Parmenide
Filosofo greco, nato a Elea e vissuto nel V secolo a.C.; assai scarse le notizie sulla vita e neppure tutte accertabili (cfr. Diogene Laerzio Vitae philosophorum IX 21-23, I 16, II 3, VIII 55; Platone Theaet. 183e, Soph. 217c, Parm. 127a). Di lui si tramanda una sola opera, un poema Sulla natura del quale ci rimangono alcuni frammenti.
Il nome di P. è legato alla teoria dell'essere unico, immobile e indivisibile, quale venne più tardi accreditata dalla speculazione platonica e dalla critica aristotelica. L'unità e identità dell'essere rimase nota distintiva della scuola eleatica di cui P. fu il capo riconosciuto, e Melisso e Zenone i maggiori epigoni. A questa teoria P. giungeva per contrapposizione al pluralismo naturalistico della filosofia ionica e alla dualità uno-molteplice, definito-indefinito della filosofia pitagorica ed eraclitea, in quanto concepivano l'essere come coesistenza di contrari.
P. tenta di risalire dalla condizione della doxa, dall'apparente molteplicità dell'opinione sensibile, all'identificazione di una struttura - l'essere totalizzante - che rendesse univocamente intelligibile il reale. Più che unità ‛ fisica ', si tratta per P. di un'unità individuabile sul piano del logos e del nous, della manifestazione verbale e concettuale, immediatamente riferibile al reale nell'ambito dell'identificazione arcaica di pensare ed essere, di momento logico-verbale e ontologico. Ogni nome-concetto è una designazione del reale, ogni giudizio sarà pertanto un procedimento con cui si predicano tra di loro questi concetti o designazioni o aspetti dell'essere. Quest'ultimo risulterà perciò comprensivo di tutti gli è costituenti le determinazioni singole e, senza identificarsi con nessuna di esse, sarà tutte esse nel loro insieme e simultaneamente. Né il non-essere sarà un qualcosa come ‛ altro ' dall'essere, in quanto non è neppure pensabile, poiché pensare rettamente qualcosa equivale a pensare che esiste, che è. Pertanto ogni molteplicità e ogni relazione si annulla nell'essere unico e in sé perfetto.
Di P. il Medioevo conosceva poco o nulla. Ricorderemo il ‛ topos ' di P. scopritore della logica (Giovanni di Salisbury Metal. II 2 " Et licet Parmenides Aegiptius in rupe vitam egerit, ut rationes logicae inveniret, tot et tantos studii habuit successores ut ei inventiones suae totam fere praeripuerint gloriam ", ma il luogo è una corruzione di Marziano Capella (IV 330); cfr. anche Ugo di San Vittore Didasc. III 2, 15; Vincenzo di Beauvais Spec. hist. IV 44; Gualtiero Burley De Vita et moribus philos. 49; da segnalare anche la traduzione di una parte del Parmenide di Platone nel commento di Proclo, dovuta a Guglielmo di Moerbeke). Le teorie di P. divennero note tra il XII e XIII secolo attraverso la riscoperta di Aristotele che del filosofo di Elea aveva fatto ampie confutazioni (particolarmente nella Physica e nella Metaphysica, cfr. I 3, 984b 1 ss.; 5, 986b 18-987a 2; III 4 1001a 31-33). Dai testi aristotelici dipendono chiaramente anche le citazioni dantesche (Pd XIII 125 e Mn III IV 4), ma la loro mediazione è sottintesa con tanta precisione e pregnanza da D. che solo attraverso un esatto rilievo dei contenuti di quella polemica si potrà chiarire l'intensità brachilogica delle allusioni erudite di D., come pure il rigore e la complessità che le determina.
Nella Physica (I 2-3) Aristotele aveva mosso obiezioni assai gravi contro P. e Melisso: la concezione eleatica di un essere unico e immobile gli appariva errata nel contenuto e nel metodo. Nel contenuto, in quanto accoglieva premesse assolutamente contrarie all'evidenza sensibile, e quindi false; nel metodo, in quanto partendo da esse veniva dimostrata in modo fallace: " Hoc igitur modo facientibus impossibile videtur quae sunt unum esse. Et ex quibus demonstrant solvere, non difficile est. Utrique enim sophistice syllogizant, et Parmenides et Melissus: et namque falsa recipiunt, et non syllogizantes sunt. Est autem magis Melissi onerosa ratio... Quod... Melissus paralogizat, manifestum est... Et ad Parmenidem autem idem modus rationum est, etsi aliqui alii proprii sunt. Et solutio partim quidem quia falsa est, partim autem quia non concluditur. Falsa quidem, quoniam simpliciter accipit quod est dici, cum dicatur multipliciter. Non concluditur autem quia si sola alba accipiantur, significante unum albo, nihilominus multa alba sunt, non unum. Non enim continuatione erit unum album, neque ratione. Aliud enim erit esse albo et susceptibili, et non erit extra aliquid nihil divisum. Non enim in quantum est separabile: sed esse alterum est albo et ei cui inest. Sed hoc Parmenides nondum vidit " (Phys. I 3, 186a 4-11, 22-32).
Il procedimento di P. e Melisso è, dunque, sofistico: essi " assumono false premesse " (" falsa recipiunt ") quando accettano un essere unico e immobile, in senso assoluto, come se dell'essere si desse una sola definizione (ma dell'essere si dice in molti modi, cfr. Metaph. IV 5, 1009a 30 ss. e XIV 2, 1088b 35-1089a 9), e poi " argomentano in modo fallace " (" non syllogizantes sunt ") in quanto non si avvedono che ogni essenza può essere unica quanto al subiectum, ma molteplice quanto alle sue parti o a seconda che si consideri dal punto di vista del soggetto o dell'accidente (ripete Alberto Magno " rationem eorum sophisticam et litigiosam: utraeque enim rationes... Melissi et Parmenidis, expressum habent litigium, tum ex peccato quod est in materia syllogismi, tum ex peccato quod est in forma eiusdem: quia in suis syllogismis quibus intendunt probare propositum suum, et falsas propositiones recipiunt, et etiam non syllogizantes sunt. ", Phys. I II 1).
Si tratta di errori radicali: gli eleati non rispettano il metodo della propria scienza (la fisica) ma neppure l'oggetto di essa. Quando partono da premesse come un essere unico e immobile, distruggono i principi della scienza naturale: il molteplice e l'ente in movimento. Così facendo demoliscono non solo la teoria aristotelica del retto discorso (della logica come organo della ragione) ma tutt'insieme il fondamento della gerarchia delle scienze. La rigida nozione piramidale aristotelico-scolastica delle scienze è governata dall'idea secondo cui ogni scienza deriva da quella immediatamente superiore i propri principi - dati per dimostrati e da accettarsi universalmente - da cui solo si può partire per ogni ulteriore dimostrazione. In questo senso contro chi nega i principi non è possibile dimostrazione (cfr. Arist. Metaph. IV 6, 1006a 6-18) ma solo una riduzione all'impossibile delle sue argomentazioni, ove non siano già di per sé manifestamente false (" Entia autem naturalia esse plura et habere principia, quare sunt causae motus et quietis, in eis est principium cognitionis in physicis, sine quo nihil scitur de natura physicorum. Et ideo cum eo qui negat haec, non est habendus sermo in naturis: quoniam neganti principia non fit conclusio eo quod quando ipse deductus est ad metam inconvenientis, non videtur ei esse inconveniens. Huius probatio est per simile in geometria... ", Alberto Magno Phys. I II 1; Averroè Comm. Phys. I t.c. 11). Il geometra - spiega infatti Aristotele - non ha più motivo di disputare contro chi demolisce i principi della sua scienza, come nel caso di Antifonte (ma l'esempio, sulla base degli Elenchi sofistici, sarà allargato a Brisso da qualche commentatore) che voleva quadrare il cerchio partendo non da premesse geometriche ma eristiche: " Necesse autem est aut unum esse principium aut plura. Et si unum et immobile, sicut dicunt Parmenides et Melissus; aut mobile sicut physici... Quare principium et elementum quaerunt, utrum unum aut multa. Id quidem igitur, si unum et immobile sit quod est intendere, non de natura est intendere. Sicut enim geometrae non amplius ratio est ad destruentem principia, sed est aut alterius scientiae aut omnibus communis, sic neque alicui de principiis. Non enim amplius principium est, si unum solum est et sic unum: principium enim cuiusdam aut quorundam est. Simile igitur intendere est si sic unum est, et ad aliam positionem quamlibet disputare sermonis gratia dictam... aut si aliquis dicat hominem unum quod est esse: aut solvere rationem litigiosam. Quod sane utraeque quidem habent rationes, et Melissi et Parmenidis. Etenim falsa recipiunt et non syllogizantes sunt... Nobis autem subiiciantur quae sunt natura aut omnia aut quaedam moveri. Est autem manifestum hoc ex inductione. Simul autem neque solvere omnia convenit; sed aut quaecumque ex principiis aliquis demonstrans mentitur; quaecumque vero non, minime. Ut tetragonismum hunc quidem per decisiones, geometrici est dissolvere: illum autem qui Antiphontis, non geometrici est " (Aristotele Phys. I 2, 184b 15-17, 24-185a 17).
Come si vede, attraverso la confutazione di Aristotele, assunzione di false premesse, scorretto argomentare e scompaginazione della subordinazione delle scienze, divengono i caratteri tipici della filosofia di P. (e di Melisso). Essi in qualche modo assurgono a simbolo del falso filosofare, proprio in quanto, aristotelicamente, falso filosofare significa dimostrare mediante falsi sillogismi, cioè sofismi o, peggio ancora, argomentazioni eristiche; scopo della dimostrazione non è più la ricerca del vero, ma la ricerca, da parte dei litium amatores, di una vittoria ingiusta: " in contraditione iniusta pugna contentiosa est, nam et illic qui omnino vincere volunt omnia tentant, et hic qui contentiosi sunt. Qui igitur victoriae ipsius gratia tales sunt, contentiosi homines et litium amatores videntur esse " (Arist. Soph. el. 11, 171b 22-26). Motivi, questi, precisati e amplificati dai commentatori (cfr. Alb. Magno Topica I I 3 " etiam ille [syllogismus] litigiosus est... qui apparens sive apparenter et non existenter syllogizatus ex his quae non sunt, sed videntur probabilia: et iste peccat tam in materia quam in forma "; Averroè Comm. Phys. I t.c. 6, 8 10-11, 15-18, 22-23, 26-31) e dallo stesso Tommaso per bocca del quale D. rinnoverà le accuse: " [Aristotiles] ostendit quod improbare opinionem Parmenidis et Melissi non pertinet ad scientiam naturalem... ad perscrutandum de hac opinione, si ens est unum et immobile... ad geometriam non pertinet inducere rationem contra destruentem sua principia; sed hoc vel pertinet ad aliquam aliam scientiam particularem... vel... ad scientiam communem, scilicet ad logicam et metaphysicam. Sed praedicta positio destruit principia naturae... non igitur debet contra hanc positionem disputare naturalis ... Non enim requiritur ab aliqua scientia ut inducat rationem contra opiniones manifeste falsas et improbabiles; nam quolibet proferente contraria opinionibus sapientis solicitum esse, stultum est, ut dicitur I Topicorum [11, 104b 18 ss.] " (Comm. Phys. I lect. II). Nello stesso luogo Tommaso tornava a ribadire il vizio di ‛ materia ' e ‛ di forma ' delle argomentazioni eleatiche: " non exigitur in aliqua scientia ut solvantur rationes sophisticae, quae manifestum defectum habent vel formae vel materiae... Hoc autem quod sint sophisticae, habent utraeque rationes et Melissi et Parmenidis: peccant enim in materia, unde dicit quod falsa recipiunt, id est falsas propositiones assumunt; et peccant in forma, unde dicit quod non syllogizantes sunt ".
Né dovrà sfuggire la breve esemplificazione di Aristotele sul geometra e la quadratura di Antifonte, in quanto partendo da essa alcuni commentatori (cfr. Alb. Magno Phys. I II 1) richiameranno l'analogo caso di Brisso (v.).
Tutto quanto si è detto è sotteso e coinvolto, nel suo insieme, al discorso dantesco. L'uso di P. - come spesso nel caso di allusioni colte, se non neutre tanto meno casuali - è il risultato di un perfetto adeguamento della polemica aristotelica alle finalità dottrinali di Dante.
In Mn III IV 4 ritroviamo infatti i dati essenziali del materiale analizzato: praenotandum quod, sicut Phylosopho placet in hiis quae ‛ De Sophisticis elenchis ', solutio argumenti est erroris manifestatio. Et quia error potest esse in materia et in forma argumenti, dupliciter peccare contingit: aut scilicet assummendo falsum, aut non sillogizando; quae duo Phylosophus obiciebat contra Parmenidem et Melissum dicens: " Quia falsa recipiunt et non sillogizantes sunt ". Qui l'accusa d'imperizia argomentativa rivolta contro i sostenitori della dipendenza dell'autorità imperiale da quella ecclesiastica, si avvale dell'esemplificazione di P. e Melisso in senso forte. Essa richiama, in compendio, tutta la gravità di quel duplice errore tanto dibattuto da Aristotele e dai commentatori, per indicare le fatali inconcludenze di chi non rispetta i canoni della ragione naturale, sanzionati dalle regole della logica aristotelica. Tanto più stringente è il richiamo, in quanto negli stessi Elenchi sofistici da cui è tratta la norma che legittima la confutazione dantesca (solutio argumenti est erroris manifestatio; cfr. 18, 176b 29-30 " recta solutio est manifestatio falsi syllogismi ") Aristotele tornava a criticare i paralogismi di P. (33, 182b 23 ss.), di Melisso (5, 167b 12 ss.; 6, 168b 35 ss.; 28, 181a 27 ss.) e, dato ugualmente significativo, di Brisso (11, 171b 16 ss.). Quest'opera conteneva peraltro una serrata critica contro la falsa sottigliezza dell'argomentare sofistico e del contendere eristico (o ‛ litigioso '), attraverso appunto l'erroris manifestatio: " Falsus autem syllogismus (cuius falsitatis manifestatio est vera in hac scientia manifestatio) fit dupliciter: aut enim fit uno modo si syllogizatum est falsum (hoc est conclusio falsa) ex falsis propositionibus eorum, sicut in causam... Aut secundo modo cum in veritate secundum formam syllogismi dialectici non est syllogizatum " (Alb. Magno Soph. el. II II 1).
A buona ragione P., Melisso e Brisso tornano, in canone triadico, nell'ammonizione di s. Tommaso (Pd XIII 125) contro l'uso fallace della ragione, come exempla eloquenti (aperte prove, v. 124) di chi cerca il vero senza possederne l'arte: Vie più che 'ndarno da riva si parte, / perché non torna tal qual e' si move, / chi pesca per lo vero e non ha l'arte. / E di ciò sono al mondo aperte prove / Parmenide, Melisso e Brisso e molti / li quali andaro e non sapëan dove; / sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti / che furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti (Pd XIII 121-129). Ancora una volta, attraverso l'allusione ai tre greci D. ricapitolava i massimi errori che rendono vano l'uso della ragione naturale. E la metafora della ‛ cattiva pesca ' aderisce coerentemente alla realtà allusa del ‛ cattivo argomentare '. Quei tre filosofi intrapresero la ricerca del vero (chi pesca per lo vero) senza il possesso della tecnica logica (e non ha l'arte); essi " presero l'avvio " da false premesse (da riva si parte) tanto più inutilmente (Vie più che 'ndarno), in quanto da un errore iniziale ne compirono di ancor più gravi, concludendo in modo incoerente anche rispetto ai principi da cui dedussero (perché non torna tal qual e' si move; ricordiamo al riguardo la specifica accusa a Melisso: " ratiocinatio Melissi magis est taediosa... Melissus enim et peccat in materia falsum assumendo, et peccat in forma non concludendo, et etiam ex his quae dicit, non potest concludere propositum sophistice, impediente aequivocatione in nomine principii ", Alb. Magno Phys. I II 6). Essi dunque si avviarono sulla ‛ via ' della verità, senza sapere come conseguirla (li quali andaro e non sapëan dove). Ma non è tutto: giova ricordare la tematica ‛ sapienziale ' in cui quegli exempla sono calati. L'accusa non solo è volta, al negativo, contro gli errori argomentativi e le carenze metodiche che operano un guasto nell'organismo del sapere; essa è volta piuttosto, al positivo, a denunciare la ragione per cui quell'errore si traduce in colpa: il costituirsi del falso argomentare come ‛ falsa sapienza '. Che è precisamente la ragione per cui l'appellativo di sofista ed eristico (solitamente riferito a P. e Melisso l'uno, a Brisso l'altro) si traduce da attributo strettamente tecnico a connotato morale. Il falso sillogismo, l'argomentare sofistico o litigioso-eristico mira, attraverso ‛ ragioni apparenti ', al raggiungimento della gloria di una ‛ apparente sapienza ': " Ergo syllogismi et homines qui ob victoriam ipsam tales sunt, ut per communia [cioè gli argomenti ‛ non specifici ' di una dottrina] vincant, sunt litigiosi homines et syllogismi eorum sunt litigiosae orationes. Qui autem homines et syllogismi tales sunt propter gloriam apparentis sapientiae, quae est in divitiis sive copiositate apparentis sapientiae " (Alb. Magno Soph. el. I V 3; ma v. Arist. Soph. el. 11, 171b 17 ss.; D. stesso ricorda come l'amore per la propria tesi privilegia l'errore rispetto alla retta ragione: più volte piega / l'oppinïon corrente in falsa parte, / e poi l'affetto l'intelletto lega, Pd XIII 117-120). Qui sta il motivo di fondo del recupero di quell'esemplificazione: la condanna dei litium amatores - negazione dei veri filosofi amatores sapientiae (Cv III XI 5) - come condanna dell'istituirsi arrogante di una falsa sapienza al cospetto della sapienza divina e salomonica, che non indugia in contese futili o errate (Pd XIII 97-102). In un altro luogo D. non aveva mancato di notare - e proprio in connessione con Salomone e la gerarchia delle scienze - come la Divina Scienza, la teologia, andasse esente da opinioni probabili, da argomenti sofistici e da ‛ liti ' eristiche (v. anche LITE): la Divina Scienza... non soffera lite alcuna d'oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio ... Tutte scienze chiama [Salomone] regine e drude e ancille; e questa [la Teologia-Sapienza] chiama colomba perché è sanza macula di lite (Cv II XIV 19 e 20).
Tanto più forte è l'intento polemico di D. in quanto, individuata la fallacia della falsa sapienza nell'ambito dell'humana ratio, passa a colpire l'analogo errore rispetto alla ratio divina, la Scrittura, da parte di chi usa di fallacie argomentative nell'esegesi della verità divina (sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti / che furon come spade a le Scritture) violentandone il senso e traendo false conclusioni da premesse indubitabilmente vere (in render torti li diritti volti, Pd XIII 127-129). Non è un caso che il movimento dell'argomentazione del Paradiso ripercorra con rigorosa simmetria quello del già citato luogo della Monarchia (III IV 6 ss.), dove alla denuncia del duplice peccare di P. e Melisso nelle prove di ragione, seguiva l'ammonizione di Agostino contro il corrispondente duplice errare nelle prove dedotte dalla Bibbia (advertendum quod circa sensum misticum dupliciter errare contingit: aut quaerendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat, § 6). Non c'è dubbio che in ambedue i luoghi si tratta di una messa a confronto dei modi di realizzarsi del falso sapere entro i due ordini tipici della dimostrazione scolastica: quello degli argomenti di autorità (i biblici) e quello degli argomenti di ragione (i filosofici). Il richiamo, per questi ultimi, delle confutazioni aristoteliche contro i falsi sapienti serve una volta di più a ribadire, per contrasto, il primato del Filosofo nell'ambito della ragione naturale.
Noteremo, infine, che la possibilità di un climax nella sequenza dei tre filosofi non è smentita dai testi aristotelici, che ascendono in gravità dalla denuncia del sofistico ma coerente P., a quella del sofistico ma più rozzo e incoerente Melisso (" Magis autem Melissi onerosa est ratio ", Phys. I 2, 185a 10-11; " duo quidem omnino quasi parum agrestiores, scilicet Xenophanes et Melissus. Parmenides enim magis videns visus est dicere ", Metaph. I 5, 986b 26-28), fino a quella dell'eristico e incompetente Brisso (" quadratura quidem quae per lunulas, non contentiosa, Brissonis autem contentiosa. Et illam quidem non est transferre nisi ad geometriam, solum eo quod ex propriis fit principiis; hanc autem ad plures quicunque nesciunt quid est possibile in unoquoque, et quid impossibile, nam accommodabitur, aut ut Antiphon quadravit ", Soph. el. 11, 172a 3 ss.).