Pasifae (Pasife)
Moglie di Minosse re di Creta, figlia di Elio e della ninfa Perseide, sorella di Perse e di Eeta, re della Colchide, e della maga Circe, madre di Androgeo, Arianna, Fedra e altri (da non confondersi con un'altra P., figlia di Atlante, venerata nella Licaonia, e di cui parla Plutarco).
Posidone avrebbe fatto sorgere dagli abissi del mare, su preghiera di Minosse, un toro che doveva comprovare ai concittadini del re di Creta che gli dei gli concedevano quanto chiedeva. Ma Minosse, attratto dalla sua bellezza, lo sostituì con un'altra bestia, non mantenendo così la promessa di sacrificarlo al dio. Allora Posidone rese furioso il toro e creò in P. una furibonda e bestiale passione per l'animale. Si dice anche che ciò fosse dovuto a una vendetta di Afrodite o perché P. avesse trascurato il suo culto (secondo Igino XL) o perché Elio avesse rivelato a Efesto gli amori segreti tra Afrodite e Ares.
Dedalo, a cui P. aveva rivelato la sua passione, costruì una giovenca di legno, coperta della pelle di quella che più soleva essere amata dal toro, perfetta tanto da sembrare reale, dentro la quale prese posto P., rendendo così possibile la mostruosa unione onde nacque il Minotauro, mezzo uomo e mezzo bestia, che fu rinchiuso da Minosse nel labirinto, fatto appositamente costruire da Dedalo (cfr. Apollod. III 8). Come Circe, come Medea, P. era dotata di virtù magiche.
D. ricorda P. come esempio di amore bestiale gridato dai lussuriosi nel VII cerchio del Purgatorio. Accanto all'esempio delle città bibliche Sodoma e Gomorra (Pg XXVI 40), su cui Dio mandò zolfo e fuoco a causa della loro corruzione, gridato dai lussuriosi contro natura, vi è la rievocazione di P. (Ne la vacca entra Pasife, / perché 'l torello a sua lussuria corra, v. 41) da parte dei lussuriosi propriamente detti, colpevoli per irrazionale eccesso del naturale amore. Il sopragridar (v. 39) delle anime delle due schiere conferisce particolare effetto ai due esempi - tratti, come sempre, dal mondo biblico e pagano - che già in sé stessi contengono il grado estremo di perversione e smoderatezza.
Poco più oltre (XXVI 82) D. fa dire al Guinizzelli che il peccato commesso dalla schiera cui egli appartiene fu ermafrodito (cfr. Ovid. Met. IV 288-388) e non fu osservata la legge di ragione che impedisce di assecondare l'istinto della lussuria, come spiega s. Tommaso (il quale distingue anche le varie maniere del vizio) in Sum. theol. II II 153 2, e successivamente in 154 1, dove tale peccato è definito come un atto carnale compiuto " non secundum rectam rationem ". E D., sulle orme di un passo di Boezio (Cons. phil. IV III 11), ricordato esplicitamente, aveva scritto (Cv II VII 4): E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia. Perciò in obbrobrio della schiera in cui dominò l'istinto bestiale senza il freno della ragione viene gridato il nome di colei / che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge (Pg XXVI 86-87), dove la ripetizione del termine ‛ imbestiare ' rende con violenta efficacia la degradazione che il peccato comporta.
Delle schegge conteste a guisa di giovenca D. fa menzione in If XII 13, a proposito del Minotauro, l'infamïa di Creti... / che fu concetta ne la falsa vacca, posto a custodia del VII cerchio dove sono puniti i violenti, e che per essere mezzo uomo e mezzo bestia (cfr. Ovid. Ars. am. II 24 " semibovemque virum, semivirumque bovem ") è espressione e simbolo della violenza e matta bestialità.
L'episodio di P. ricorre in Virgilio (Buc. VI 45-60, Aen. VI 24-26 e 447), ma fu soprattutto Ovidio (Met. VIII 131-137, e cfr. Ars am. I 289 ss.) a fornire a D. gli elementi caratterizzanti (cfr. anche Marziale Lib. spect. 5).
Bibl. - G. Lesca, Il canto XII dell'Inferno, Firenze 1900; I. Della Giovanna, Osservazioni intorno al canto XII dell'Inferno, in " Giorn. d. " VIII (1900) 472-480; U. Bosco, Il canto dei centauri (XII dell'Inferno), Roma 1937, ora in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 237 ss.; G. Mazzoni, Almae luces, malae cruces, in Studi danteschi, Bologna 1941; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 117, 222, 363 n. 167; G. Toja, Il canto XXVI del " Purgatorio ", in Nuove lett. V 77 ss.