POPOLARE, PARTITO
. Fu costituito nel gennaio 1919 in Roma, sotto il nome di partito popolare italiano, da maggiorenti delle organizzazioni cattoliche. Il programma del partito comprendeva dodici capisaldi, fra cui essenziali: riforma elettorale politica, sulla base della rappresentanza proporzionale e con il suffragio femminile; senato elettivo; libertà e autonomia degli enti pubblici locali; riconoscimento giuridico e libertà delle organizzazioni di classe; riforma tributaria, generale e locale, sulla base dell'imposta progressiva globale, con l'esenzione delle quote minime; libertà d'insegnamento in ogni grado.
Il partito, che non poteva designarsi ufficialmente come partito dei cattolici, per non immischiare la Santa Sede nelle vicende di politica interna, si dichiarò aconfessionale, escludendo quindi recisamente di prendere a bandiera propria la religione. In realtà, esso rappresentò il deciso ingresso delle masse cattoliche nella vita politica italiana, in forma organizzata e con un programma proprio: questo poi anziché insistere sui vecchi postulati cari alle correnti clericali dopo il '70 (questione romana), s'incardinava invece su di un programma di rinnovamento interno, politico e sociale, del paese, e aveva anzi a suo nucleo essenziale il problema delle libertà e autonomie locali, cioè la tendenza a trasferire il centro di gravità dello stato dal centro alla periferia.
Il nuovo partito, guidato da un sacerdote, don Luigi Sturzo, nato a Caltagirone il 26 novembre 1871, e validamente sorretto nella sua azione dal clero, la cui organizzazione secolare costituiva una solida base di operazione, riuscì in breve a raccogliere larghi suffragi, specialmente nelle campagne a piccola proprietà e nelle città a economia artigiana. Già nelle elezioni generali del novembre 1919 conquistava 100 seggi nel parlamento.
Sennonché in seno al partito era latente un dissidio fondamentale, dovuto alle forze stesse che l'avevano costituito. Da una parte, cioè, erano i clericali e clericali-moderati dell'anteguerra, che cercavano d'infondere nella nuova organizzazione la loro mentalità conservatrice, politicamente e socialmente; dall'altra invece i democratico-cristiani, che nell'anteguerra erano stati banditi da Pio X, ma che ora costituivano, forse, la forza più attiva e operante del partito, e che intendevano abbandonare risolutamente qualsiasi atteggiamento conservatore per affrontare invece larghe riforme sociali nell'interesse delle classi lavoratrici (e gran parte del favore acquisito dal partito nelle masse lavoratrici, in contrasto con la propaganda socialista e comunista, derivava appunto da questi atteggiamenti dell'ala sinistra del partito). Quest'ultima tendenza che si affermò nell'organizzazione dei cosiddetti sindacati bianchi ebbe affermazioni di un estremismo clamoroso (tipica l'attività del deputato G. Miglioli nel Cremonese).
Altre difficoltà sorsero per il partito, nello svolgimento del suo programma, dal fatto che in seguito ai risultati delle elezioni esso venne a trovarsi arbitro, nel parlamento, delle sorti dei ministeri: nel senso che, data la ripartizione dei gruppi alla camera, solo il suo appoggio poteva permettere la vita dei varî ministeri, laddove la sua ostilità avrebbe resa padrona della situazione la sinistra socialista. Di qui, la politica di compromessi e patteggiamenti con i partiti liberali, che caratterizzò l'azione del gruppo popolare alla camera; azione che ebbe momenti clamorosi come, p. es., nel veto posto, da don Sturzo, nel febbraio 1922, a un nuovo ministero Giolitti. Il partito ebbe, comunque, qualche suo rappresentante nei ministeri di coalizione anteriori alla marcia su Roma e anche nel primo gabinetto formato da Mussolini. Ma poi, per il suo passaggio all'opposizione, cominciò a disgregarsi, perché varî dei suoi esponenti ne uscirono per aderire al fascismo; e fu poi sciolto nel gennaio 1925.