parole generali
Per parole generali si intende un gruppo eterogeneo di parole dal significato generico, che può però essere determinato quando queste si riferiscano o a un referente implicitamente noto, o a un referente specifico già menzionato o che sarà menzionato, con il quale stabiliscono quindi una relazione anaforica o cataforica (➔ anaforiche, espressioni; ➔ cataforiche, espressioni): è il caso, in italiano, di nomi quali tizio, posto, fatto, problema, questione, ecc.:
(1) Paolo è un tizio strano, non ti sembra?
(2) nel quartiere la violenza interetnica è calata drasticamente: il posto è ormai tranquillo
(3) il fatto non poteva più essere taciuto: il clamoroso furto del quadro doveva essere dichiarato
Le parole generali appartengono per lo più alla categoria dei nomi (benché, come si vedrà sotto, possano essere considerate parole generali anche verbi e particelle pronominali), e possono essere suddivise in sottoclassi, a seconda del tipo di referente cui si riferiscono (Halliday & Hasan 1976: 274): umano (uomo, donna, ragazzo, persona, tipo, tizio, individuo, tale, ecc.), non umano animato (creatura, essere, bestia, ecc.), inanimato concreto (oggetto, aggeggio, cosa, roba, ecc.), inanimato astratto (affare, problema, vicenda, faccenda, questione, risultato, ecc.), luogo (luogo, posto), azione (atto, gesto, mossa, ecc.).
Trovandosi a cavallo tra grammatica e lessico (Halliday & Hasan 1976: 280), e perciò spesso trascurate dalla grammatica tradizionale, le parole generali hanno – come si intuisce dalla definizione – un ruolo di rilievo per la coesione testuale (➔ coesione, procedure di), tanto nel parlato quanto nello scritto.
Secondo Halliday & Hasan (1976: 102 e 125), prossimi alle parole generali sarebbero i cosiddetti pro-nomi (scritto col trattino in mezzo, per distinguerli dai ➔ pronomi).
Si tratta di termini dal referente altrettanto generico, ma non necessariamente provvisti di valore anaforico. Sul piano testuale, servono infatti non tanto a richiamare o anticipare un referente presente altrove nel testo, quanto a identificare il tema (Halliday & Hasan 1976: 104), rispondendo a domande quali chi?, che cosa?, come?, perché?, ecc.:
(4) – Che c’è? – La cosa non ti riguarda
(5) – Desidera? – La cosa più esclusiva che avete
(6) – Come pensi di agire? – Nel modo più semplice
(7) – Perché lo fai? – La ragione non è importante
Assimilabili ai pro-nomi sarebbero i pro-verbi, dal referente generico e utilizzati per indicare processi (azioni, eventi) non specificati. L’esempio più comune è costituito, in italiano, dal verbo fare:
(8) dammi un consiglio: non so cosa fare
Anche la loro occorrenza non sembra vincolata al richiamo o all’anticipazione di un referente. Tuttavia, essi veicolano spesso un elemento anaforico (Halliday & Hasan 1976: 125), con cui formano un tutt’uno:
(9) ti hanno detto che per la tua salute sarebbe meglio lasciare il lavoro? Fallo!
Benché sia il sintagma verbale nel suo insieme ad acquistare un valore anaforico, nell’es. (9) l’elemento anaforico propriamente detto è costituito dal clitico lo: il cosiddetto lo coesivo, che – anaforicamente o cataforicamente – può riassumere un intero enunciato o un’intera porzione di testo:
(10) se tu sei capace di rimanere indifferente davanti a questa ennesima catastrofe ambientale, e di pensare che non ti riguarda perché è successa lontano da qui, io non lo sono
(11) dillo a Paola. Dille che se non si mette a lavorare sul serio, per ottenere i risultati che le hanno chiesto, rischia di essere licenziata.
Questa proprietà coesiva sarebbe specifica dei cosiddetti ➔ incapsulatori: parole generali anch’esse funzionanti come parafrasi riassuntive di una precedente porzione di testo, che viene appunto anaforicamente ‘incapsulata’ in un singolo nome (Conte 1999: 107; D’Addio Colosimo 1988):
(12) la vera anomalia del nostro sistema politico è rappresentata dal gigantesco conflitto di interessi del Presidente del Consiglio. Questa situazione, da anni, ci rende ridicoli agli occhi del mondo
Secondo Conte (1999), l’incapsulatore anaforico è piuttosto diverso da una semplice anafora. L’antecedente, infatti, non è chiaramente delimitato nel testo, ma deve spesso essere ricostruito, anche intuitivamente, dal ricevente. Inoltre, l’incapsulatore non solo riprende, ma ‘oggettiva’ l’enunciato precedente, creando un nuovo referente che diventerà a sua volta l’argomento dell’enunciato successivo.
Sul piano semantico, l’incapsulatore infine funziona retroattivamente come un mezzo per integrare il significato (Conte 1999: 111), veicolando spesso una valutazione sui fatti o gli eventi descritti, e influendo in ultima analisi sul giudizio di chi fruisce il testo:
(13) se in una classe di trenta alunni vengono inseriti quattro o cinque stranieri, ben presto imparano l’italiano, fanno amicizia con gli altri, seguono le lezioni e tutto procede per il meglio. Se ne vengono immessi otto o nove, le cose si fanno assai più complicate. Ma se il numero aumenta, il fallimento è certo: i nuovi arrivati fanno gruppo tra loro, continuano a parlare la propria (o le proprie) lingua, la didattica va a quel paese, la convivenza pure. Per fronteggiare il problema, il ministro Mariastella Gelmini ha pensato di piantare un paletto: in ogni classe non si potrà avere più del trenta per cento di studenti provenienti da altre nazioni («Il Giornale» 15 febbraio 2010).
Conte, Maria E. (1999), Anaphoric encapsulation, in Ead., Condizioni di coerenza. Ricerche di linguistica testuale, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 107-113.
D’Addio Colosimo, Wanda (1988), Nominali anaforici incapsulatori: un aspetto della coesione lessicale, in Dalla parte del ricevente: percezione, comprensione, interpretazione. Atti del XIX congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Roma, 8-10 novembre 1985), a cura di T. De Mauro, S. Gensini & M.E. Piemontese, Roma, Bulzoni, pp. 143-151.
Halliday, Michael A.K. & Hasan, Ruqaiya (1976), Cohesion in English, London, Longman.