PARLAMENTO
(XXVI, p. 368; App. III, II, p. 366; IV, II, p. 737; v. anche camera, App. II, II, p. 488; senato, App. II, II, p. 806)
Il Parlamento in una democrazia repubblicana. - Il passaggio dal vecchio regime, retto dallo Statuto Albertino, al nuovo, fondato su una nuova Costituzione e sul mutamento dello stato da monarchico a repubblicano in seguito al referendum del 2 giugno 1946, comportò anche una ridefinizione del ruolo e dei compiti degli organi costituzionali e, in primo luogo tra essi, del Parlamento. L'esistenza del P. in un sistema non connota infatti di per sé un regime come democratico: anche nel regime fascista, infatti, il P. venne conservato, ma ridotto a foro di acclamazione e financo espropriato del proprio ordine del giorno avocato integralmente dal governo che lo definiva secondo le proprie esigenze (come esplicitamente prevedeva la l. 129 del 1939). Parlare di P. in una democrazia repubblicana significa quindi, a prescindere dalla specifica forma di governo, riferirsi a una vicenda essenzialmente diversa, sia sotto il profilo politico di organo espressione delle libertà e tutela di esse, sia sotto il profilo istituzionale. Infatti il capo dello Stato, non più re ma presidente della Repubblica, non è, come nel precedente regime, parte dell'organo legislativo, sebbene mantenga un necessario collegamento, in varie forme, con i tre fondamentali poteri dello stato: il legislativo, l'esecutivo, il giudiziario. Dire poi che il P. esprime e riassume il sistema delle libertà significa definire questo sistema sia in rapporto ai cittadini, attraverso la garanzia della ''riserva di legge'', cioè del necessario intervento di questa nel regolare i principi in base ai quali i pubblici poteri possono incidere sulle sfere giuridiche dei privati, sia in rapporto ai ''gruppi'' parlamentari, che rappresentano la proiezione delle forze politiche in P., e i cui rapporti e meccanismi di reciproca garanzia sono retti e tutelati dai regolamenti parlamentari.
La circostanza che in una democrazia il P. sia espressione di una pluralità di voci, connota quest'organo non solo come sede rappresentativa del pluralismo, ma altresì come luogo ove le nuove energie sociali che aspirano a un'espressione politica organizzata trovano un'idonea possibilità di far valere le proprie istanze, prospettandole nel lavoro politico-legislativo e di controllo.
In questo senso il P. in un sistema di libertà si presenta come l'organo per eccellenza d'integrazione sociale, innanzitutto facendo sì che gli estremismi che si coagulano nella società trovino un canale istituzionale trasformandosi in estreme parlamentari, in secondo luogo sostenendo, attraverso il continuo confronto-scontro sui vari ideali e interessi, quella rappresentazione differenziata, e in ultima analisi alternativa, dei vari programmi per governare il paese, in modo da favorire negli elettori la consapevolezza delle scelte possibili da realizzare al momento delle elezioni politiche generali.
Da questo punto di vista il P., oltre a costituire lo strumento e la sede visibile del ricambio delle forze sociali in grado di avvicendarsi alla guida del governo, resta, nonostante il carattere passionale e a volte fazioso di tante battaglie politiche, la sede più qualificata dell'analisi razionale e consapevole dei problemi politici di una società quotidianamente a confronto con le nuove forme dei mass media, oggettivamente sospinte da una pulsione dominante a semplificare lo spessore delle questioni e a suggestionare le coscienze. Di qui anche la necessità di leggi sempre più sofisticate per evitare che venga travolto il ruolo primario degli organi di derivazione popolare.
La questione del bicameralismo. − Una delle principali questioni che riguardano l'organizzazione di base di un moderno P. è la sua struttura, monocamerale o bicamerale. La tendenza prevalente è stata quella di prevedere due rami legislativi: e sono infatti pochi i paesi retti a regime monocamerale, anche se tra essi si segnalano taluni esempi recenti di abbandono della forma bicamerale per adottare la forma unicamerale. Si tratta però di paesi (come la Svezia) di non grandi dimensioni e con una base sociale piuttosto omogenea. Anche se la situazione generale vede di preferenza assetti bicamerali, quello che è ovunque in crisi è il cosiddetto bicameralismo ''paritario'', cioè l'esercizio da parte dei due rami delle medesime funzioni. In Italia, durante il periodo statutario, esistevano una Camera dei deputati elettiva e un Senato di nomina regia (governativa): e questa differente legittimazione dava al primo ramo una prevalenza sia politica (il Senato non toglieva la fiducia al governo), sia istituzionale (la Camera esaminava sempre per prima i disegni di legge finanziari). Peraltro, salvo queste differenze, entrambi gli organi avevano i medesimi poteri nella sfera legislativa e di controllo.
Il ripristino della democrazia nel nostro paese ha prodotto innanzitutto una tendenza a livellare completamente i compiti di entrambi i rami, per la comune derivazione popolare intervenuta dopo l'abolizione del Senato di nomina regia. Quindi nessuno dei due rami ha più priorità nell'esame delle leggi, o nel decretare la fine dei governi. Data per scontata la comune origine elettiva, il dibattito si è così spostato sulla composizione delle Assemblee, in quanto da taluni si voleva raccogliere la suggestione corporativa dell'organizzazione per gruppi professionali, e da altri quella delle autonomie territoriali, facendo rispettivamente del Senato una Camera delle categorie o delle regioni. Si è preferito tuttavia adottare per entrambe le Assemblee il modello della rappresentanza politica generale come il più consono a evidenziare la completa parità dei due rami, di cui si è sottolineata testualmente nella Costituzione la comune derivazione dal ceppo ''Parlamento''. E questo costituisce un altro elemento di differenziazione con il precedente regime.
L'unità del P. come espressione dell'unica derivazione popolare è stata ulteriormente rafforzata nella Costituzione con la figura del ''Parlamento in seduta comune'', cui sono state attribuite alcune delicate funzioni quali la messa in stato di accusa del capo dello Stato (prima del 1989 anche dei membri del governo) e l'elezione del capo dello Stato, con la partecipazione di tre rappresentanti di ciascuna regione allo scopo di sottolineare il ruolo delle autonomie, sia pure nell'unità e indivisibilità della Repubblica.
Le differenze tra i due rami del P. riguardano l'età per accedervi (25 anni per la Camera, 40 per il Senato), o per eleggerli (21 anni, poi 18, per la Camera, 25 per il Senato), la durata (5 anni per la Camera, 6 per il Senato, poi equiparata a quella della Camera per evitare sfasamenti temporali nella rilevazione dell'opinione degli elettori, con rischio di divaricazione negli indirizzi) e la composizione (in quanto partecipano al Senato 5 senatori a vita nominati dal capo dello Stato e gli ex capi di Stato come senatori a vita e di diritto, mentre nella Camera tutti i componenti sono elettivi). Un'altra differenziazione, che origina dal versante politico ma non è priva di ricadute sul versante istituzionale, è che in genere i segretari di partito e i principali leaders sono deputati: e questo concentra una maggior tensione e una dialettica politica più vivace in questo ramo. Si aggiunga che le varie proposte susseguitesi nel tempo per riformare strutturalmente il P. hanno riguardato soprattutto il Senato, per es. per farne una Camera delle regioni: prospettiva questa che comporta anche un certo depotenziamento di poteri in ordine all'attività legislativa. Quindi, pur nella parità giuridica formale, i due rami hanno in realtà vissuto in una condizione complessiva di differente peso politico, anche se questa situazione non si è ancora tradotta costituzionalmente in un minor ruolo del Senato rispetto alla modificabilità delle leggi in seconda lettura, perché, anzi, quando quest'esigenza di accelerare l'iter di approvazione ha raggiunto un livello avanzato di dibattito, l'orientamento comune era che la seconda lettura potesse avvenire anche per il silenzio-assenso, sia che si trattasse del Senato sia che si trattasse della Camera dei deputati.
Nonostante i propositi di snellimento, l'insoddisfazione per la ripetitività del procedimento in un bicameralismo paritario fa sì che la spinta a fare di un ramo del P. (tendenzialmente il Senato) la Camera delle regioni ed eventualmente dei rapporti comunitari, si riproponga periodicamente, sia pure con alterna forza e convinzione. E se la difficoltà di trovare una convergenza su soluzioni più radicali ha sinora favorito intese solo nel senso di un bicameralismo ''processuale'', cioè privato dei suoi aspetti più necessariamente ripetitivi, il progetto della Camera delle regioni viene ormai riproposto nei programmi di diversi partiti: in ogni caso s'insiste su una differenziazione di funzioni.
Rilievo ed evoluzione dei regolamenti parlamentari. - Di particolare importanza, e costituzionalmente rilevante per i richiami operati dalla Carta Costituzionale (art. 64), appare la disciplina contenuta nei regolamenti parlamentari. Questi regolano l'attività e l'organizzazione del P. e non rappresentano un insieme di norme a mera rilevanza interna del procedimento che conduce all'approvazione delle leggi, giacché ad essi è legata una serie di rapporti fondamentali: quello tra governo e P., quello tra maggioranza e opposizione/i, regolando anche le variabili tra le possibili connotazioni (e deformazioni) del modello parlamentare (maggioritario o ''consociativo'', cioè che sottende intese continue tra maggioranza e opposizione). In altri termini l'organizzazione del P., dell'attività delle Commissioni, dei loro poteri, dei rapporti fra Commissioni e assemblea, dei tempi e modi di votazione (tempo contingentato o no, voto segreto e voto palese), per non citare che alcuni punti di base della materia disciplinata, si ripercuote sull'attività legislativa e di controllo del P. stesso, coinvolgendo, attraverso intese o scontri, ostruzionismi e negoziazioni, una serie di rapporti politici che evolvono nella sede parlamentare. Perciò si può dire senz'altro che la storia delle modifiche dei regolamenti parlamentari segua la storia dell'evoluzione dell'istituto ''Parlamento'' e dello sviluppo del sistema parlamentare.
All'inizio dell'esperienza repubblicana la consapevolezza culturale di questa potenzialità dei regolamenti era ancora poco presente. Perciò, a fronte di un dibattito costituente estremamente ricco, mancò totalmente un approfondimento sulle ragioni delle scelte regolamentari: e così si adottarono i regolamenti della democrazia prefascista come se il ''modello'' del sistema parlamentare fosse rimasto immutato. D'altro canto la situazione politica di contrapposizione tra partiti, conseguente alla ''guerra fredda'' sul piano internazionale, non favoriva l'attenzione sui problemi istituzionali.
È dopo il ''disgelo costituzionale'' che si avverte un sia pur lento miglioramento dei rapporti tra forze politiche, in una prima fase così fortemente antagoniste da far riferimento a sistemi politici totalmente contrapposti. Così verso la metà degli anni Sessanta, tra le varie riforme, si avviò anche quella dei regolamenti parlamentari alla quale si approdò all'inizio degli anni Settanta. La formula regolamentare del 1971 rifletteva, per un verso, la presa d'atto da parte del P. che il governo non era più un organo esecutivo e, dall'altro, che si era entrati in pieno dialogo tra maggioranza e opposizione con le conseguenti esigenze di istituti che lo agevolassero. In questo nuovo contesto si determina tuttavia un appannamento di quella forte dialettica interna di cui il P. dovrebbe essere normalmente specchio e tende a svanire la logica di base che dovrebbe regolare il funzionamento di un sistema parlamentare, quella di una maggioranza che governa e di un'opposizione che controlla.
Negli anni Ottanta, specie dopo gli eccessi delle pratiche ''consociative'' tra maggioranza e opposizione, si operarono virate: il principio maggioritario tornò a riaffermarsi, prima con l'abbandono del criterio dell'unanimità nella definizione dell'ordine dei lavori parlamentari; poi con il contingentamento dei tempi assegnati ai vari gruppi, per dare certezza allo sbocco del procedimento nella decisione, pur nel rispetto del contraddittorio; infine limitando fortemente il ricorso al voto segreto, che consentiva a gruppi interni alla maggioranza di governo ma ostili all'esecutivo in carica, di coalizzarsi con le opposizioni in ''imboscate'' volte a indebolire e far dimettere il governo. Si riapriva così la strada a un nuovo trend politico parlamentare che assicurava una diversa capacità per il governo di realizzare il proprio programma politico rivalutando progressivamente il suo ruolo di direzione e coordinamento nel sistema. E mai come nel corso di questa lunga evoluzione regolamentare è parso di chiara evidenza il nesso tra potestà di autorganizzazione del P., regole del dialogo tra le forze politiche e buon governo istituzionale a servizio della società civile.
Il Parlamento come Parlamento dei ''gruppi''. - Il P. repubblicano ha consolidato, rispetto all'immediato prefascismo, l'assetto delle forze politiche in partiti organizzati. Le loro proiezioni in P. sono i ''gruppi'' parlamentari, con l'obbligo per ciascun parlamentare di far parte di uno di essi. Parlare di P. dei gruppi significa, quindi, da un punto di vista strettamente giuridico, accogliere la necessarietà dei gruppi stessi laddove senza di essi mancherebbe un anello fondamentale nel sistema di snodo dell'attività parlamentare e della funzione legislativa; da un punto di vista sostanziale, invece, significa riconoscere che al di là di deviazioni partitocratiche, la configurazione della nostra società e la sua stessa complessa organizzazione portano, fisiologicamente, alla formazione di corpi intermedi di canalizzazione del consenso in P. quali sono appunto i gruppi parlamentari.
I gruppi parlamentari oscillano da sempre, in un regime di bivalenza fra prassi e diritto, tra l'essere configurati come soggetti privati che esercitano funzioni pubbliche, come libere associazioni di diritto pubblico, come associazioni politiche organi di partito e come organi delle Camere. L'ambiguità circa la loro precisa natura giuridica deriva in realtà dalla Costituzione, che dispone (art. 67): "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"; e con questo si esclude non tanto la capacità che un gruppo ha di accorpare e rappresentare gli interessi di un partito in P. quanto che il singolo parlamentare sottostia a discipline di gruppo talmente rigide da stravolgerne la libera funzione costituzionalmente garantita; d'altro canto, poi, la Costituzione prevede (art. 72) che le Commissioni parlamentari siano composte in maniera proporzionale all'entità dei gruppi, con ciò pienamente legittimando il ruolo di rappresentanza a essi conferito dal regolamento della Camera prefascista (1920-22), adottato a seguito della trasformazione del sistema elettorale italiano da uninominale a proporzionale (1919), che sancì l'inserimento della rappresentatività dei partiti nel funzionamento del Parlamento.
Sono notevoli le funzioni che il gruppo svolge all'interno delle Camere, e prima fra tutte è quella nella Conferenza dei capigruppo che, mutuata alla Camera dall'esperienza francese, ha il ruolo fondamentale di decidere, su convocazione del Presidente, l'ordine dei lavori dell'assemblea. Ciò significa, in altri termini, che sono i gruppi, attraverso i loro capigruppo, a stabilire le priorità da sottoporre all'esame delle Commissioni e dell'Assemblea, che sono quindi i gruppi a scegliere, sulla base di valutazioni discrezionali, che s'innestano direttamente sul principio dell'autonomia e della sovranità del P., quali disegni di legge è opportuno che vengano prioritariamente esaminati e tradotti in legge dello stato.
Ogni gruppo parlamentare chiede che i suoi componenti si adeguino a una vera e propria disciplina formale. Si tratta di una formula di rito dei regolamenti interni dei gruppi, che non ha evitato comunque, in regime di voto segreto, il fenomeno della dissociazione occulta (i cosiddetti ''franchi tiratori''). È possibile, ovviamente, anche la dissociazione manifesta.
Ai gruppi sono conferiti dai regolamenti parlamentari poteri diversi per Camera e Senato, che vanno dalle già accennate funzioni nella Conferenza dei capigruppo alla designazione dei loro componenti per Commissioni permanenti; esistono tuttavia anche poteri che possono essere definiti convenzionali e legati agli usi dei singoli rami del Parlamento. Per es., è d'uso che la composizione di ciascun organo collegiale della Camera e del Senato rispecchi proporzionalmente l'entità dei gruppi: ciò vale per le commissioni d'inchiesta, per es., o per le commissioni speciali, ma anche e soprattutto per l'Ufficio di presidenza. Anche l'elezione delle massime cariche politiche (presidente, vice-presidenti) avviene su designazione o comunque dietro accordo dei gruppi. Altre convenzioni degne di nota si verificano in occasione di crisi di governo, allorché il presidente della Repubblica ascolta informalmente i capigruppo per acquisire informazioni utili ai fini della gestione e della risoluzione della crisi stessa.
La legislazione tra Commissioni e Assemblea. - Tra le varie novità della nostra Costituzione nel disciplinare l'organizzazione del P. vi è stata quella di assegnare alle Commissioni permanenti compiti di approvazione delle leggi senza la necessità di una deliberazione da parte delle Assemblee. Per la verità anche la legge fascista del 1939 aveva riorganizzato il P. riconoscendo tale ruolo alle Commissioni. Ma allora era parsa quasi una conseguenza della decadenza del P. come organo d'indirizzo politico e della sua configurazione come un organo di collaborazione con il governo che poteva più funzionalmente organizzare il proprio lavoro decentrandolo a collegi più ristretti e che comunque disponeva sempre dell'arma del rinvio in Assemblea.
Con il regime democratico e pluralista l'attribuzione alle Commissioni della competenza a deliberare in via definitiva le leggi è apparsa invece come conseguenza del P. dei ''gruppi'' anche se, per i gruppi minori, non è sempre possibile riuscire a partecipare con diritto di voto a tutte le Commissioni, ferma restando la potestà d'intervento politico ai lavori. Il sistema è stato inoltre ulteriormente modulato riconoscendo, per leggi di particolare rilievo, alle Commissioni il potere di approvare gli articoli di una legge (sede ''redigente''), ma riservando alle Assemblee l'approvazione complessiva della legge stessa, sia pur senza modificare ulteriormente gli articoli già approvati, in modo da consentire ai vari gruppi politici di sottolineare in una sede di maggiore risonanza le proprie motivazioni di voto e l'influenza da ciascuna di esse avuta nell'elaborazione del provvedimento.
D'altro canto, a fronte degli indubbi vantaggi che il decentramento legislativo pone, si accusano anche gli inconvenienti di una sede più riservata e ristretta, dove, seppure è prevista la pubblicazione integrale degli atti (peraltro non con la stessa immediatezza di quelli dell'Assemblea, salvo un immediato sommario resoconto dei lavori), non è però fisicamente presente il pubblico perché non ammesso, a differenza che in aula. Ma questo rilievo viene assorbito dalla circostanza che seppure intercorrano, come sovente accade, negoziati e compromessi tra i vari gruppi politici, anche tra quelli di maggioranza e di opposizione − sia perché si tratta di provvedimenti relativi a gruppi sociali che interessano tutti i partiti, sia perché si determinano scambi di favori −, questi accordi vengono comunque presi in sedi ristrette o informali e raramente esplicitati nei pubblici dibattiti anche quando questi sono necessariamente pubblici come in Assemblea. È tuttavia incontestabile che la sede più discreta e proceduralmente più snella delle Commissioni resti preferita.
Si deve comunque osservare che non ogni materia può essere assegnata alle Commissioni. Innanzitutto la Costituzione (art. 72) prevede al riguardo una serie di limiti all'utilizzo della sede legislativa (deliberante al Senato) per la materia costituzionale ed elettorale, per la delegazione legislativa, per l'autorizzazione a ratificare trattati internazionali e per approvazione di bilanci e consuntivi. Altre limitazioni sono stabilite dai regolamenti parlamentari, i quali escludono la conversione in legge dei decreti legge dai procedimenti definibili in Commissione. E il larghissimo ricorso al decreto legge verificatosi negli anni Settanta e Ottanta ha fatto sì che l'Assemblea abbia recuperato al proprio ordine del giorno una vasta serie di provvedimenti. Va poi fatta breve menzione anche alla sede referente che prevede che la Commissione, dopo aver ascoltato l'esposizione del relatore alla Commissione stessa, e dopo averlo votato, presenti all'aula il testo approvato, spesso diverso da quello iniziale, che l'aula poi approverà o respingerà.
La collocazione costituzionale del Parlamento e il dibattito sulla sua centralità. - Nel sistema statutario il P. era considerato l'organo espressione della sovranità nazionale e depositario del potere di approvare, sottoponendole alla sanzione regia, le leggi, ossia le fonti più alte dell'ordinamento con una Costituzione ''flessibile'', cioè modificabile senza particolari procedure e maggioranze. Nel sistema fascista il P., pur mantenendo formalmente il compito di deliberare le leggi, non era più espressione della libera e pluralistica volontà popolare e vedeva il governo dominare totalmente il procedimento legislativo. Nel sistema repubblicano il P. rappresenta uno degli organi costituzionali in condizioni di raccordo con altri organi di vertice, ma il suo potere appare per più aspetti limitato sia dal presidente della Repubblica, che, oltre a scioglierlo, come accadeva nel sistema statutario, può rinviare ad esso le leggi per una nuova deliberazione; sia dalla Corte costituzionale che può dichiarare costituzionalmente illegittime disposizioni legislative; sia infine dallo stesso governo, senza contare poi la possibilità, che la Costituzione prevede per il corpo elettorale, di ricorrere al referendum per abrogare talune leggi.
Il governo, in particolare, pur dovendo ottenere la fiducia del P., proprio in forza di questo ''contratto politico'' che lega i due organi, ogni qualvolta desidera imporre proprie proposte, specie in campo finanziario, condiziona in realtà il P. chiedendo la conferma del rapporto fiduciario ad Assemblee frammentate o riottose, e non in grado quindi di rovesciare il governo (e di esprimerne uno diverso), salvo votazioni contrarie su singole proposte che non obbligano, di per sé, l'esecutivo a dimettersi.
La teoria dell'''onnipotenza'' della legge ha trovato quindi numerosi limiti formali e sostanziali nel nuovo sistema: questo ha reso vano cercare criteri di sovraordinazione e sottordinazione e si è adottata una visione coordinata della relazione tra i due organi. A metà degli anni Settanta, tuttavia, si è aperto un dibattito sulla ''centralità'' del P., peraltro dopo una lunga querelle sulla decadenza del P. stesso. In questo caso si è trattato di un dibattito puramente politico e abbastanza ''datato'', sviluppatosi in una situazione in cui, da un lato, diveniva sempre più difficile alle forze politiche di centro-sinistra esprimere maggioranze efficienti e, dall'altro, l'impraticabilità di un'alternativa effettiva spingeva l'opposizione comunista a premere verso soluzioni di tipo ''consociativo'' sull'area di governo per poter influenzare il maggior numero possibile di decisioni. Ne derivava una concezione del P. come sede centrale e privilegiata per l'elaborazione delle principali scelte politiche, che il governo avrebbe poi dovuto sostanzialmente attuare. Quest'impostazione ha caratterizzato effettivamente una fase della nostra vita politico-parlamentare, quella in cui (1976-79) si è avuto il governo cosiddetto di ''solidarietà nazionale'', che contava nella maggioranza anche l'opposizione di sinistra. È stato in quel periodo che si è arrivati a teorizzare la ''centralità'' del P.: ma, come si è detto, si trattava di una teoria e di una centralità meramente politiche che non potevano condurre ad alterare la collocazione paritaria del P. rispetto ad altri organi costituzionali, in particolare il governo, al quale non si addiceva la condizione di comitato esecutivo del P.: si può anzi osservare che proprio dalla fine di quell'esperienza iniziava un trend che avrebbe progressivamente assegnato al governo un ruolo decisionale crescente, specie in materia finanziaria.
Rapporti tra Parlamento e governo. - Il P. non è organo in splendido isolamento o con coordinamento occasionale. Esso anzi si alimenta di uno stretto e reciproco nesso con il governo, che costituisce l'anello fondamentale del meccanismo di formazione dell'indirizzo politico-amministrativo, e ne innerva il circuito essenziale in un rapporto di spiccata sinergia reciproca, tanto che quando il P. è sciolto il governo è posto in una condizione decisionale depotenziata. Il governo, attraverso il P., riceve la legittimazione al proprio operato da parte del corpo elettorale di cui il P. è espressione sovrana: e il governo a sua volta costituisce il momento di congiunzione, di coordinamento e d'impulso nei confronti della pubblica amministrazione, senza il quale la funzione legislativa espressa dalle Camere non potrebbe tradursi in attività operativa.
Quest'anello del circuito si attiva con il voto di fiducia (art. 94 Cost.) e si disattiva con il voto di sfiducia o con le dimissioni del governo. In questo senso la fiducia va quindi letta, nel nostro ordinamento, come momento di espressione del consenso formatosi all'interno della maggioranza parlamentare attorno al programma del governo quando il presidente del Consiglio incaricato lo presenta alle Camere. Solo attraverso questo consenso, e quindi per il tramite della fiducia, il programma ottiene la legittimazione e può tradursi in indirizzo politico: in ciò consiste la forma di governo ''parlamentare'' in senso stretto, che modella la logica della nostra Costituzione.
Queste brevi considerazioni sui rapporti tra governo e P. − argomento delicatissimo e denso di implicazioni, sul quale si articola gran parte del funzionamento della Costituzione repubblicana − bastano da sole a far desumere quanto la tradizionale ripartizione dei poteri abbia lasciato il posto (una volta esaurita la sua originaria funzione di baluardo contro i regimi assolutistici, almeno per quanto riguarda i poteri legislativo ed esecutivo) all'intersecazione di ruoli e funzioni fra governo e P. che è tipica delle Costituzioni moderne. E ciò con oscillazioni di sistema che vanno da un criterio di stretta e totale integrazione tra la maggioranza e il ''suo'' governo, tale da farne un continuum, all'opposta deformazione che estende tale integrazione al confronto e al dialogo tra governo e opposizione, in confusa ''consociazione''.
Nel nostro ordinamento costituzionale, comunque, una volta conferita la fiducia al governo, il P. non si spoglia della sua funzione d'indirizzo, di ''legittimazione'' e di stimolo e controllo nei confronti del governo; di qui il senso di istituti parlamentari come la ''risoluzione'', la ''mozione'', l'''interpellanza'', l'''interrogazione''. Nella prassi il rapporto di controllo si risolve in un orientamento, ma ciò è pur sempre sufficiente a mantenere la continua influenza del P. sul governo, anche se talora alcuni congegni di controllo sono provocati dallo stesso governo per poter dire la sua, su taluni argomenti, nelle condizioni e nei modi da esso stesso scelti.
Accanto agli strumenti di controllo politico, a partire dagli anni Settanta sono sorti altri strumenti − che fanno capo all'attività e alle indagini di tipo conoscitivo − volti ad accentuare il rapporto del P. non solo con la pubblica amministrazione ma soprattutto con esponenti del mondo dell'economia e della società civile, al fine di fornire alle Camere ulteriori elementi di conoscenza sulla situazione e sulle tendenze di determinati ambienti e settori e sulle conseguenti esigenze d'intervento legislativo.
Il futuro del Parlamento repubblicano. - Come si è visto, il P. opera da contenitore della dialettica politica; e perciò attraversa fasi alterne, da quelle in cui tende ad assumere funzioni di forte innovazione con riforme legislative di importanti settori dell'organizzazione statale o d'interesse della società civile, a quelle di confusione e di deriva, sia intervenendo in modo frammentario sulla legislazione d'urgenza del governo, sia rinunziando sostanzialmente a esercitare un ruolo significativo. Nel 1993, sotto la spinta di un referendum popolare, si è proceduto a modificare il sistema elettorale, passando da quello proporzionale voluto per rappresentare tutte le componenti della società civile, al maggioritario uninominale, sia pure corretto dall'attribuzione di una quota di seggi con criteri proporzionali.
Bibl.: M. Mazziotti di Celso, Parlamento (principi generali), in Enc. del diritto, 31, Milano 1981, pp. 757 ss., ad vocem; G. Ciaurro, A.P. Tanda, M. Pacelli, Le Camere del Parlamento, Roma 1986; V. di Ciolo, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Milano 1987; P. Armaroli, Parlamento, in Enc. giuridica Treccani, 22, Roma 1990, ad vocem; A. Manzella, Il Parlamento, Bologna 1991; C. Chimenti, Un parlamentarismo agli sgoccioli, Torino 1992; S.Tosi, Diritto parlamentare, Milano 1993; M.L. Mazzoni Honorati, Lezioni di diritto parlamentare, Torino 1993.
Nuova normativa elettorale. - Innovando profondamente la prassi proporzionalistica seguita per quasi un cinquantennio per la scelta popolare dei rappresentanti al P. − prassi che il mancato raggiungimento da parte di un gruppo di partiti coalizzati del quorum richiesto dalla riforma elettorale del 1953 per l'assegnazione di un premio di maggioranza non aveva per nulla scalfito −, all'inizio degli anni Novanta il paese ha imposto alla classe politica una radicale trasformazione del sistema elettorale.
Fino a quel momento, infatti, scarse e non fortemente incidenti erano state le modifiche introdotte al sistema. Tra queste la più importante era apparsa la l. 8 marzo 1975, n. 39, che concedeva ai diciottenni, insieme alla maggiore età, il diritto di voto per l'elezione della Camera dei deputati, legge dettata dal clima particolare degli anni della contestazione giovanile seguiti al 1968. Da quel momento fino all'emanazione della l. 22 gennaio 1992, n. 33, che prescriveva come il calcolo del quorum del 65% per l'elezione maggioritaria automatica nei collegi elettorali per il Senato della Repubblica dovesse farsi non più sul numero dei votanti ma sui voti validi, nessuna novità di rilievo sul metodo di scelta della rappresentanza parlamentare era stata introdotta dal legislatore, espressione di una classe politica abituata a vedere nella proporzionale lo strumento a essa più idoneo e quello le cui regole, peraltro, meglio conosceva. Infatti nonostante le aspirazioni di larga parte del paese desideroso di modificare quelle regole, ritenute causa dello scarso ricambio della rappresentanza politica e fonte della lottizzazione partitica e del consociativismo, e malgrado l'impegno per un loro mutamento assunto in occasione della costituzione della Commissione per le riforme istituzionali presieduta da A. Bozzi, appariva difficile che i partiti potessero rinunciare alla proporzionale.
Nel biennio 1991-93 la pressione popolare per l'abolizione della proporzionale veniva a estrinsecarsi in una serie di iniziative referendarie modificative delle leggi vigenti in materia elettorale, formulate dal democristiano M. Segni e dal radicale M. Pannella. Tali iniziative tendevano all'introduzione di un sistema uninominale a un solo turno di elezione, sul modello inglese, anche se non mancavano coloro che avrebbero preferito quello a doppio turno, ossia col ballottaggio tra i due candidati più votati, sul modello francese, peraltro già sperimentato nel Piemonte sabaudo e nell'Italia liberale.
Col referendum del 9-10 giugno 1991 veniva abrogata la norma sulla preferenza multipla per la scelta dei candidati alla Camera dei deputati che aveva contraddistinto fino allora la proporzionale, riducendo a un solo candidato della lista il nominativo che l'elettore poteva indicare col suo voto. Ciò finiva col dare maggior credito alle tendenze uninominalistiche che trionfarono col successivo referendum del 18 aprile 1993, quando, in forma quasi plebiscitaria, fu abolito il quorum del 65% previsto per l'elezione del Senato, col risultato che l'attribuzione di 238 seggi senatoriali avrebbe dovuto per l'avvenire essere fatta a maggioranza, anche soltanto relativa, mentre gli altri 77 seggi sarebbero stati attribuiti nelle diverse regioni su base proporzionale.
Nell'estate del 1993 sull'onda della vittoria riportata con questo referendum dai fautori della modifica del sistema elettorale, il P. approvò le nuove normative per l'elezione sia del Senato della Repubblica in attuazione della volontà popolare, sia della Camera dei deputati le cui modalità elettorali di composizione dovevano nell'opinione comune essere armonizzate con quelle del Senato.
La l. 4 agosto 1993, n. 276, dava pertanto esecuzione al disposto referendario per il Senato contemperando il sistema uninominale a maggioranza semplice, previsto per i tre quarti dei collegi, con la ripartizione proporzionale dei seggi per l'altro quarto, previa tuttavia la sottrazione, dai voti riportati da ciascun gruppo di candidati collegati, dei suffragi ottenuti da quelli tra loro riusciti eletti nei diversi collegi (il cosiddetto ''scorporo''). Stabiliva inoltre il principio della ''coerenza territoriale'' di ciascun collegio, tenendo conto cioè delle sue caratteristiche storiche, culturali ed economiche, nonché della continuità territoriale, dando mandato a una commissione di esperti di disegnare su tali basi i collegi stessi.
La l. 4 agosto 1993, n. 277, pertanto, definiva il nuovo sistema elettorale per la Camera dei deputati sulla base di questi principi essenziali: a) il territorio nazionale è suddiviso in 26 circoscrizioni elettorali alle quali si aggiunge la Val d'Aosta; b) in ogni circoscrizione il numero dei collegi da eleggere è pari al 75% dei seggi da assegnare; c) si vota in un turno unico con due schede, l'una per il riparto maggioritario dei seggi, l'altra per quello proporzionale; d) nella scheda uninominale per il riparto maggioritario sono indicati, oltre al nominativo del candidato da eleggere, anche i simboli dei gruppi che lo sostengono; e) nei singoli collegi uninominali il candidato che ottiene più voti risulta eletto; f) nella scheda per l'assegnazione proporzionale del 25% dei seggi sono indicati i simboli dei gruppi e la lista dei nominativi da questi presentati; g) una volta attribuiti i seggi assegnati col voto maggioritario, l'Ufficio centrale circoscrizionale determina la cifra elettorale di ciascuna lista nel modo seguente: sommando i voti riportati nelle schede per il voto proporzionale, scorporandovi quelli ottenuti dai vincitori nei collegi uninominali, e dividendoli per i seggi da assegnare proporzionalmente; h) al riparto proporzionale partecipano soltanto i gruppi che hanno ottenuto almeno il 4% dei voti validi a livello nazionale; i) le liste per il riparto proporzionale debbono essere formate con successione alternata da candidati di sesso diverso.
Una quota di seggi doveva essere riservata agli Italiani residenti all'estero, ma la riforma che avrebbe dovuto portare alla costituzione di collegi in terra straniera per l'elezione di una quota di deputati e di senatori non è stata approvata e, pertanto, attualmente non è ammesso il voto ai cittadini residenti all'estero. È invece entrata in vigore la l. 10 dicembre 1993, n. 515, sulla disciplina delle campagne elettorali che fissa limiti alle spese dei candidati per le elezioni politiche, disciplina la materia dei sondaggi pre-elettorali e rende più trasparenti le fonti di finanziamento degli aspiranti al seggio parlamentare.
Altre norme, introdotte all'inizio del 1994, hanno fatto da corollario a quelle fondanti il nuovo sistema elettorale. Oltre al d.P.R. 5 gennaio 1994, n. 14, che approva il regolamento di attuazione della legge elettorale della Camera, va segnalato il D.L. 19 gennaio 1994, n. 42, convertito nella l. 28 gennaio 1994, n. 68, che, per la concomitanza della data fissata per elezioni con la Pasqua ebraica, ha prolungato di un giorno, e cioè al 28 marzo 1994, le operazioni elettorali, originariamente fissate al solo 27 marzo.
In base a questa normativa, dopo lo scioglimento delle Camere deciso dal presidente O.L. Scalfaro il 16 gennaio 1994, il paese è stato chiamato al voto per il rinnovo del Parlamento nei giorni del 27 e 28 marzo 1994 (v. anche partiti politici: Storia, in questa Appendice).
Bibl.: L. Tentoni, Gli strumenti per cambiare. Viaggio nei sistemi elettorali, Roma 1991; I referendum elettorali. Seminario di studio e documentazione, a cura di F. Lanchester, ivi 1992; F. Lanchester, L'innovazione istituzionale difficile: il dibattito sulla rappresentanza politica agli inizi della XI legislatura, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 42 (1992), pp. 910-45; F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti (1948-1992), Firenze 1993; Votare un solo candidato: le conseguenze politiche della preferenza unica, a cura di G. Pasquino, Bologna 1993; Le grandi leggi elettorali italiane (1848-1993), a cura di M. D'Addio, C. Ghisalberti, F. Lanchester, G. Negri, F. Perfetti, F. Sofia e L. Tentori, Roma 1994.