parole d’autore
Si deve a Bruno Migliorini (Migliorini 1975) l’introduzione nella terminologia linguistica italiana dell’espressione parola d’autore (sul fr. mot d’auteur), per indicare un «termine coniato da una persona nota». Lo stesso Migliorini introdusse le voci onomaturgia e onomaturgo per indicare rispettivamente lo «(studio della) coniazione delle parole d’autore» e il «coniatore di parole». Va precisato che onomaturgo compariva nel Cratilo platonico e onomaturgia in Proclo e che le due voci erano già state riprese nel linguaggio della filosofia e della critica letteraria del XX secolo.
Dietro ogni parola, anche la più comune e popolare, c’è qualcuno che all’inizio l’ha formulata per primo. Quindi ogni parola e ogni modo di dire, in fondo, sarebbero riconducibili a un preciso coniatore – consapevole o inconsapevole che sia – sebbene costui rimanga sconosciuto nella gran maggioranza dei casi, tranne che nel settore del lessico colto e tecnico-scientifico, dove è più frequente imbattersi in qualche onomaturgo. Da una parte, infatti, è spesso irrilevante stabilire la precisa paternità di una voce, specie se d’uso comune, perché tutti i parlanti impiegano la medesima materia linguistica e le medesime risorse creative; dall’altra l’inventore di una novità lessicale di solito non si preoccupa di rivendicarla, pago che essa sia compresa e accolta dagli altri: e ciò risulta avvenire più facilmente se essa si presenta senza marchio d’autore.
Anche per questo aspetto accessorio, dunque, ogni individuale atto di parole che porta alla coniazione di una voce deve necessariamente rispecchiarsi e confluire nella lingua. E come le invenzioni bizzarre non sono consentite nemmeno al re, secondo quanto diceva Claude Favre de Vaugelas, mentre ogni persona ha il potere di foggiare neologismi conformi all’uso, così le parole d’autore per radicarsi profondamente nella lingua tendono a divenire anonime.
Va aggiunto che alla sua origine ogni parola deve essere motivata, cioè deve risultare interpretabile per coloro cui è diretta; di conseguenza chi la introduce per primo è costretto a riutilizzare elementi e moduli formativi preesistenti nella lingua (come quando ➔ Galileo Galilei in luogo di telescopio coniò il più trasparente cannocchiale, Giuseppe Baretti volle escogitare l’irrisorio versiscioltaio, Aldo Casali di Cesena nel 1913 inventò e battezzò il cestino da viaggio, Massimo Della Pergola nel 1959 designò con il termine universiadi le olimpiadi universitarie); o deve conferire a una data voce un nuovo significato secondo un chiaro processo metaforico o metonimico (abatino, che fu impiegato da Gianni Brera nel 1964 per indicare un «calciatore atleticamente poco dotato»; ocarina «piccolo strumento a fiato a forma di oca», diminutivo con cui nel 1867 Giuseppe Donati di Budrio designò lo zufolo di sua invenzione; pescecani che prese il senso di «speculatori» dopo l’omonima commedia di Dario Niccodemi rappresentata nel 1913); o, infine, deve sfruttare le caratteristiche fonosimboliche del significante secondo schemi condivisi (come fece George Eastman, negli Stati Uniti, brevettando nel 1888 l’apparecchio Kodak, con allusione al rumore dello scatto). Infatti anche quelle coniazioni che sembrano artificiali, come certi ➔ nomi commerciali o le ➔ sigle, alla loro origine, almeno all’interno del ristretto gruppo in cui vennero introdotte, ebbero anch’esse una motivazione, sebbene possa essere stata subito oscurata per economia, segretezza o maggior potere evocativo.
Non mancano però alcune voci apparentemente immotivate o dalla motivazione piuttosto tortuosa, come serendipity «capacità di fare scoperte impreviste», coniata da Horace Walpole nel 1754 da Serendip, antico nome dello Sri Lanka, con riferimento a una fiaba persiana intitolata I tre principi di Serendip, i cui protagonisti scoprono di continuo cose che non cercano; o come quark, parola senza senso che compare nel romanzo Finnegans Wake di James Joyce, ripresa nel 1963 dal fisico americano Murray Gell-Mann per designare una ipotetica particella atomica.
In modo analogo, anche se non si tratta di coniazioni dirette e spontanee, bensì stimolate da modelli alloglotti, si hanno parole d’autore anche nel settore dei ➔ prestiti da lingue straniere: si tratta di termini motivati per il bilingue che li introduce e che deve interpretarli e ambientarli, ovvero, in certo modo, ricrearli nella sua lingua materna come nuovi elementi. Specialmente per quelle forme più elaborate di prestito che sono i ➔ calchi, in diversi casi si può risalire a un preciso artefice: il tedesco Übermensch, che deve la sua fortuna a Friedrich Nietzsche, fu calcato con superuomo da ➔ Gabriele D’Annunzio nella prefazione al Trionfo della morte (1894); cruciverba pare dovuto all’editore Valentino Bompiani sul modello dell’inglese crossword (➔ parole crociate); fantascienza, invece, è un calco libero sull’espressione americana science fiction (coniata da Hugo Gernsback nel 1929) creato da Giorgio Monicelli nel 1952. Anche per i termini proposti come sostituti di ➔ forestierismi in molti casi si conosce l’autore: allibratore fu riesumato da Isidoro Del Lungo nel 1913 per l’anglicismo bookmaker; regista fu coniato da Bruno Migliorini nel 1932 per rimpiazzare il francesismo régisseur; picchiatello si deve a Pio Vanzi, che nel 1936 lo introdusse nei dialoghi del film È arrivata la felicità al posto del regionalismo americano pixilated.
Come la motivazione originaria spesso si opacizza, tanto che moltissime parole col passar del tempo divengono dei segni in rapporto puramente arbitrario col significante, così le neoconiazioni lessicali, nel loro farsi patrimonio di tutti, lasciano cadere il nome del loro autore. Tale perdita può avvenire anche in modo rapido; anzi, se una innovazione è prevedibile (un derivato che si accoda a una serie produttiva o di moda, una semplice estensione semantica, un’espressione che condensa formulazioni aleggianti da tempo), appare come se fosse nata spontaneamente e lo stesso onomaturgo può non rendersi conto del suo contributo.
Eppure, anche se la coniazione scaturisce all’improvviso da un’intera folla (si pensi al grido banzai «mille anni» con cui a Tokio il 12 febbraio 1889 il popolo giapponese salutò l’imperatore), o si fa strada a piccoli passi nella società o in un ambiente culturale (come capita per tante voci sia d’uso comune che del vocabolario intellettuale), o presenta una genesi confusa ad arte (come fecero i dadaisti, che si divertirono a fornire spiegazioni e padri sempre diversi del loro emblema dada), si può esser certi che alla sua origine vi fu un individuo che, magari quasi contemporaneamente ad altri, arrivò per primo a formulare la novità, come si nota per i ➔ neologismi alla cui nascita è dato assistere (per es., bamboccione usato nel 2007 dal ministro Tommaso Padoa-Schioppa come epiteto ironico per «giovane ritenuto incapace di affrontare le responsabilità della vita»; ciecopacista e ciecopacifista, composti creati da Giovanni Sartori dal 2002; equivicino rilanciato nel lessico della politica estera dal ministro Massimo D’Alema nel 2006).
L’obliterazione dell’autore è comunque il passo che le parole compiono quasi sempre per poter essere riusate liberamente in cerchie più ampie, per arricchirsi di nuove connotazioni e idee concomitanti, per adattarsi agli impieghi più diversi. Il fenomeno avviene anche sotto i nostri occhi: ci sono parole recenti di cui si è accertata la paternità, come nel gergo politico ribaltone, par condicio, inciucio, ma che si è subito lasciata svanire, affinché fossero disponibili per tutti. Il ricordo dell’onomaturgo, infatti, continua ad ancorare la parola al contesto in cui è stata coniata e allo specifico significato che il coniatore intese attribuirle, privandola di quell’alone di ambiguità che è necessario per una risonanza più generale.
Ecco perché si conosce l’autore soprattutto di termini che appartengono ai quei settori della lingua dov’è importante che il lessico abbia una struttura abbastanza chiara e una fisionomia semantica precisa; qui la conoscenza dell’onomaturgo consente di attribuire alle parole un’ulteriore valenza che ne determina meglio la particolare accezione e il carattere, e in certo modo ne garantisce l’univocità. Si tratta dunque fondamentalmente di termini del lessico tecnico-scientifico, commerciale, politico-sociale e in genere di quello intellettuale, ambiti in cui l’allusione all’onomaturgo dà alla parola una denotazione aggiuntiva: che si sappia che Weltliteratur si deve a J.W. Goethe, che plusvalore fu coniato da Karl Marx (in tedesco Mehrwert) e imprinting da Konrad Lorenz, non è solo una curiosità erudita, ma fornisce una serie di precisazioni storiche, pragmatiche e culturali utili per collocare quei termini all’interno degli ambiti concettuali cui appartengono. Ma anche quando non si tratta di tecnicismi in senso stretto, il nome dell’autore ha sempre un suo ruolo per connotare la parola: non è indifferente che carne da cannone sia un’espressione di Napoleone (seppur fatta circolare dal fronte a lui avverso), o che new look sia stato lanciato da Christian Dior.
Se, quindi, nelle terminologie tecnico-scientifiche abbondano le parole d’autore, non sono pochi nemmeno i casi problematici. Ora un termine, specie se è in gioco un brevetto o una scoperta, può essere rivendicato da più persone (come nel caso del già ricordato quark, che il fisico tedesco Friedrich Schlesinger sostiene di aver coniato per primo, sempre nel 1963, ma dall’espressione question mark, a indicare la natura problematica della particella; oppure per adrenalina: nel 1901 il chimico Jokichi Takamine presentò la sua scoperta e la proposta del nome, che furono però rivendicate anche da Norton L. Wilson); ora gli onomaturghi sono realmente due, magari l’uno all’insaputa dell’altro (attinio fu coniato dal chimico inglese J.L. Phipson nel 1881 per designare un elemento i cui sali subivano l’effetto della luce, ma nel 1899 il termine fu ripreso o, meglio, riconiato dal francese A.L. Debierne per indicare un nuovo elemento radioattivo; nominazione, usato nel 1927 da Bruno Migliorini per indicare la «designazione di un concetto attraverso un nome proprio», nel 1932, in modo del tutto indipendente, fu impiegato dal linguista Gustaf Stern per il processo di «imposizione di un nome»). Ora si attribuisce allo scopritore della cosa anche la parola (l’audion è una valvola termoionica inventata nel 1905 e successivamente brevettata dall’americano Lee De Forest, uno dei pionieri della radio, che tuttavia fu così battezzata solo nel 1906 dal suo assistente, il chimico C.D. Babcock); ora essa è solo una ‘parola fantasma’ nata da un fraintendimento (il tulipano fu importato in Europa da Ogier-Ghislain de Busbecq, ambasciatore delle Fiandre in Turchia, che vi introdusse anche il nome attribuendolo al turco, anche se l’aveva scambiato, forse per un equivoco, con il nome del turbante, tülbent).
Inoltre, non sono rari casi di ripresa di una coniazione in un ambito diverso da quello originario, spesso con un diverso significato e valore, tanto che sembra di essere davanti a una vera e propria neoformazione: trasformismo, dopo essere stato impiegato nel 1867 dall’antropologo e neurologo Paul Broca per la teoria evoluzionistica di Lamarck, fu ripreso nel linguaggio politico italiano quando nel 1882 Agostino Depretis annunciò una nuova trasformazione della linea di governo; allotropia, voce coniata dal chimico Jöns Jakob Berzelius nel 1841, fu ripresa nella linguistica da Ugo Angelo Canello che nel 1878 parlò di allotropi o doppioni; lottizzazione, dal suo originario ambito tecnico-amministrativo, in cui indicava la ripartizione di un terreno in lotti edificabili secondo il piano regolatore, fu esteso al linguaggio politico da Alberto Ronchey per bollare, a partire dal 1968, il malcostume della «spartizione partitica di incarichi e prebende». A Ronchey si deve anche l’invenzione di fattore kappa, dall’espressione delle scienze k factor.
Anche nel campo dei ➔ toponimi e dei nomi propri (➔ antroponimi) non è infrequente che resti memoria dell’onomaturgo: America fu coniato dal cartografo tedesco Martin Wald-seemüller; Colombia si deve a Simón Bolívar; Venezia Giulia e Venezia Tridentina furono nomi proposti nel 1863 da ➔ Graziadio Isaia Ascoli; il nome femminile Ornella e il marchionimo Rinascente sono coniazioni di Gabriele D’Annunzio.
Una maggior libertà si ha nell’onomaturgia letteraria, dove le scelte lessicali d’autore possono avere funzione stilistica e quindi presentare uno scarto più o meno marcato dalla norma. Si pensi ai derivati di carattere peregrino, espressivo o scherzoso reperibili quasi in ogni epoca letteraria, alcuni dei quali sono rimasti degli ➔ hapax, altri sono passati nell’uso comune proprio come parole di conio celebre: da appulcrare, sgannare, trasumanare di ➔ Dante, a disacerbare di ➔ Francesco Petrarca, misogallo e odiosamato di ➔ Vittorio Alfieri, illacrimato di Ugo Foscolo, arruffapopoli di Giuseppe Giusti, superuomo e velivolo di Gabriele D’Annunzio, trinariciuto di Giovannino Guareschi. Altre espressioni, al di là di ogni intenzione onomaturgica del letterato, si sono trasformate anch’esse in frasi d’autore, come le dantesche morta gora, natio loco, far tremar le vene e i polsi (➔ Dante, scheda 1).
Conoscere il coniatore di una parola serve non solo a collocarla con esattezza nella storia, ma soprattutto a comprenderne la motivazione, a ricostruire circostanze, ambiente, atteggiamento psicologico da cui è scaturita, a valutare la vitalità dei modelli interni o alloglotti cui si è conformata (cfr. Migliorini 1952; Spitzer 1956).
Migliorini, Bruno (1952), The contribution of the individual to language, Oxford, Oxford University Press.
Migliorini, Bruno (1975), Parole d’autore. Onomaturgia, Firenze, Sansoni.
Spitzer, Leo (1956), The individual factor in linguistic innovations, «Cultura neolatina» 16, pp. 71-89.