PARMENIDE (Παρμενίδης, Parmenĭdes) di Elea
Pensatore greco, massimo rappresentante della scuola eleatica. La sua acme (quarantesimo anno dell'età, considerato dagli antichi dossografi come culmine della vita e dell'attività filosofica) è collocata da Apollodoro nel 500 a. C. Scolaro, secondo la tradizione, di Senofane di Colofone fondatore della scuola eleatica, elaborò, nel suo poema Intorno alla natura, la dottrina eleatica dell'essere, d'importanza capitale nella storia del pensiero greco.
I frammenti del Περὶ ϕύσεως sono raccolti, con vers. tedesca e insieme con le testimonianze, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, I, 4ª ed., Berlino 1922, pp. 138-65. (L'ediz. è decisamente superiore a tutte le precedenti; la versione e l'interpretazione risentono alquanto dell'atteggiamento mentale del Diels, filologo grandissimo ma non grande interprete filosofico. La sua versione resta peraltro ancora oggi punto di partenza per la discussione ulteriore). Buone versioni italiane mancano: di scarsissimo valore critico sono quelle di M. Cardini, Gli Eleati, Lanciano s. a. e M. Untersteiner, Parmenide, Torino 1925. La loro interpretazione ha offerto sempre difficoltà grandissime, accresciute dal fatto che poco vantaggio deriva dalle interpretazioni antiche che ad esse si riferiscono. Già Platone, infatti, che per P. ha la più grande reverenza (egli adopera a suo proposito il famoso saluto omerico di Elena a Priamo, "venerando e formidabile") e che molto si affatica intorno ai suoi problemi, vede spesso le sue dottrine in quella luce più generica, onde esse vengono senz'altro a fondersi con quelle di Melisso (v.). E Aristotele, nemico acerrimo della dottrina eleatica dell'essere, non si attarda troppo a definire, nell'esposizione storica contenuta nel libro I della Metafisica, le particolari divergenze teoriche dei rappresentanti di quella scuola, per quanto le sue poche indicazioni rimangano d'importanza essenziale, e siano utilmente ampliate, in qualche punto, da Teofrasto. Più tardi l'interpretazione (come, p. es., nel neoplatonismo e nei commentatori che ne dipendono, come Simplicio) riesce sempre più deformata secondo gl'interessi teorici delle scuole, che a loro volta continuavano certi aspetti dell'eleatismo.
Secondo l'interpretazione tradizionale, P., scolaro di Senofane, continua la sua dottrina teologica dell'unico Dio nella dottrina ontologica dell'unico ente. Il Reinhardt (v. Bibl.) ha negato recisamente questa dipendenza, ed ha anzi cercato di stabilire la dipendenza inversa: Senofane, cioè, giunto in tarda età ad Elea, avrebbe subito l'influsso del giovine P., e dato alla sua libera critica religiosa e scientifica quella incongrua veste dialettica, di cui resterebbero le tracce nella parte dello pseudoaristotelico De Melisso, Xenophane, Gorgia, dedicata all'esposizione delle sue dottrine. Se assai poco accettabile è questo capovolgimento del Reinhardt, certo è invece il carattere, da lui così messo in miglior luce, di profonda indipendenza e novità che contraddistingue la concezione di P. rispetto a quella di Senofane, e che rende la semplice deduzione storica del primo dal secondo quasi completamente inutile per comprendere la genesi del suo pensiero. L'unico motivo di comunanza tra i due pensatori consiste infatti nel predicato di unità, pertinente tanto al dio di Senofane quanto all'ente di P. Ma l'idea dell'unità, propria del reale più vero ed originario, è comune anche a tutta la speculazione ionica, e non spiega nulla in particolare. Giustamente, quindi, la critica più moderna ha cercato di comprendere la genesi interiore del pensiero di P. solo tentando di approfondire la diretta interpretazione, assai complicata e difficile, dei suoi frammenti.
Il poema si apre con una introduzione, che ci è pervenuta quasi per intero (framm. 1 Diels) e che descrive in forma allegorica come l'autore giunga, condotto dal carro delle Eliadi, di fronte alla dea reggitrice del mondo, e sia da essa esortato alla conoscenza tanto del vero sapere ("l'incrollabile cuore della ben rotonda Verità"), quanto delle "opinioni dei mortali". Alla conoscenza della verità corrisponde la parte propriamente positiva e metafisica della concezione parmenidea. Per accedere ad essa, i framm. 4, 6 e 7 prescrivono che si percorra la "via della Persuasione, compagna della Verità", e cioè quella nella quale si adopera soltanto l'essere" e l'"è", e si esclude rigorosamente il "non essere" e il "non è". Affermare che "il non essere è" è infatti immediatamente contraddittorio, e costituisce la prima e principale via dell'errore; ma da evitare è anche la seconda via dell'errore, costituita dalla contemporanea affermazione dell'essere e del non essere. Per intendere tutto ciò è necessario capire esattamente il significato dell'"essere" e del "non essere", di cui parla in questi luoghi Parmenide. Se l'"essere" fosse qui, senz'altro, l'"ente" i cui predicati ontologici vengono elencati nel frammento 8, non si capirebbe in che senso si dovesse evitare accuratamente il pericolo di negarlo. Aveva mai alcun greco, prima di P., affermato il "non-ente" o negato l'"ente"? L'avrebbe bensì, più tardi, fatto Gorgia (v.), ma proprio in quanto non affermava cosa a cui credesse ma sosteneva un paradosso, dedicato appunto a capovolgere ironicamente la posizione eleatica. Il valore di quest'"essere" si chiarisce invece quando si tenga presente la determinazione che ne dà lo stesso framm. 8, designando ai versi 35-36 il νοεῖν, il "pensare", come inseparabile "da quell'essere in cui si trova espresso". E ciò spiega ad un tempo l'origine ideale della concezione parmenidea dell'ente e il vero significato di quella sedicente sua identificazione dell'ente col pensiero, che è stata interpretata e valutata in così diversi modi, ma non mai propriamente discussa e criticamente accertata.
Sotto l'influsso, infatti, di un'interpretazione inammissibile del precedente verso 34, e del fraintendimento neoplatonico del framm. 5, non si vedeva come quest'"essere", che non era già (come capovolgendo si traduceva) "espresso e manifestato" nel pensiero ma anzi proprio forma espressiva e manifestante di questo stesso pensiero, non potesse non ridursi, nel suo motivo originario, all'"essere" astraibile come forma comune di tutti gli "è" costituenti le singole affermazioni empiriche. Osservazione, questa, che invece rende comprensibile tutta la genesi ideale, e l'interiore organismo, del pensiero di P. Il quale parte dal rilievo della molteplicità delle singole designazioni delle cose rispetto all'unità dell'essere con cui esse si predicano e s'affermano. Ma le singole cose non sono soltanto particolari di fronte all'unità dell'essere: sono anche contraddittorie, perché ciascuna di esse "è" in un modo in quanto "non è" in un altro, e quindi mescola insieme contraddittoriamente l'essere e il non essere. Propriamente vero, e quindi reale, è soltanto "ciò che è", senz'altra determinazione: l'"ente" (τὸ ἐόν). Ecco compresa la genesi ideale dell'"ente" parmenideo, e insieme quella delle "vie dell'errore" come metodi in cui, pensata la verità nelle sue determinazioni empiriche, si giunge alla contraddittoria asserzione del "non-essere". Compiuta in forma estrema e universale, e cioè negante affatto l'opposto essere, quell'asserzione costituisce la prima e più assurda via dell'errore (e il richiamo parmenideo influisce ancora sul vecchio Platone); affiancata all'asserzione dell'essere, essa dà luogo alla seconda e più comune via dell'errore, percorsa da ogni "opinione" umana asserente il particolare e quindi sommante insieme essere e non essere, e tipicamente rappresentata da Eraclito (se contro questo suo grande contemporaneo, com'è assai probabile e congruo, e come quindi non è necessario negare col Reinhardt, è particolarmente diretta da P. la seconda parte del framm. 6).
S'intende, d'altra parte, che l'"ente", di cui così P. scopre la natura in base a un'analisi della natura logico-verbale del pensiero, non è per lui un "essere" ideale o logico che perciò si distingue dall'"essere" reale, ma è anzi, in virtù dell'originaria indistinzione delle sfere ontologica, logica e linguistica propria della mentalità arcaica, la stessa realtà nella sua più vera e solida forma: e può così esser definito (nel framm. 8) come non nato né perituro (e anzi neppure appartenente al passato e al futuro, ma solo all'eterno presente del νῦν, giacché, se se ne afferma l'"è", deve negarsene il "fu" e il "sarà": contro ciò che poi dirà Melisso); non interiormente diverso o diviso, e perciò tutto compatto e pieno; non mobile; e, infine, neppure infinito, perché l'infinità è imperfezione, e quindi definito nella più perfetta forma geometrica, quella della sfera (attributo, quest'ultimo, tipico per la singolare tendenza del pensiero greco verso il finito, ma insieme problematico per il carattere di assolutezza dell'ente parmenideo, che doveva escludere da sé ogni non essere, cioè ogni negazione e determinazione, e quindi logicamente respinto da Melisso). Tutti questi attributi sono dedotti da P. in base a quella che egli chiama (fr. 8, vv. 15-16) la κρίσις dell'ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, la "distinzione dell'è dal non è": l'esclusione, cioè, di ogni predicazione di "non essere", che venga a contraddire la purezza della predicazione dell'"essere". Che i predicati che risultano da tale controllo logico-verbale abbiano poi per P. immediato valore ontologico, non deve sorprendere quando si pensi al carattere primitivo di questo pensiero, come, in genere, di tutto il pensiero presofistico, non ancora giunto, come si è detto, alla distinzione dell'ontologia dalla logica-gnoseologia e quindi portato a considerare il vero come reale e il reale come vero. Questo è, anzi, proprio il solo significato legittimo della cosiddetta identità parmenidea di essere e pensiero: identità che non esiste nel senso di un'adeguazione e dissoluzione mistica del pensiero nell'essere (né avrebbe potuto, perché per tale riflessa identificazione sarebbe stata necessaria una precedente distinzione), ma esiste bensì nel senso della primitiva e irriflessa unità, onde ciò che si controlla "vero" nel pensiero e nella parola viene sentito come senz'altro "reale". Di qui il lato di verità anche delle interpretazioni materialistiche" del pensiero parmenideo, che puntando sull'attributo di "pienezza" del suo ente definiscono questo come materia che riempie l'universo, e gli negano perciò quel carattere di razionalità metafisica, onde il Hegel poteva dire che con P. la filosofia si era alzata per la prima volta nella sfera dell'ideale. Certo, P. pensò il suo ente come pieno e quindi come esistente e resistente nel senso più concreto della parola (per quanto non pensasse mai di poterlo vedere e toccare, dopo tutti i suoi sforzi per distinguere il mondo intelligibile della verità dal mondo sensibile dell'opinione). Ma va anche avvertito che il "pieno" di P. è, con tipico sdoppiamento, ἐόν πᾶν ἔμπλεον ἐόντος, "ente tutto pieno di ente", cioè "ente senza scissione alcuna"; e che mentre si comprende bene come P. sia giunto dall'esigenza logico-verbale di non contraddire in alcun modo il "ciò che è" col "ciò che non è" all'intuizione ontologica dell'ente tutto indifferenziato e omogeneo e compatto, non si potrebbe assolutamente capire com'egli fosse potuto giungere, all'inverso, dall'idea del pieno materiale alla definizione del puro ente che esclude da sé il non-ente. Più tardi, il sofista Licofrone (v.), per eliminare la difficoltà del "giudizio identico", diretta erede della posizione parmenidea nel campo specifico della logica socratica del giudizio, proponeva, tipicamente, l'abolizione dell'ἐστίν, dell'essere predicativo, e l'uso esclusivo di predicati verbali. Ciò era, ormai, anacronistico: ma è certo che se la lingua greca non avesse posseduto quell'elemento logico-verbale, non sarebbe mai nato il concetto parmenideo dell'ente.
La stessa tipica indistinzione tra sfera logico-verbale e sfera ontologica si ripete a proposito di quel mondo "secondo opinione" (κατὰ δόξαν) la cui dottrina P. fa seguire, nella seconda parte del suo poema, alla teoria del mondo "secondo verità" (κατὰ ἀλήϑειαν), cioè dell'ente. Circa la relazione fra queste due dottrine si è molto discusso, anche per le difficoltà d'interpretazione dei versi del proemio che accennano ad essa (fr. 1, v. 29 segg.). E mentre prima si tendeva a considerare la dottrina "secondo opinione" come vera e propria teoria ipotetica del mondo empirico, quale avrebbe potuto essere, se non fosse stata vera la dottrina dell'ente, il Reinhardt ha giustamente dimostrato l'incongruenza di un simile rapporto, che spezzerebbe l'unità del pensiero parmenideo. E ha interpretato la dottrina dell'opinione come semplice dottrina dell'errore, in cui l'uomo incorre quando, obbedendo alla conoscenza sensibile, crede alle forme particolari delle cose e deve quindi, per spiegarle, mescolare il non-essere all'essere: dottrina gnoseologica dell'errore, che peraltro assume un colorito ontologico in quanto, per spiegare l'erronea genesi delle altrui cosmologie, ne riprende e percorre i concreti aspetti. Il che è vero, ma va anch'esso integrato con l'osservazione dell'unità ancora indistinta che in P. lega linguistica, logica ed ontologia, e che fa sì che persino l'errore logico-verbale assuma, nella sua possibilità e nella sua attuazione, un aspetto di realtà: altrimenti non si giustificherebbero quegli aspetti d'indiscussa oggettività, che pur presenta questa parmenidea dottrina dell'empirico, e nel cui rilievo è il motivo di verità delle altre interpretazioni. Anche la teoria dell'errore, in quanto "vera", viene ad essere in certa guisa "reale": e le molteplici forme del mondo opinato sono per P. gli stessi "nomi" (ὀνόματα: v. fr. 8, 38 segg. e fr. 19) che sommandosi, come predicati particolari, alla pura asserzione dell'"è" producono la determinazione, e quindi la contraddittoria sintesi dell'essere e del non essere. In questa concreta determinazione, essere e non essere assumono l'aspetto di elementi fisici (luce e tenebre, o caldo e freddo), la cui sintesi dà origine ai singoli aspetti sensibili del reale. Così anche l'interpretazione della dottrina dell'opinione conferma la genesi logico-verbale del pensiero parmenideo, e insieme l'originaria e primitiva connessione onde quel carattere logico-verbale è in esso ancora affatto connaturato col carattere propriamente reale di ciò che è.
Enorme è stato l'influsso esercitato da questo pensiero. Direttamente, esso pone (mostrandone l'esigenza nella stessa sua soluzione negativa) tutti i problemi fondamentali della logica e della dialettica (rapporto di essere e non-essere, affermazione e negazione, positivo e negativo, essere esistenziale ed essere predicativo), su cui poi si affatica tutto il grande pensiero logico greco, dalla sofistica alla socratica e da Platone ad Aristotele. Indirettamente (e cioè attraverso la concezione di Melisso, che essa determina ma che ne diverge non tanto perché nega la finità dell'ente quanto perché trasferisce il carattere costitutivo della realtà dall'indeterminatezza assoluta dell'essere escludente il non essere all'immobile costanza temporale della determinazione) esso fonda il concetto eleatico della realtà-verità come eternamente immutabile, e stabilisce quell'antitesi di eleatismo ed eraclitismo che ha poi così grande influsso sui sistemi pluralistici di Empedocle, Anassagora e Democrito e sull'idealismo aristotelico, platonico e neoplatonico.
Bibl.: Fondamentale per la moderna critica parmenidea K. Reinhardt, P. und die Geschichte d. griechischen Philosophie, Bonn 1916, da cui muove anche H. Fränkel, Parmenidesstudien, in Nachrichten der Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, 1930, pp. 153-92. Tra i precedenti conserva ancora notevole importanza A. Patin, P. im Kampfe gegen Heraklit, in Jahrbücher f. klass. Philologie, Suppl. XXV (1899), p. 491 segg. Per l'interpretazione esposta nel presente articolo v. G. Calogero, Studi sull'eleatismo, Roma 1932, pp. 1-56. Ulteriore bibliografia in Ueberweg-Praechter, Grundr. d. Gesch. d. Philosophie, I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 47*-48*.
Parmenide e la geometria. - P. si è occupato anche della critica dei concetti geometrici; infatti Proclo, nel commento all'Euclide, dice che egli distingueva le linee in tre specie: rette, curve e miste. Lo stesso Proclo dice che la definizione I, 1 dell'Euclide "il punto è ciò che non ha parti" è conforme al criterio di P., per cui le definizioni negative convengono ai principî. Questa notizia conferma l'interpretazione di F. Enriques del framm. 2, per cui l'Eleate avrebbe designato come "cosa che non cade sotto i sensi (ἀπεόντα), da considerare presente al pensiero" la superficie senza spessore la quale "non separa l'ente (lo spazio) dalla connessione coll'ente, né staccandolo da tutte le parti affatto regolarmente (come nel caso di una superficie chiusa), né congiungendo (due spazî contigui di cui sia termine comune)".
Seguendo questa interpretazione il concetto puramente razionale degli enti geometrici (punto, linea, superficie), che P. Tannery ha riconosciuto affermarsi con i famosi argomenti di Zenone in polemica con la concezione monadica dei Pitagorici (punto esteso, linea formata di punti, ecc.), dovrebbe farsi risalire a Parmenide.
Bibl.: F. Enriques, La polemica eleatica per il concetto razionale della geometria, in Periodico di matematiche, 1923; id. e G. Diaz de Santillana, Storia del pensiero scientifico, I, Milano 1932.