tra grandi attori economici, la presenza di imprese pubbliche nel Mezzogiorno.
Nel decennio del miracolo economico, la programmazione favorisce l’incontro politico tra socialisti e cattolici e ispira concrete scelte politiche. Si pensi alla legge del 1957 che avvia un programma di industrializzazione del Sud o alla nazionalizzazione dell’industria elettrica del 1962 che sradica dall’economia italiana uno dei grandi monopoli privati. Tante altre idee restano, però, confinate nel libro dei buoni propositi.
Negli anni successivi Saraceno torna a riflettere sul ruolo dell’impresa a partecipazione statale e cioè dell’IRI. Le imprese pubbliche, scegliendo di operare a Sud, si assumono «oneri impropri». Lo Stato dovrebbe compensarli con un corrispondente fondo di dotazione. Se il fondo fosse inferiore ai costi aggiuntivi, le imprese pubbliche non potrebbero competere con le imprese private nel libero mercato. Se fosse superiore, godrebbero di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza. Si tratta di un tentativo di disciplinare la presenza nel mercato di imprese pubbliche, anche se resta difficile determinare gli oneri impropri di operatori economici che perseguono fini politici.
Nel secolo breve, Saraceno cerca e suggerisce soluzioni nuove per lo sviluppo dell’economia italiana: lo Stato imprenditore per uscire dalla grande crisi, un piano per la ricostruzione nel secondo dopoguerra, una programmazione orientativa del mercato per unire economicamente il Paese durante e dopo il miracolo economico.
La bibliografia degli scritti di Saraceno consta di 424 schede ed è stata raccolta in una serie di saggi i cui riferimenti si trovano in P. Saraceno, L’attività bancaria. Liquidità e bilancio nella gestione bancaria, a cura di B.L. Mazzei e con introduzione di P. Biffis, Torino 1992, pp. XXV-XXVI.
L’Italia verso la piena occupazione, Milano 1963.
Il meridionalismo dopo la ricostruzione (1948-1957), a cura e con introduzione di P. Barucci, Milano 1974.
Ricostruzione e pianificazione (1943-48), a cura e con introduzione di P. Barucci, Milano 19742.
Intervista sulla ricostruzione (1943-1953), a cura di L. Villari, Bari 1977.
Gli anni dello Schema Vanoni (1953-1959), a cura e con introduzione di P. Barucci, Milano 1982.
Sottosviluppo industriale e questione meridionale. Studi degli anni 1952-1963, Bologna 1990.
L’attività bancaria, Torino 1992.
Una bibliografia selezionata si trova in P. Saraceno, L’attività bancaria, Torino 1992, pp. XXVII-XXVIII.
Sulla vita e le opere si vedano:
V. Negri Zamagni, M. Sanfilippo, Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez dal 1946 al 1950, Bologna 1988.
G. Vigna, Pasquale Saraceno. L’uomo che voleva unificare l’Italia, Milano 1997.
Cultura, Stato e Mezzogiorno nel pensiero di Pasquale Saraceno, a cura di D. Ivone, Napoli 2004.
G. Arena, Pasquale Saraceno Commis d’Etat. Dagli anni giovanili alla ricostruzione (1903-1948), Milano 2011.
Sul contributo all’economia aziendale e bancaria, cfr. Il governo delle imprese. Pasquale Saraceno e la produzione industriale, Padova 1992. Sul contributo alla politica economica italiana, cfr. le fondamentali Introduzioni di Piero Barucci ai volumi di Saraceno curati dallo studioso citati in Opere.