Parmenide di Elea
Pensatore (6°-5° sec. a.C.). È il massimo rappresentante della scuola eleatica. La sua ἀκμή (quarantesimo anno dell’età, considerato dagli antichi dossografi come culmine della vita e dell’attività filosofica) è collocata da Apollodoro nella 49a olimpiade (504-1 a.C.). Allievo, secondo una tradizione che la storiografia moderna ha spesso messo in dubbio e talvolta rovesciato, di Senofane di Colofone, elaborò, nel suo poema in esametri Περὶ φύσεως («Intorno alla natura»), la dottrina eleatica dell’essere, di importanza capitale nella storia del pensiero greco. In scavi condotti a Velia (Elea) si sono rinvenute, in momenti diversi, una testa e un’erma acefala (1° sec. d.C.) recante il nome di P.: si tratterebbe del primo ritratto sicuramente parmenideo (rappresentante di un tipo ampiamente documentato) finora pervenutoci, scoperto insieme ad altre erme e a una statua, relative a medici attivi a Elea. Nell’epigrafe, P. è indicato come Οὐλιάδης φυσικός: il primo attributo è da connettere probabilmente con il culto di Apollo Οὔλιος, divinità salutare, e sembra qualificare P. come capostipite ideale della scuola medica eleate.
I frammenti dell’opera che sono pervenuti presentano notevoli difficoltà ermeneutiche, accresciute dal fatto che poco vantaggio deriva dalle interpretazioni antiche che a essa si riferiscono. Già Platone, infatti, che per P. ha la più grande reverenza, vede spesso le sue dottrine in una luce più generale, per cui vengono talvolta a fondersi con quelle di Melisso di Samo (➔). Aristotele, nemico acerrimo della dottrina eleatica dell’essere, non si attarda troppo a definire, nell’esposizione storica contenuta nel libro I della Metafisica (➔), le particolari divergenze teoriche dei rappresentanti di quella scuola, per quanto le sue poche indicazioni rimangano d’importanza essenziale, e siano utilmente ampliate, in qualche punto, da Teofrasto. Più tardi l’interpretazione (come per es. nel neoplatonismo e nei commentatori che ne dipendono, come Simplicio) si rivela sempre più deformata secondo gl’interessi teorici delle scuole, che a loro volta continuavano certi aspetti dell’eleatismo. Il poema si apre con un’introduzione, che ci è pervenuta quasi per intero e che descrive in forma allegorica come l’autore giunga, condotto dal carro delle Eliadi, di fronte alla dea reggitrice del mondo (Δίκη, la Giustizia), e sia da essa esortato alla conoscenza tanto del vero sapere, quanto delle «opinioni dei mortali» (fr. B 1, vv. 1-30). Alla conoscenza delle verità corrisponde la parte più propriamente positiva e metafisica della concezione parmenidea. Per accedere a essa P. prescrive che si percorra la via della Persuasione, compagna della Verità, e cioè quella nella quale si adopera soltanto l’«essere» e l’«è», e si esclude rigorosamente il «non essere» e il «non è». Affermare che «il non essere è» è infatti immediatamente contraddittorio, e costituisce la prima e principale via dell’errore; ma da evitare è anche la seconda via dell’errore, costituita dalla contemporanea affermazione dell’essere e del non essere. Il valore di quest’«essere» si chiarisce quando si tenga presente la determinazione che se ne dà: il νοεῖν, il «pensare», è inseparabile «da quell’essere in cui si trova espresso». E ciò spiega a un tempo l’origine ideale della concezione parmenidea dell’ente e il vero significato della sua identificazione dell’ente con il pensiero. Quest’«essere» – che non è (come per lungo tempo si è interpretato) «espresso e manifestato» nel pensiero, ma anzi proprio forma espressiva e manifestante di questo stesso pensiero – non poteva non ridursi, nel suo motivo originario, all’«essere» astraibile come forma comune di tutti gli «è» costituenti le singole affermazioni empiriche. Si comprende così tutta la genesi ideale, e al tempo stesso il cardine, del pensiero di P., il quale parte dal rilievo delle molteplicità delle singole designazioni delle cose, rispetto all’unità dell’essere con cui esse si predicano e si affermano. Ma le singole cose non sono soltanto particolari, di fronte all’unità dell’essere: sono anche contraddittorie, perché ciascuna di esse «è» in un modo in quanto «non è» in un altro, e quindi mescola insieme contraddittoriamente l’essere e il non essere. Propriamente vero, e quindi reale, è soltanto «ciò che è» senz’altra determinazione: l’«ente» (τὸ ἐόν). S’intende, d’altra parte, che l’«ente», di cui così P. scopre la natura in base a un’analisi della natura logico-verbale del pensiero, non è per lui un «essere» ideale o logico, che perciò si distingue dall’«essere» reale, ma è anzi, in virtù dell’originaria indistinzione delle sfere ontologica, logica e linguistica propria della mentalità arcaica, la stessa realtà nella sua più vera e solida forma: e può così essere definito come non nato né perituro; non interiormente diverso o diviso, e perciò tutto compatto e pieno; non mobile; e, infine, neppure infinito, perché l’infinità è imperfezione, e quindi definito nella più perfetta forma geometrica, quella della sfera; tutti questi attributi sono dedotti da P. in base a quella che egli chiama (fr. 8, vv. 15-16) la κρίσις dell’ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («distinzione dell’è dal non è»): l’esclusione, cioè, di ogni predicazione di non «essere» che venga a contraddire la purezza della predicazione dell’«essere». La stessa tipica indistinzione tra sfera logico-verbale e sfera ontologica si ripete a proposito di quel mondo «secondo opinione» (κατὰ δόξαν) la cui dottrina P. fa seguire, nella seconda parte del suo poema, alla teoria del mondo «secondo verità» (κατὰ ἀλήϑειαν), cioè dell’ente. Tale dottrina, centrata sull’opposizione luce-tenebre, riprende largamente e reinterpreta motivi tipici della cosmologia precedente. Nel campo della geometria si deve a lui una critica dei concetti geometrici fondamentali; oltre alla distinzione delle linee in rette, curve e miste (che a lui è attribuita da Proclo, nel commento di Euclide), sembra che gli si debba l’osservazione che le definizioni negative (come quella euclidea del punto come «ciò che non ha parti») sono quelle che maggiormente convengono ai principi. Una certa tradizione riconduce a P. le nozioni puramente razionali degli enti geometrici (punto, linea, superficie); così, per es., il concetto di linea sarebbe, per P., quello di pura lunghezza senza larghezza, in opposizione alla concezione pitagorica di linea costituita da punti monadi, che risponde a una conoscenza empirica non ancora razionalizzata.
Enorme è stato l’influsso esercitato dalle dottrine parmenidee. Direttamente, esse pongono (mostrandone l’esigenza nella stessa sua soluzione negativa) tutti i problemi fondamentali della logica e della dialettica (rapporto di essere e non-essere, affermazione e negazione, positivo e negativo, essere esistenziale ed essere predicativo), su cui poi si affatica tutto il grande pensiero logico greco, dalla sofistica alla dialettica socratica e da Platone ad Aristotele. Indirettamente (e cioè attraverso la concezione di Melisso, che diverge dalle posizioni parmenidee non tanto perché nega la finità dell’ente quanto perché trasferisce il carattere costitutivo della realtà dall’indeterminatezza assoluta dell’essere escludente il non essere all’immobile costanza temporale della determinazione) esse fondano il concetto eleatico della realtà-verità come eternamente immutabile, e stabilisce quell’antitesi di eleatismo ed eraclitismo che ha poi così grande influsso sui sistemi pluralistici di Empedocle, Anassagora e Democrito e sull’idealismo aristotelico, platonico e neoplatonico.