parte
Per indicare le divisioni all’interno di una città, M. si serve di diversi termini, alcuni dei quali («parte», «setta») sono correnti nella lingua politica fiorentina anteriore, mentre altri («umori» e, meno frequentemente, «appetiti») sono assenti o poco adoperati. Parte e setta sono parole ben presenti nella tradizione politica fiorentina. Le divisioni della città sono indicate in questo modo dai cronisti fiorentini oppure nei libri di famiglia, nei quali sono generalmente impiegati come sinonimi: «le maladette parti guelfa e ghibellina», nella Nuova cronica di Giovanni Villani; «parte guelfa» e «parte ghibellina» nella Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni (che non utilizza mai «setta»); «le parti e sètte maledette», nella Cronaca fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani. «Setta» serve anche al Villani a indicare una credenza religiosa o filosofica («la setta de’ Saracini»; «la setta degli epicuri»), ma non è mai adoperato per parlare della religione cristiana. Invece M. in Discorsi II v parla del modo in cui operò la «setta cristiana» per far sparire la memoria della «setta gentile». Quest’uso di «setta» (che appare solo in questo capitolo e in Discorsi III i) tende a equiparare la religione cristiana alle altre e lascia quindi intendere che anch’essa può sparire ed essere sostituita da un’altra. Umori e appetiti non sono invece termini adoperati né da Compagni né da Villani, e non compaiono nei libri di famiglia; un’unica occorrenza di «umore» è nella cronaca di Marchionne di Coppo Stefani («per lo soperchio homore, che soprabbondava negli artefici», rubr. 887), che invece adopera raramente, per indicare la stessa disposizione degli spiriti, la parola appetito.
L’uso delle parole che indicano le divisioni delle città è significativo nelle opere di M. e, non a caso come vedremo, particolarmente nelle Istorie fiorentine (d’ora in poi Ist. fior.): «Setta»/«sette»: 18 occorrenze nei Discorsi, 1 nel Principe, 48 nelle Ist. fior.; «parte»/«parti» (nel senso politico; ovviamente, il termine è adoperato ben più spesso con altri sensi) 28 occorrenze nei Discorsi, 7 nel Principe, 184 nelle Ist. fior.; «umore»/«umori» (o «omore»/«omori» ) 17 occorrenze nei Discorsi, 3 nel Principe, 44 nelle Ist. fior. I significati dei diversi termini si sovrappongono spesso: setta e p. sono spesso adoperati come sinonimi; qualche volta anche fazione viene utilizzata per parlare della stessa cosa; succede anche (ma molto più raramente) per umore (Ist. fior. I xxvii 3: «umori ghibellini» e «parte ghibellina»). Questi termini generalmente servono a designare, in genere con l’aggiunta di aggettivi o di genitivi qualificanti (per es.: p. guelfa, ghibellina, bianca, nera, de’ nobili, del popolo, di Mario, di Silla ecc.), le divisioni politiche di una città (Roma, Firenze, Pistoia) in un momento storico determinato. Succede però che ricorrere a una determinata parola implichi una valenza teorica precisa e serva a mettere a fuoco concetti importanti del funzionamento politico: la diversità degli umori e il modo in cui si sfogano sono in legame diretto con l’idea che i tumulti di una città possono essere buoni o nocivi, mentre l’esistenza delle divisioni accompagnate da ‘sette’ è sicuramente per M. una delle cagioni per cui Firenze non è mai stata una Repubblica bene ordinata.
Una differenza importante tra M. e l’uso tradizionale fiorentino risiede nel posto conferito alla nozione dinamica di «umori» per indicare ciò che muove le p., le sette e i gruppi sociali all’interno della città. Infatti il lessico medico della teoria degli umori, adoperato qui in senso politico, è frequente nei testi di M. e, in generale, nei testi storiografici e politici del Cinquecento. Ma per M. non si tratta mai di «comporre» gli umori, come vorrebbe la teoria medica del tempo; in Discorsi I vii 6, afferma piuttosto che è utile «ordinare quella [una repubblica] in modo che l’alterazione di quegli omori che l’agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata dalle leggi».
La parola appare già nella lettera a Ricciardo Becchi del 9 marzo 1498; dopo avere riferito il tenore delle ultime prediche di Savonarola, M. si rivolge al destinatario, che potrà dare un giudizio sulla situazione fiorentina «con ciò sia cosa che voi gli umori nostri e la qualità de’ tempi e, per essere costì, lo animo del pontefice appieno conoschiate» (Lettere, p. 8). La conoscenza degli umori della città va già di pari passo con quella della «qualità de’ tempi», cioè della situazione politica generale, della congiuntura politica, e tende a indicare che – al di là della constatazione ovvia che ci sono delle divisioni, delle p., persone che ne «seguono» altre formando così delle «sette» – l’analisi e l’azione politica richiedono di capire quali sono gli «umori» (oppure «gli appetiti», altra parola usata in questo senso da M.) delle «parti», dei gruppi sociali e politici in cui è divisa la città. La parola può essere adoperata da M. in senso generico per indicare uno stato d’animo che un aggettivo è sufficiente a caratterizzare (gli umori possono essere «cattivi», «sospetti», «maligni», «malvagi», «accesi», «mossi»); è un caso frequente nelle lettere pubbliche (in cui appare 34 volte). Ma serve anche come punto di partenza per riflessioni importanti sul modo in cui funziona una città, in quanto – al di là della constatazione di una data situazione di divisione, per descrivere la quale p. e setta sono termini sufficienti – permette di mettere in evidenza la dinamica dello svolgimento storico delle divisioni.
Nel Principe, nei Discorsi e nelle Ist. fior., M. afferma una sua convinzione profonda circa la vita politica delle repubbliche ma anche dei principati: in ogni città o repubblica si trovano «dua diversi umori», quello dei grandi (o dei nobili) e quello del popolo (o degli ignobili). Nelle formulazioni adoperate c’è talvolta qualche ambiguità; ci si potrebbe chiedere, per es. in Principe ix 2, se i grandi e il popolo siano un umore oppure se i grandi e il popolo abbiano un umore. Ma la ricorrenza della tesi da un testo all’altro indica che il termine umori non serve a identificare un gruppo sociale, bensì a descrivere le aspirazioni diverse e contrarie dei rispettivi gruppi sociali: «il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi ed e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo». Sempre in Principe ix, M. trae una conseguenza dell’esistenza di questi «dua umori diversi» e ne dà un giudizio etico. La conseguenza: «da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza» (ix 2); il giudizio: «quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso» (ix 6). Il modo in cui nascono questi effetti non viene sviluppato nel Principe, ma lo sarà nelle Ist. fior. IV i 2-3, dove il giudizio verrà in qualche modo modificato:
Perché della libertà solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte) che, per buona fortuna della città, surga in quella un savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de’ nobili e de’ popolani si quietino, o in modo si ristringhino che male operare non possino, allora è che quella città si può chiamare libera, e quello stato si può stabile e fermo giudicare.
Si vede che, senza «un savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi», la libertà non nascerà; se l’appetito dei grandi vincerà, ci sarà la servitù (e quindi il principato, che ne è il nome istituzionale); se invece vincerà l’umore del popolo, si avrà la licenza. Non c’è contraddizione con quanto M. affermava nei Discorsi I iv, dove spiegava «come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro» (cioè del popolo e de’ grandi): nella Roma di cui parla M. siamo appunto in una città libera, capace di trasformare in libertà anche i tumulti (ben precisando che «i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue»). L’assenza di contraddizione tra la possibilità che le divisioni facciano effetti buoni e l’esistenza verificata storicamente di effetti nocivi viene chiaramente affermata da M. quando, nel cap. xxxvii del libro I dei Discorsi, spiega come le sette che nacquero a proposito della legge agraria furono la causa della perdita della libertà di Roma e della tirannide:
Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi libera quella città (I xxxvii 20).
M. aggiunge subito dopo:
Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che, se per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua (I xxxvii 21-22).
La situazione è ben differente a Firenze che, nelle Ist. fior., appare come un «modello» di funzionamento opposto a quello di Roma: se le sette causano solo alla fine la rovina di Roma, a Firenze tutte le divisioni sono sempre state «accompagnate» da sette e da partigiani.
«Dalle parti, la rovina» (Discorsi I VII 10). Il punto di partenza della riflessione di M. sulle differenze fondamentali tra Firenze e Roma è messo in evidenza sin dal proemio delle Ist. fior. Mentre a Roma, ad Atene e nella maggioranza delle repubbliche di cui si abbia memoria esisteva «disunione intra i nobili e la plebe»,
di Firenze in prima si divisono infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria (proemio 8).
Si delinea una sorta di lotta permanente fra le p. che, si può intuire, rappresentavano umori diversi all’interno stesso di un gruppo sociale che avrebbe potuto essere omogeneo.
In Principe xix M. aveva ricordato che, al tempo dell’impero, Roma era divisa in tre e non in due «università», poiché alla plebe e ai grandi si erano aggiunti i soldati; in conseguenza gli imperatori dovevano scegliere di seguire l’umore di una di quelle «università» e, generalmente,
conosciuta questa difficultà di questi dua diversi umori si volgevano a satisfare a’ soldati, stimando poco lo iniuriare el populo. Il quale partito era necessario, perché [...] si debbono sforzare prima di non essere odiati da le università: e quando non possono conseguire questo, debbono fuggire con ogni industria l’odio di quelle università che sono più potenti (xix 31-32).
Ma a Firenze la situazione è ben più complessa, appunto perché ogni «università» si divide prima o poi in p. che lottano tra loro. La tesi della divisione permanente di Firenze viene sviluppata nel cap. v del libro III e nel cap. vii del libro I delle Ist. fior. Nel cap. v del libro III M. fa parlare un cittadino «moss[o] dallo amore della patria» (III v 5) che, insieme ad altri, viene a chiedere ai Signori di prendere provvedimenti per mettere fine alle discordie tra le nuove «famiglie fatali» (III v 19) degli Albizzi e dei Ricci, che «hanno di nuovo divisa la città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento, e che era bene non fusse mai stato in questa republica, risuscitano» (III v 18). Nel suo discorso ai Signori, il cittadino riprende la tesi già presente nel proemio:
Onde nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione, ne surge un’altra; perché quella città che con le sette più che con le leggi si vuol mantenere, come una setta è rimasa in essa sanza opposizione, di necessità conviene che infra se medesima si divida; perché da quelli modi privati non si può difendere i quali essa per sua salute prima aveva ordinati. E che questo sia vero le antiche e moderne divisioni della nostra città lo dimostrano (III v 12-13).
M. ritiene che la forma stessa delle divisioni fiorentine sia nociva mentre quella della Roma repubblicana non lo era, perché era «senza sette e senza partigiani». Questa tesi era già stata accennata in Discorsi I viii, in cui M. spiegava che, a Firenze, in assenza del meccanismo istituzionale delle accuse, si diffondevano le calunnie che generavano odio, «donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina». Nelle Ist. fior. l’analisi è più precisa. Secondo M. non si può sperare che una città «possa essere unita»; le divisioni e le inimicizie sono inevitabili, ma il loro effetto non è sempre lo stesso:
Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche, e alcune giovano: quelle nuocono che sono da le sette e da partigiani accompagnate; quelle giovano che senza sette e senza partigiani si mantengono (VII i 6).
La questione dell’esistenza delle p. e delle sette è dunque determinante e la loro presenza deriva dal modo in cui i cittadini cercano di acquistare riputazione, «o per vie publiche, o per modi privati». A Roma, i cittadini ricorrevano alle «vie publiche»; a Firenze invece, lo facevano «per modi privati» e, di conseguenza, nacquero p. e sette. La lettura della storia interna di Firenze, nelle Ist. fior., è la storia delle divisioni e delle inimicizie che partoriscono «guerre di dentro» e si fonda sull’idea che «le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e per ciò furono sempre dannose». E non stupisce che nello stesso capitolo venga ancora una volta enunciata la tesi della costante divisione dell’uno in due (VII i 12 ).
Firenze non è l’unica città d’Italia a conoscere queste divisioni, come ricordava il cittadino mosso dall’amore della patria nelle Ist. fior.:
da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati (III v 3).
Tuttavia, Firenze, i cui savi hanno perfino affermato che ci si possa servire delle p. per tenere una città (è necessario «tenere Pistoia con le parte», Principe xx 10 e Discorsi III xxvii), è l’archetipo di questo funzionamento politico deteriore. L’uso che M. fa dei termini che indicano le divisioni è dunque legato principalmente alla storia fiorentina, e la riflessione sulla storia romana gli serve ad analizzare i modi e gli ordini della sua città. Quest’approccio di storia comparata gli permette di andare oltre l’uso tradizionale dei termini parte e setta, che servivano essenzialmente a descrivere, e a deplorare, le divisioni. M., indagando i modi in cui, in momenti storici precisi, si sfogano gli umori della città e in cui le divisioni sono o meno «accompagnate» da «sette e partigiani», entra nella dinamica degli ordinamenti politici e della loro necessaria storicizzazione.
Bibliografia: J.-C. Zancarini, Gli umori del corpo politico. “Popolo” e “plebe” nelle opere di Machiavelli, in La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dicembre 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 6170; P. Boulhol, Secta: de la ligne de conduite au groupe hétérodoxe, «Revue de l’histoire des religions», 2002, 219, pp. 5-33; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011. Si veda inoltre: M. Gaille-Nikodimov, À la recherche d’une définition des institutions de la liberté, «Astérion», 2003, 1, http://asterion.revues.org/14 (15 marzo 2014).