PARLAMENTO
. Diritto pubblico. - Nell'organizzazione dello stato libero moderno il parlamento è l'organo mediante il quale il popolo partecipa all'esercizio del potere statale.
Per questa sua caratteristica funzione di attuare la partecipazione del popolo al potere statale il parlamento è, fra tutti gli organi dello stato, l'organo rappresentativo. Ma conviene notare in quale senso il parlamento è l'organo rappresentativo. Vi è una rappresentanza che si dice di persona o di volontà: è un rapporto per il quale l'atto compiuto dal rappresentante si considera come atto del rappresentato. In questo senso il parlamento, organo dello stato, è rappresentante dello stato; gli atti del parlamento sono atti dello stato. Ma questa rappresentanza rispetto allo stato non è esclusiva del parlamento: gli atti di tutti gli organi esterni attivi dello stato, e non del solo parlamento, sono atti dello stato. V'è un'altra figura di rappresentanza, che si dice rappresentanza d'interessi e si ha quando un soggetto agisce in nome proprio per curare gl'interessi d'un altro soggetto. Anche in questo senso il parlamento è rappresentante, in quanto gli atti del parlamento, cioè dello stato, sono posti per l'interesse del popolo, per la cui vita e il cui benessere lo stato esiste ed è attivo. Ma anche altri organi dello stato agiscono per curare gl'interessi sociali della collettività; quindi anche altri organi, e non il solo parlamento, hanno rappresentanza d'interessi. Ma vi è ancora un'altra figura di rappresentanza, che si suole chiamare rappresentanza politica, con una denominazione, però, la quale non esprime la particolare natura di essa. Un soggetto, impedito di esplicare una data attività, incarica altri, che egli opportunamente sceglie, di esplicarla in vece sua. Con la libera scelta di chi deve agire al suo posto, il soggetto, impedito, fa sua l'attività spiegata dall'altro, della quale diventa anch'egli, per conseguenza, responsabile. Allora chi agisce al posto d'un altro si dice che agisce in rappresentanza di questo: è rappresentanza di funzioni o di attività. È questo il carattere della cosiddetta rappresentanza politica, ed è in questo senso che il parlamento, e solo il parlamento tra gli organi dello stato, è organo rappresentativo.
Lo stato moderno, infatti, chiama il popolo all'esercizio del potere sovrano. Il potere non può essere direttamente esercitato dal popolo; in vece e in rappresentanza di questo partecipa all'esercizio del potere statale un limitato numero di persone scelte dal popolo stesso, le quali costituiscono l'organo statale che è il parlamento.
Il nome di parlamento a partire dal sec. XV venne usato in Inghilterra per designare congiuntamente la Camera dei lord e quella dei comuni. Invece in Francia venivano designate con questo nome le corti di giustizia. La più antica di queste era il parlamento di Parigi, il quale, avendo diritto di registrare gli editti del re, pretendeva di esercitare anche funzioni politiche appoggiandosi all'esempio e all'identità del nome del parlamento inglese. I parlamenti in Francia (corti di giustizia) disparvero nel 1790, e nel sec. XIX e nel XX, tanto in Inghilterra quanto sul continente, la voce parlamento è il termine comune per indicare le assemblee politiche dello stato libero moderno. Anche nello stato assoluto esistettero assemblee politiche sotto altri nomi: stati generali, diete, e viene, si può dire, spontaneo di vedere nel parlamento dello stato moderno una derivazione storica da queste assemblee dello stato assoluto. Ma, tranne che in Inghilterra, nessuna continuità storica lega le assemblee dello stato assoluto a quelle dello stato moderno. Fra esse esiste solo una somiglianza esteriore, mentre sono di natura profondamenbe diversa, come diversi profondamente sono i principî in base ai quali si organizzava lo stato assoluto e si organizza lo stato libero moderno. Nello stato assoluto la sovranità risiedeva nel principe. Le assemblee, stati generali o diete, raccoglievano i rappresentanti dei diversi ordini o ceti per tutelare di fronte al sovrano e agli altri i privilegi del proprio ordine e per temperare il potere assoluto nell'interesse del proprio gruppo privilegiato secondo le istruzioni ricevute, alle quali i rappresentanti inviati alle assemblee erano vincolati e dell'osservanza delle quali dovevano poi rendere conto.
Varî sono i sistemi esperimentati o proposti nei diversi paesi e nei diversi tempi per l'elezione dei membri del parlamento. I pregi e i difetti d'un sistema elettorale debbono essere valutati anche dal punto di vista dell'efficacia, cne esso ha, di formare un parlamento che esprima il più fedelmente possibile la volontà popolare.
Le funzioni proprie del parlamento nello stato moderno sono la funzione legislativa e la funzione di controllo politico del governo. Lo stato moderno è organizzato in base al principio, cosiddetto, della divisione dei poteri. Al parlamento non può evidentemente essere attribuita la funzione esecutiva o governativa: un organo collegiale, come il parlamento, non può esercitare che un controllo rispetto alla funzione direttiva dello stato. Ma per il suo stesso carattere d'organo rappresentativo del popolo il parlamento è l'organo proprio della funzione legislativa, perché la legge nello stato moderno è considerata come imperativo della volontà collettiva: la legge è la volontà generale, secondo l'espressione di Rousseau. Per questo al parlamento nello stato moderno è attribuita la funzione legislativa e la funzione di controllo politico.
Nella maggior parte degli stati il parlamento non è formato da un'unica assemblea o camera, ma da due camere. In Europa hanno un'unica camera elettiva l'Albania, la Bulgaria, l'Estonia, la Finlandia, la Lettoma, la Lituania, il Lussemburgo e i due principati di Lichtenstein e di Monaco. Anche la Turchia e la Spagna repubblicana hanno un parlamento unicamerale. In Germania, dopo la legge 14 febbraio 1934 che abolisce il Reichsrat, il parlamento è costituito da un'unica camera. In tutti gli altri stati vige il sistema bicamerale, il quale è un'imitazione del sistema vigente in Inghilterra, dove l'esistenza di due camere è il risultato di particolari vicende storiche. In Inghilterra il parlamento non nacque come organo rappresentativo del popolo né come corpo legislativo e di controllo politico. I re inglesi ricorrevano al metodo di convocare i baroni maggiori per sollecitare e ottenere aiuti e sussidî per i bisogni del regno. In seguito, per le aumentate necessità, le convocazioni furono estese anche ai baroni minori e poi anche alle comunità degli uomini liberi, quando la ricchezza mobile aveva acquistato importanza accanto a quella fondiaria. E poiché gli uomini liberi non potevano tutti partecipare alle assise convocate dal re, si dovette farveli intervenire per mezzo di rappresentanti. Così nacquero le prime assemblee: nacquero, come disse il Balbo, "quali macchine da batter moneta". Mentre da queste assemblee, sotto l'influenza di nuove condizioni politiche ed economiche, andava formandosi il parlamento rappresentativo e legislativo, i varî elementi di questo si polarizzarono per affinità spontanee intorno a due gruppi distinti: gli elementi non elettivi in un gruppo e gli elementi elettivi in un secondo gruppo. Così il parlamento inglese risultò di due camere: la Camera dei lord o Camera alta e la Camera dei comuni o Camera bassa. Gli elementi elettivi essendo raccolti nella Camera bassa, questa è considerata come l'organo rappresentativo del popolo.
Il sistema bicamerale venne introdotto negli altri stati per ragioni d'ordine diverso. Negli stati federali il sistema bicamerale serve a porre nel parlamento federale, insieme con la rappresentanza del popolo, la rappresentanza degli stati membri della federazione. Negli stati unitarî i motivi dell'istituzione d'una camera alta sono i più varî, ma il motivo fondamentale e comune è quello di costituire un contrappeso all'influenza politica, che può facilmente diventare soverchia, della camera popolare. È un principio di equilibrio politico che predomina.
Solo l'Inghilterra, per i motivi storici indicati, forma la Camera alta in base all'ereditarietà; gli altri stati ricorrono a diversi sistemi di nomina. Quando non è formata col sistema della nomina da parte del capo dello stato (come, p. es., in Italia), è formata col sistema dell'elezione da parte di collegi elettorali composti, però, in modo diverso che i collegi elettorali dai quali deriva la camera popolare. Anche quando deriva da elezioni, la camera alta non è mai considerata come organo rappresentativo della volontà popolare, alla pari dell'altra. Per questo, sebbene la denominazione di parlamento indichi il complesso delle due camere, si attribuisce il nome di parlamento anche alla sola camera popolare.
L'elezione dei membri del parlamento, avendo per scopo di formare l'organo rappresentativo del popolo, deve avvenire a intervalli non troppo lunghi, perché dato il continuo sviluppo delle vicende politiche e le variazioni che si possono determinare nel sentimento pubblico, un parlamento, decorso un troppo ampio intervallo dalla elezione, non potrebbe più essere ritenuto un genuino rappresentante della volontà popolare. Il periodo che decorre tra un'elezione generale e l'altra si chiama in Italia e in Francia "una legislatura"; in Inghilterra "un parlamento". La durata ordinaria della legislatura in Italia e nella maggior parte degli stati è di cinque anni. In Francia è di quattro anni. In Inghilterra la durata d'un parlamento venne estesa da tre anni, com'era prima, a sette con una legge del 1716 e fu ridotta a cinque anni col Parliament Act del 1911. Anche durante la legislatura può avvenire, specialmente in caso di conflitto tra parlamento e governo o tra le due camere, che la camera bassa non si possa più ritenere l'espressione fedele del sentimento popolare. Può essere necessario, allora, provocare una elezione generale per interrogare direttamente il popolo. A questo scopo è attribuito al capo dello stato il potere di sciogliere la camera elettiva e d'indire le elezioni generali, anche prima che sia spirato il termine stabilito per la durata ordinaria della legislatura. Il diritto di sciogliere la camera è sottoposto a un limite, che è l'obbligo di convocare un'altra camera entro un dato termine. Nello statuto italiano il termine di quattro mesi; in Francia e nel Belgio di due mesi. In Francia v'è anche il limite che la camera non può essere sciolta se non su parere conforme del senato.
Il parlamento costituisce come il centro dell'attività politica nell'ordinamento statale moderno. Corrispondentemente a questa posizione e importanza dell'organo tutte le moderne costituzioni stabiliscono prerogative e immunità per i membri del parlamento. Alcune di queste sono stabilite allo scopo di garantire a essi la piena libertà nell'esercizio delle loro funzioni, così che da nessun riguardo per interessi privati possarro essere distolti dal curare innanzi tutto il bene pubblico. Quindi i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere né giudiziariamente né disciplinarmente per ragione delle opinioni emesse e dei voti dati "nell'esercizio delle funzioni", come si esprime la costituzione belga, in un modo più preciso e più completo che non l'art. 51 dello statuto italiano. Le altre immunità consistono in esenzioni e trattamenti speciali stabiliti a imitazione degli ordinamenti inglesi, dove, però, nacquero per motivi che attualmente non hanno più valore. Queste immunità furono concesse a poco a poco in Inghilterra per garantire i membri del parlamento da molestie e ingerenze del capo dello stato, esercitate per impedire o stroncare controlli e opposizioni da parte dei rappresentanti del popolo. Cessata la ragione che ha dato origine a queste immunità, non si può negare che si conservino nelle moderne costituzioni per un certo spirito di privilegio.
In tutte le costituzioni al parlamento è attribuita la funzione legislativa; ma in alcune il parlamento è l'unico organo legislativo, in altre il parlamento esplica la funzione legislativa congiuntamente col capo dello stato. In Italia la legge è atto complesso formato dall'incontro delle volontà dei tre organi - le due camere e il re - sul medesimo oggetto. L'atto di approvazione del re è detto sanzione. Anche in Inghilterra la legge è formata dal concorso dell'approvazione del parlamento e della sanzione del re. Per questo suo intervento nell'esercizio della funzione legislativa si dice che il re è caput, principium et finis parliamenti. Questo sistema di formazione delle leggi è seguito, tra gli altri stati, dal Belgio, dall'Olanda, dalla Svezia, dalla Norvegia, dalla Romania, dalla Iugoslavia. Secondo altre costituzioni l'approvazione delle leggi è funzione esclusiva del parlamento; così, p. es., in Francia, in Spagna, in Cecoslovacchia, negli Stati Uniti d'America. In questi paesi, però, se il capo dello stato non concorre con il parlamento alla formazione della legge, il suo intervento non è nemmeno limitato alla sola promulgazione della legge approvata dalle camere. In Francia e in Cecoslovacchia il capo dello stato può rinviare la legge al parlamento per una seconda deliberazione. Negli Stati Uniti il presidente, entro dieci giorni dall'approvazione data dal Congresso, può rimandare con osservazioni il bill approvato alla camera che lo ha promosso.
Se il parlamento è bicamerale, le due camere prendono parte in modo eguale all'approvazione della legge. L'approvazione di una legge può essere iniziata indifferentemente nell'una o nell'altra camera, salvo che si tratti di progetti d'imposizione di tributi e di approvazione di bilanci e dei conti dello stato, i quali - per un principio derivato in tutte, si può dire, le costituzioni dal diritto parlamentare inglese - devono essere presentati prima alla camera elettiva, perché questa è propriamente l'organo rappresentativo del popolo. Nell'approvazione d'un progetto di legge può sorgere conflitto fra le due camere. Alcune costituzioni dispongono circa i mezzi per risolverlo, i quali consistono generalmente in una particolare procedura di votazione, che tende a dare prevalenza al voto della camera elettiva, siccome quella che esprime la volontà del popolo. Così, p. es., in Cecoslovacchia il progetto respinto dalla Camera alta diventa egualmente legge, se la Camera bassa lo conferma a maggioranza assoluta di voti. In Inghilterra il Parliament Act del 1911, quando sorge conflitto tra i Comuni e i Lord riguardo all'approvazione d'una legge, dà valore risolutivo alla decisione della Camera dei comuni. Quando si dice che il parlamento nello stato moderno è l'organo proprio della funzione legislativa, non s'intende dire che sia l'unica fonte delle norme giuridiche. In tutti gli ordinamenti statali moderni è previsto, insieme col potere legislativo del parlamento, un più o meno ampio potere regolamentare del governo e anche di altri corpi o autorità amministrative. In alcuni stati (p. es., nella Svizzera), oltre il parlamento anche il popolo esercita direttamente il potere legislativo per via di referendum.
Il parlamento esercita anche una funzione politica di controllo sul governo. Mediante questo controllo politico esercitato dall'organo che lo rappresenta si dice che il popolo indirettamente controlla l'attività direttiva dello stato; e si comprende che l'importanza e l'efficacia del controllo è in ragione diretta dell'influenza che nell'ordinamento statale si attribuisce alla volontà del popolo espressa dal corpo elettorale. Dall'esercizio di questo controllo politico, dalla estensione e dall'intensità di esso prendono forma i rapporti fra parlamento e governo. Nella forma di governo costituzionale le direttive politiche dello stato sono poste discrezionalmente dal governo stesso. Il parlamento controlla, ma il controllo non ha efficacia se non nei limiti in cui il governo, per principio di saggia politica, ritenga di tenere conto della manifestazione della volomà popolare. Il controllo non diminuisce né tanto meno sottrae al governo l'iniziativa della direzione degli affari dello stato. Il controllo, per l'influenza crescente del parlamento di fronte al governo, può tuttavia intensificarsi fino a diventare un controllo di approvazione della politica governativa. L'approvazione non può naturalmente riguardare i singoli atti governativi, ma l'indirizzo politico che il governo intende seguire, ed è data nella forma di manifestazione di fiducia nel governo. Il governo, in quanto è composto di fiduciarî del parlamento, esprime la volontà di questo e indirettamente la volontà del popolo. Il governo non è più allora costituzionale puro, ma parlamentare; il parlamento controlla esprimendo fiducia o sfiducia e da questa dipende la vita o la caduta del governo.
L'influenza del parlamento sul governo è andata anche al di là di questo controllo di approvazione, nel quale si concreta la forma di governo parlamentare: il parlamento è riuscito ad esercitare sul governo non solo il suo controllo, ma, si può dire, la sua direzione. A questo punto il parlamento ha assunto una funzione, per la quale l'esperienza insegna che non è adatto. Il corpo dei rappresentanti del popolo può opportunamente esercitare la funzione legislativa e la funzione politica di controllo fino a far dipendere dalla concessione della sua fiducia la vita del governo; ma non può assumere - per la sua stessa natura di organo collegiale costituito da numerosi membri e agitato dalle più diverse correnti d'idee - la direzione dell'attività statale, anche se questa direzione politica debba sempre manifestarsi nelle forme di un'attività di semplice controllo.
Come reazione a questo effettivo potere di direzione che il parlamento in alcuni paesi ha indebitamente assunto sul governo, si nota negli stati moderni la tendenza a modificare i rapporti fra parlamento e governo nel senso di limitare l'influenza del parlamento sul potere esecutivo e di dare a questo maggiore forza e autorità nella direzione degli affari pubblici. Anche per quanto riguarda la funzione legislativa, che è la funzione propria del parlamento, si tende, per motivi di competenza tecnica e di alleggerimento dei lavori parlamentari, a estendere in certe materie il potere regolamentare del governo e di altri corpi o consigli amministrativi. Una tendenza opposta, ma anch'essa restrittiva della funzione esclusiva del parlamento di fare le leggi, è quella di chiamare a legiferare direttamente il popolo mediante referendum.
Interrogazione e interpellanza parlamentare. - Come tutto ciò che si riferisce ai rapporti tra i poteri pubblici, il diritto d'interrogazione e d'interpellanza è d'indole delicata e soggetto alle fluttuazioni del momento politico. Fondamentale esplicazione di uno degli aspetti del potere ispettivo delle assemblee, assume importanza più o meno grande a seconda che le funzioni di queste, e quelle del governo rimangano nei rispettivi limiti oppure ne esorbitino con reciproche interferenze.
Se molti regolamenti stranieri non contemplano che il diritto d'interpellanza, giustamente i regolamenti di entrambe le camere italiane fanno netta distinzione fra interrogazione e interpellanza per tentare di moderare l'intromissione delle assemblee nella competenza esecutiva. Le interrogazioni sono ristrette a una semplice domanda se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al governo o sia esatta, se il governo intenda comunicare alla camera documenti che al deputato occorrano o abbia preso o sia per prendere alcuna risoluzione su oggetti determinati. L'interpellanza è invece esattamente definita una domanda circa i motivi o gl'intendimenti della condotta del governo. Assume quindi esplicito aspetto d'indagine del valore d'un atto di governo considerato in tutta l'esplicazione della sua linea politica; e si diversifica completamente dalla interrogazione, per la quale è data la parola prima al governo e poi all'interrogante, mentre in questo caso spetta prima all'interpellante di esporre le ragioni dei suoi dubbî o delle sue doglianze, alle quali il governo risponde successivamente. L'ampiezza consentita allo svolgimento rende pnferibile la disposizione del Senato che permette a tutti i senatori d'intervenire nella discussione, mentre alla Camera il dibattito è ristretto al solo interpellante e al governo. Come conseguenza di questa diversa procedura, se i senatori possono presentare a conclusione delle interpellanze ordini del giorno da discutersi e votarsi anche immediatamente, il regolamento della Camera si limita a riconoscere il diritto di presentare una mozione (v. sotto), da discutersi separatamente, sia all'interpellante, sia a ogni altro deputato, nel caso in cui il primo dichiari di non presentarla. Ciò non ha mai impedito che quando si è voluto impegnare un voto in guisa da prendere quasi di sorpresa il governo, questo sia avvenuto, non sul merito della mozione, il che non è permesso, ma sulla fissazione del giorno della discussione.
Il regolamento della Camera agli articoli 93-103 del nuovo testo del 1° maggio 1929, modificato il 19 dicembre 1929 e il 12 dicembre 1930, ordina la procedura delle interpellanze, le quali devono essere presentate per scritto senza motivazione e, dopo lette dal presidente, sono pubblicate nel resoconto sommario della tornata in cui furono annunziate e trascritte nell'ordine del giorno dalla tornata successiva in poi fino a esaurimento. La grande quantità delle interrogazioni presentate e la eccessiva loro lunghezza, hanno consigliato di rinunciare di recente a quest'ultima prescrizione. Nei primi 40 minuti di ogni seduta (30 minuti al Senato, secondo il regolamento del 12 dicembre 1929, modificato il 29 marzo e ìl 10 giugno 1933) ad esse riservati, il governo risponde alle interrogazioni nell'ordine della loro presentazione, avendo però facoltà di dichiarare di non poter dare o di dover differire la risposta. La replica dell'interrogante è limitata a cinque minuti. Nessun deputato può nella stessa seduta svolgere più di due interrogazioni (al Senato una). È riconosciuta al governo la facoltà di rispondere anticipatamente a quelle interrogazioni di cui si dichiari l'urgenza al momento della presentazione. Per diminuire il peso, che nei lavori parlamentari rappresentavano le interrogazioni, si è introdotta il 13 ottobre 1910 una disposizione che elimina da ogni discussione pubblica le interrogazioni delle quali sia chiesta la risposta scritta: ad esse il governo deve dare risposta nei sei giorni dalla presentazione. È ammesso esplicitamente che esse possano presentarsi anche durante le vacanze parlamentari.
Si è già rilevata la diversità di alcune caratteristiche circa il modo con cui Camera e Senato regolano il diritto d'interpellanza. Il Senato, all'atto della presentazione, udito il governo e gl'interpellanti, determina per alzata e seduta la data della discussione, che può avvenire in qualunque giorno. Il regolamento della Camera riconosce esplicitamente al governo la facoltà di dichiarare entro tre giorni dalla presentazione che non intende rispondere o che intende rinviarne lo svolgimento, e nell'interpellante il diritto di appellarsene alla Camera. Il lunedì d'ogni settimana è ordinariamente riservato alle interpellanze, salvo continuare in questo giorno l'ordine del giorno consueto se non vi sia domanda di svolgimento d'interpellanza. L'interpellante ha diritto di parlare due volte, prima per svolgere i motivi dell'interpellanza e poi per dichiarare, dopo la risposta del governo, se sia o no soddisfatto. In caso negativo può presentare una mozione (v. sotto), la cui discussione sarà fatta a parte; e nel caso in cui dichiari di non presentarla, essa può essere presentata, come già si è detto, da qualsiasi altro deputato; ma anche sulla fissazione del giorno della discussione della suddetta mozione può intervenire il voto della camera. È da ricordare che la crisi del 18 marzo 1876, che portò la sinistra al potere, fu determinata dal voto sulla proposta di differire la discussione della mozione Morana sin quando non fosse stato esaminato il disegno di legge sulle convenzioni ferroviarie.
Tutte le prescrizioni su indicate hanno sempre ammesso eccezioni quando la camera sia concorde a derogarvi.
Mozione parlamentare. - La discussione dell'interpellanza, che non abbia lasciato soddisfatto l'interpellante, può chiudersi con una mozione la quale concreti il pensiero della Camera sull'argomento. Ma la presentazione d'una mozione può avvenire anche indipendentemente dalla procedura dell'interpellanza. Per assicurare la serietà, ne è data lettura alla Camera soltanto quando tre uffici l'abbiano autorizzata o essa raccolga un certo numero di firme: dieci alla Camera, otto al Senato.
La mozione viene svolta nel giorno stabilito dall'assemblea e su questa determinazione può anche farsi un voto politico. La discussione è regolata dalle stesse disposizioni vigenti per il dibattito dei disegni di legge, con la sola eccezione che la mozione non può essere ritirata se dieci o più deputati o senatori vi si oppongano, essendo interesse politico e tecnico che, una volta posta una questione, si sappia su di essa il pensiero dell'assemblea. La discussione può essere anche complessiva su più mozioni o interpellanze relative a fatti identici o strettamente connessi; in tal caso le mozioni hanno la precedenza sulle interpellanze, ma gl'interpellanti possono rinunciare alle loro interpellanze e in questo caso sono iscritti sulla mozione in discussione, subito dopo i proponenti di essa e delle mozioni per lo stesso motivo eventualmente ritirate.
Il concetto dominante delle disposizioni regolamentari essendo quello che l'assemblea deve pronunciarsi, consegue che gli ordini del giorno, o non sono addirittura consentiti come al Senato, o non hanno la precedenza sulla mozione, come alla Camera. Consegue pure che, contrariamente alla discussione dei disegni di legge, gli emendamenti sono votati dopo la mozione, la quale viene messa ai voti partitamente a seconda degli emendamenti, dando all'inciso della mozione la precedenza sull'emendamento sostitutivo; soltanto l'emendamento aggiuntivo viene votato prima.
La mozione è un metodo escogitato per ottenere l'indicazione d'un indirizzo politico o tecnico, e quindi può precedere o determinare la presentazione di speciali provvedimenti legislativi; ma, essendo intesa a incitare l'attività inerte o incerta del governo, assume facilmente l'aspetto d'una larvata o implicita censura alla condotta generale del governo o particolare d'un ministro.
Ostruzionismo parlamentare. - Soltanto nei tempi recenti l'ostruzionismo ha assunto un valore ristretto al campo parlamentare, nel senso di ostacolo temporaneo o definitivo all'azione di un'assemblea. Per quanto concepito come suprema arma di difesa della minoranza, può costituire soltanto una trincea che la maggioranza ha diritto di abbattere. Legittimo, quando si limita a costringere la maggioranza a soprassedere e a riconoscere nuovi elementi di diritto o di fatto insufficientemente considerati, si convertirebbe in una sopraffazione a rovescio quando volesse contestare alla maggioranza il diritto, che le compete, di deliberare sotto quelle garanzie che íl patto statutario abbia codificato.
Due casi tipici di ostruzionismo offre l'assemblea elettiva italiana (il Senato, anche nel suo periodo più combattivo, quello della legge per l'abolizione del macinato, si è sempre astenuto dal ricorrere a questo metodo): il primo, sui provvedimenti di stampa e di pubblica sicurezza, presentati dal ministero Pelloux il 4 febbraio 1899, ritenuti dall'opposizione lesivi degli articoli 28 e 32 dello statuto; l'altro sui provvedimenti tributarî presentati dal ministero Salandra nel 1914. Entrambi questi precedenti, pur in diversa misura, dimostrano dal lato formale che l'ostruzionismo può esplicarsi con i molti e lunghi discorsi, con i numerosi emendamenti e con l'infinità di appelli nominali per tentare di soffocare la volontà della maggioranza con la pressione morale, con la stanchezza e talora anche con la violenza materiale.
I provvedimenti politici del Pelloux cominciarono a sollevare l'opposizione ostruzionistica alla 2ª lettura del giugno 1899. Con proposta analoga alle disposizioni adottate in Inghilterra il 18 marzo 1877 e il 15 marzo 1888, e più ancora alla "ghigliottina" fatta votare nel 1893 da Gladstone per l'Home Rule, l'on. Sonnino cercò schiacciare l'ostruzionismo col dare facoltà al presidente, quando la discussione si fosse prolungata in modo da turbare il corso regolare dei lavori, di proporre alla Camera la determinazione del giorno e dell'ora in cui si sarebbe proceduto senz'altro alla votazione. L'ostruzionismo si trasferì allora sulle nuove disposizioni regolamentari, dando luogo alla proroga delle sedute, alla promulgazione del decreto-legge che applicava le disposizioni del disegno di legge, al rovesciamento delle urne di votazione, alla successiva chiusura della sessione e ai gravissimi conflitti col presidente della Camera, Colombo, il quale il 3 aprile 1900 aveva dichiarato approvate le nuove disposizioni, e infine allo scioglimento della Camera. Non essendo riuscite le elezioni favorevoli al Pelloux, questi si dimetteva e, sotto il ministero Saracco succedutogli, si approvavano le disposizioni regolamentari proposte da una commissione concorde nella quale erano rappresentati tutti i partiti. Dei provvedimenti politici non si parlò più.
Sui provvedimenti tributarî proposti dal Salandra s'iniziarono il giugno 1914 propositi ostruzionistici che, protratti per tutto il mese, terminarono con la vittoria del ministero, il quale ricevette la facoltà di applicare per un anno le tasse indicate nel disegno di legge. Dimostratesi successivamente ancora insufficienti contro un'opposizione faziosa le disposizioni del 10 luglio 1900, la Camera approvò il 2 giugno 1925 la proposta Grandi, ispirata al concetto dell'antica proposta Sonnino, per dare facoltà al governo o a 30 deputati, quando la discussione fosse stata con evidente artificio protratta oltre 5 sedute, di chiedere la fissazione della data a distanza non minore di 10 giorni, in cui il disegno di legge sarebbe stato votato nello stato in cui si trovava. La disposizione è inserita nel regolomento della Camera (testo unico 10 maggio 1929) all'art. 68.
Ricordati dal lato puramente storico questi precedenti, è certo che un'assemblea totalitaria, in cui non esiste ripartizione politica, non ha bisogno di disposizioni repressive, le quali sono efficientemente sostituite dall'autorità della comune disciplina.
Indennità parlamentare. - Lungo e tenace fu nella scienza e in parlamento il dibattito sull'opportunità d'una retribuzione dell'opera parlamentare. I contrarî s'ispiravano al pericolo che ne venisse depresso il prestigio del parlamento, alla diminuita indipendenza dal potere esecutivo, all'aumento conseguente delle spese elettorali, all'asservimento dei deputati appartenenti a gruppi organizzati che loro impongano forti ritenute a vantaggio della cassa del partito, così rinforzato in confronto di quelli non organizzati. Rispondevano i fautori che con la retribuzione viene aumentato il campo di scelta dei legislatori, diventano eleggibili i più scrupolosi e più onesti, si garantisce indipendenza dagli elettori e dal potere esecutivo per la sicurezza degli eletti di poter bastare a sé stessi, infine si assicura un'assemblea meglio rispecchiante la fisionomia del paese rendendo possibile l'entrata di maggior numero di deputati appartenenti alle classi sfornite di fortuna personale.
Questi ultimi sono suffragati dall'esempio dei molti altri paesi, dove alla funzione legislativa è assegnata in più o meno larga misura un'indennità, tanto che i più resistenti fra i grandi stati, la Germania e l'Inghilterra, finirono con arrendervisi, la prima con la legge 21 maggio 1906, la seconda con quella dell'agosto 1911.
Sino dai primi tempi del parlamento subalpino cominciarono le proposte per stabilire un'indennità, che furono nel parlamento italiano subito riprodotte dal Crispi e da lui più volte ripetute, come in seguito da molti altri parlamentari che ne svolsero le ragioni di sostanza e di opportunità, superando l'obiezione risultante dall'art. 50 dello statuto che vieta la retribuzione o l'indennità per le funzioni di deputato e di senatore. A questa fu ovviato con la formula della legge elettorale del 1913, la quale all'art. 112 concedeva ai deputati, che non avessero altro stipendio o assegno dello stato, oltre al rimborso di spese di lire 2000 annue per corrispondenza, quello di L. 4000 per altri titoli. A essa segue il regolamento speciale approvato dal comitato segreto del 10 giugno 1913. D'altronde, in questo caso come in altri, fu applicata la massima che riserva l'intangibilità dello statuto alle sue disposizioni fondamentali.
La misura dell'indennità stabilita dalla legge del 1913 fu presto trovata troppo esigua e rimase anche incerto se dovesse preferirsi l'indennità fissa o il gettone di presenza: questo, più conciliabile con la formula dello statuto e più rispondente a un effettivo rimborso di spesa, ma implicante un assiduo concorso alle sedute sovente perturbatore della rapidità delle deliberazioni; quella, più dignitosa perché evita i metodi poco simpatici per l'accertamento della presenza e più comprensiva delle spese che si incontrano, anche all'infuori dei giorni di seduta, nell'esplicazione del mandato parlamentare, ma meno facilmente estensibile ai senatori per i quali diventa un assegno vitalizio.
Molte furono quindi le proposte che, sotto una o altra forma, seguirono alla legge del 1913 per un aumento dell'indennítà, anche in corrispondenza dell'aumento generale degli stipendî e salarî: ma trovarono sempre resistenza nell'assemblea o nel governo. Finalmente la legge 5 aprile 1920, n. 395, inserita nella legge elettorale politica del 13 dicembre 1923, n. 2694, provvide a elevarla a lire 15.000, senza distinzione di titoli di rimborso e senza eccezione per coloro che per altra ragione ricevessero stipendio o assegno dallo stato. Vi si aggiunse la facoltà nel Senato di assegnare ai suoi membri un'indennità di presenza per ciascuna delle sedute alle quali intervengano. In applicazione di questa delega legislativa il Senato determinò l'indennità in lire 100 per seduta, soggette alla tassa di ricchezza mobile, in modo da non superare complessivamente le lire 10 mila annue.
Ma, poiché, aperta una maglia, tutta la resistenza cede, nella XXVI legislatura si tentò ancora alla Camera d'elevare l'indennità con una proposta di Filippo Turati, che congiungeva insieme la forma dell'indennità fissa di lire 1000 mensili con quella del gettone di presenza di L. 50 per seduta. Ne sorsero relazioni di maggioranza e minoranza, ma non si venne a nessuna deliberazione. Il Senato, con propria disposizione regolamentare, essenzialmente per ovviare alla difficoltà dell'accertamento della presenza, stabilì la cifra fissa di lire 10 mila, da cui si dovevano detrarre lire 100 per ogni seduta, nella quale venisse constatata l'assenza del senatore dalla votazione nominale o a scrutinio segreto oppure dalle sedute degli uffici.
Nel 1925, con disposizione semplificatrice proposta dal capo del governo, l'indennità fu determinata in lire 15.000 per ciascun deputato o senatore.
Come ciascuna delle assemblee ha provveduto col proprio bilancio interno ad assegnare al proprio presidente un'indennità di carica (L. 25.000 fino alla XXVII legislatura; L. 125.000 dalla XXVIII in poi), l'indennità dei deputati veniva poi portata nel 1929 a lire 24000 da una deliberazione interna della Camera, e parimenti la stessa misura, con disposizione interna del Senato del medesimo anno, era estesa anche all'indennità dei senatori per mantenere la parità di trattamento adottata dalla legge del 1925. L'indennità veniva poi, con analoghe disposizioni interne delle due camere, ridotta del 12% una prima volta nel 1930 e una seconda volta nel 1934, in conformità ad analogo provvedimento generale adottato per le retribuzioni a carico dello stato.
Sulla proposta incidentale fatta dall'on. F. D'Alessio riferendo sul disegno di legge Mussolini, che questa indennità rimanesse esente dalla imposta di ricchezza mobile che grava su qualsiasi assegno, indennità o rimborso, non fu mai adottata nessuna deliberazione legislativa.
Bibl.: V. E. Orlando, Teoria giuridica delle guarentigie della libertà, in Biblioteca di scienze politiche e amministrative del Brunialti, V; F. Racioppi e I. Brunelli, Commento allo statuto del regno, Torino 1909; L. Duguit, Traité de droit constitutionnel, Parigi 1921-1925, II, p. 542 segg.; G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925; H. Kelsen, Allgemeine Staatslehre, Berlino 1925, pp. 310 segg., 343 segg.; H. Finer, The theory and practice of modern Government, Londra 1932, V, p. 633 segg.; A. Lawrence Lowell, Il governo inglese, in Bibl. di scienze pol. e amm. del Brunialti, VI, pp. 402 segg., 621 segg.; A. Giannini, Tendenze costituzionali, Bologna 1933.
Storia del parlamento.
Il parlamento comunale (arengum, concio). - Il termine parlamentum si trova usato nell'ultima parte dell'alto Medioevo come riunione di persone che trattano pubblici affari. In tal senso si dice parliamentum o parlamentum l'assemblea dei baroni laici ed ecclesiastici raccolta dai re normanni di Sicilia e Inghilterra; nello stesso modo parlamentum o parlascium è la riunione dei cittadini delle città medievali italiane, adunati per discutere questioni politiche o amministrative. Quanto alle riunioni dei baroni e delle città, vedi sotto: Parlamenti generali e provinciali; quanto al parlamento cittadino, detto anche nell'Italia settentrionale arengo (forse da ad ringum, cioè riunione fatta nell'anfiteatro, dal tedesco ring = circulum) esso indubbiamente precede le autonomie comunali. Da molte attestazioni derivanti dal periodo fra il sec. IX e l'XI si desume che il termine comune, che poi designerà il governo autonomo della città, ha, nella sua accezione altomedievale, il significato di assemblea e s'identifica con parlamentum, parlascium, concio, o arengum. Si tratta dell'adunanza plenaria dei cives, che vediamo riuniti a Verona nel sec. VIII per una lite insorta col vescovo circa l'obbligo di riattare le mura della città, a Milano nel sec. IX per decidere circa la donazione da farsi al monastero di S. Ambrogio d'una piccola strada pubblica che doveva essere incorporata nel monastero stesso, e successivamente per redigere ordinanze relative alla vita interna della città. La composizione di questa assemblea di cives non è facile a delimitarsi; probabilmente ne dovettero far parte tutti gli uomini liberi, che dipendevano direttamente dal governatore regio della città: cioè dal conte o dal marchese, in un primo tempo; dal vescovo, divenuto conte in molte città, più tardi. Questi liberi erano membri della bassa feudalità che avevano concessioni di terre e case nell'interno della città ed erano adibiti alla difesa delle torri e delle mura della cerchia cittadina, negozianti e artigiani liberi. L'arengo si divide in milites, cioè cavalieri, e pedites, cioè pedoni, secondo l'obbligo che gravava sui singoli cives (in conformità all'ordinamento militare degli ultimi tempi longobardi, mantenutosi anche nell'età franca in Italia), il quale imponeva ai proprietarî d'una certa estensione di terre e ai più ricchi negotiatores di militare a cavallo, mentre i meno abbienti erano pedoni.
L'arengo ebbe molta importanza nei primi tempi del comune consolare, quando lentamente le autonomie comunali vennero a formarsi, così da costituire un governo della città, nettamente separato dal contado. In quel primo tempo l'organismo comunale era assai semplice: esso era diretto ordinariamente da 4 consoli assistiti da un ristretto consiglio di credenza formato da membri dell'aristocrazia cittadina. Al parlamento vengono demandate le decisioni gravi, come i mutamenti della costituzione, le alterazioni del territorio, l'approvazione definitiva degli statuti, il fare la pace e dichiarare la guerra, l'imporre tributi.
Il parlamento cittadino diviene, col tempo, sempre più numeroso sia per l'accrescersi della popolazione urbana, sia per la progressiva affrancazione delle classi servili e semiservili che ingrossa le file dei cives. Più tardi, però, nel sec. XIII, l'autorità di questa vasta assemblea diminuisce rapidamente per effetto della costituzione del Consiglio maggiore o Consiglio grosso, organo della classe media cittadina, che si raduna assai di frequente, del quale fanno parte soltanto artieri, commercianti e proprietarî e dal quale si tende a escludere, da un lato, le vecchie famiglie feudali e i più ricchi proprietarî, che avevano costituito il ceto dominante nei tempi più antichi, dall'altro, il popolo minuto. Il Consiglio maggiore diviene per lungo tempo l'arbitro della vita cittadina. È regola di convocare il parlamento il più raramente possibile, giacché le passioni che vi si scatenano possono "far perdere il reggimento", come dice un'iscrizione fiorentina.
Il parlamento è richiamato in vita quando, verso la fine del sec. XIII e al principio del XIV, il comune declina nella signoria. Il parlamento è allora radunato per dare piena balia al signore che così dà veste giuridica al suo potere. Naturalmente queste deliberazioni hanno in gran parte una funzione del tutto formale: quella cioè di riconoscere il fatto compiuto.
Parlamenti generali e provinciali (parlamentum, colloquium generale, curia generalis). - Le monarchie, che vennero gradatamente affermandosi in Europa nei secoli del tardo Medioevo, conobbero parlamenti generali con competenza per tutto il territorio dello stato e parlamenti particolari o provinciali valevoli per una parte soltanto di questo.
Alle assemblee più antiche partecipano soltanto i nobili, i feudatarî e il clero; ma è solo a partire dal sec. XIII, quando interviene anche la rappresentanza delle città, che può usarsi il termine "parlamento" in un senso un po' meno lontano da quello odierno, sebbene queste assemblee parlamentari abbiano il carattere di un'accolta di classi tra loro distinte anziché di un organico corpo collettivo formato da un'eletta rappresentanza di tutto il paese.
Risale all'epoca normanna il parlamento di Sicilia, al quale le città sono chiamate a intervenire soltanto nel 1232; al principio del sec. XIII risalgono il parlamento del Friuli e quello dello Stato della Chiesa; al sec. XIV i parlamenti generali della monarchia di Savoia, dove già negli anni precedenti esistevano i parlamenti particolari delle provincie; al 1355 il primo parlamento sardo dopo le assemblee dell'epoca dei "giudicati". Fuori d'Italia, risalgono alla fine del sec. XI le prime cortes di Spagna; è del 1215 la Magna Charta inglese e del 1264 la prima assemblea in cui partecipano le città; è del 1302 la prima riunione degli Stati Generali di Francia ordinata da Filippo il Bello e di poco posteriori sono i primi stati provinciali; è del sec. XIV l'ammissione delle città nelle assemblee regionali dei paesi germanici e d'epoca più tarda l'ammissione nel Reichstag.
Controversa è l'origine dei parlamenti. Alcuni vollero trovare il germe dei parlamenti generali nelle antiche assemblee popolari germaniche, continuate poi in quelle franche, e per l'Italia, nelle diete del regno (P. Viollet, R. Schröder, E. Mayer), e il germe dei parlamenti provinciali analogamente nelle assemblee dei duchi e poi dei messi e dei conti franchi (J. Unger); mentre ad altri parve più corrispondente al vero far derivare i parlamenti dalle riunioni saltuarie o periodiche degli ottimati che i principi dell'epoca feudale tenevano presso di sé per avere da essi consiglio (N. Fustel de Coulanges). Altri ancora, riferendosi particolarmente ai parlamenti provinciali, videro nel loro sorgere la diretta conseguenza d'un conflitto accesosi nei secoli del secondo Medioevo tra le classi più potenti e il potere centrale (L. Cadier), o anche del diffondersi dello spirito corporativo che spinse le classi a unirsi e organizzarsi per la tutela dei loro interessi proprio mentre i principi andavano rafforzando il loro potere signorile (O. v. Gierke), il tutto risoltosi appunto nella forma della collaborazione parlamentare. Altri, infine, per spiegare l'origine dei parlamenti, volsero l'attenzione a un fatto che senza dubbio ne accentuò notevolmente lo sviluppo, e cioè alla necessità che spinse i signori a convocare presso di sé i loro sudditi per avere il loro assenso, quando, per i bisogni sempre crescenti, si trovarono spesso costretti a chiedere tributi straordinarî di denaro e di armati al di là del limite stabilito dalle consuetudini o dal contratto di feudo e in deroga altresì alle immunità precedentemente concesse (A. Coville).
Il vero è che molteplici furono gli elementi preesistenti e varie le cause da cui i parlamenti trassero origine.
I parlamenti, convocati e presieduti dal principe o da un suo delegato, o dal capo della provincia se provinciali, non si riuniscono generalmente a tempo fisso, per quanto abbiano avuto alcuni di essi una certa periodicità di riunioni in certe epoche della loro esistenza, come, ad esempio, il parlamento siciliano radunato periodicamente ogni anno ai tempi di Federico II e ogni tre anni dalla fine del sec. XV; il parlamento sardo ogni dieci anni dal 1421; quello catalano che la costituzione di Pietro il Grande del 1283 voleva fosse tenuto ogni anno.
Alla convocazione si procede di solito per mezzo di lettere citatorie, portanti l'indicazione del giorno e del luogo, inviate ai singoli componenti l'assemblea; e più che un invito, la lettera esprimeva spesso, almeno nei primi tempi, un ordine esplicito d'intervenire e l'intervento fu inteso infatti di frequente, specie quando lo scopo della riunione era di richiedere tributi straordinari ai sudditi, anziché come un diritto, quale un preciso dovere cui non era permesso sottrarsi.
In tal modo vengono all'assemblea le tre classi, nobile, clericale e cittadina che costituiscono altrettanti rami o stati o bracci o stamenti del parlamento (il solo parlamento inglese conobbe la duplice distinzione in nobili e città): grandi dignitarî, nobili e feudatarî per la prima classe; vescovi, abati, prelati, rappresentanti dei capitoli e anche rettori di pievi per il clero; e deputati delle città in numero diverso secondo l'importanza di queste, muniti del mandato loro conferito dai consigli comunali. Altre volte, però, non tutte le classi risultano presenti, o per volontà di chi ha convocato l'assemblea, o perché non trova motivo d'intervenire la classe che non ha questioni che la interessino nell'ordine del giorno.
I parlamentari siedono, così, distinti per classi; per classi ancora, in seduta plenaria, o appartate l'una dall'altra, discutono delle proposte e deliberano al riguardo. Si agitò nei parlamenti medievali la questione se la deliberazione presa a maggioranza da una classe potesse vincolare tutti i componenti della medesima, e si agitò pure quella se il voto concorde di due classi potesse vincolare in parlamento anche la terza classe dissidente: questioni che denotano la mancanza di organicità dell'assemblea, ma che finirono con l'essere risolte a favore del principio maggioritario.
Talvolta poi il parlamento, anziché prendere una decisione, delega tale facoltà a una commissione scelta nel suo seno, perché esamini meglio le cose e decida al riguardo, ovvero prende soltanto una decisione di massima, affidando il resto alla commissione; e alcuni parlamenti, come il friulano, il siciliano, nonché il piemontese del sec. XVI, ebbero consigli e commissioni parlamentari permanenti, istituiti al fine di rappresentare il parlamento accanto al governo in un'opera continuata di assistenza e di vigilanza.
Diverse, secondo i tempi e i luoghi, furono le funzioni e l'autorità dei varî parlamenti, in stretta dipendenza dal carattere e dalla forza del potere monarchico.
Massima importanza ebbe la competenza in materia finanziaria, per cui l'assemblea, di fronte alla richiesta del principe per il sussidio straordinario di denaro e di armati, s'impegnava per le popolazioni a prestarlo provvedendo a ripartirne altresì l'onere tra i sudditi: funzione, questa, connessa - come si è detto - con la stessa origine dei parlamenti. Competenza originaria per molti parlamenti, e di notevole importanza, fu anche quella giudiziaria e quella concernente la presentazione delle lamentele dei sudditi al sovrano. Nota è pure, vicino a queste, la funzione legislativa che ebbe estensione e manifestazioni diverse da una monarchia all'altra: dai parlamenti dello Stato della Chiesa o da quelli siciliani dell'epoca normanna e sveva, nei quali le nuove costituzioni erano presentate più per essere rese pubbliche che per essere discusse, si passa al parlamento friulano cui compete non solo l'approvazione, ma anche l'elaborazione stessa delle leggi e al parlamento siciliano dell'epoca aragonese, dopo il sec. XV, che elabora e propone al sovrano i capitoli perché con la sanzione di questo divengano leggi. Altro compito, pure di frequente adempiuto dalle assemblee, fu quello di ricevere la presentazione o il giuramento del nuovo principe o capo e di prestare in corrispondenza a nome dei sudditi il giuramento di obbedienza e di ossequio: il parlamento di Sicilia, nell'epoca normanna, intervenne per questa via anche nella elezione dei re e continuò a ricevere e a prestare il giuramento pure con gli Aragonesi e con i Borboni fino al 1760. Ai parlamenti dello Stato della Chiesa, il nuovo rettore, inviato a reggere la provincia dal pontefice, si presenta per far note le lettere di nomina, per fare presenti le direttive di governo cui intende ispirarsi, e per ricevere il giuramento di fedeltà.
A lato di queste principali funzioni dei parlamenti, non va trascurato anche il loro frequente intervento, per via diretta o indiretta, nella politica dei governi, ogni volta che le contingenze lo permisero.
Ma una grave crisi per la vita parlamentare è segnata dall'avvento dei governi assoluti nell'epoca moderna, intolleranti del controllo che quest'organo esercitava sulla loro azione e dei limiti che a questa poneva; di qui la rapida decadenza dei parlamenti: con Emanuele Filiberto non vengono più convocati gli stati del Piemonte e della Savoia; è del 1614 l'ultima riunione degli stati di Francia, anteriore a quella che verso la fine del secolo successivo portò alla rivoluzione, si riunisce per l'ultima volta nel 1642 il parlamento di Napoli, cui vengono sostituiti i cosiddetti seggi, e nel 1699 quello di Sardegna, dove non si trovano nell'epoca successiva che convocazioni separate dei singoli stamenti. Anche i parlamenti, che continuarono a esistere, perdettero tanto della loro autorità da restare quasi del tutto soggetti al volere dei sovrani: così il parlamento del Friuli convocato ancora dalla repubblica veneta nel sec. XVIII, il parlamento di Sicilia e quelli dello Stato della Chiesa, che durarono fino al principio del sec. XIX, e le Cortes di Spagna in grave decadenza dal sec. XVI.
Il Parlamento in Italia. - Parlamenti e assemblee del Risorgimento. - La tradizione parlamentare del periodo comunale non si è mai estinta in Italia. Le forme rappresentative vengono compresse, non sradicate dal dominio straniero. Risorgono, si ricollegano al passato, ne sviluppano i germi sopravvissuti, a partire dal 1796, ossia con le vittorie napoleoniche le quali creano condizioni favorevoli alle iniziative dei democratici italiani, rivolte a organizzare repubblicanamente tutti gli stati della penisola. Un ampio movimento culturale prepara, e poi asseconda, questo rinascere delle libere assemblee; e ad esso partecipano i giuristi del Mezzogiorno e gli economisti del Settentrione: nel 1790 il gruppo liberale lombardo, con Pietro Verri e Francesco Melzi ispiratori, chiede a Leopoldo II una costituzione che garantisca la reale rappresentanza del popolo, la libertà di parola, la sicura conoscenza di tutti gli affari governativi, e ciò contro il sistema del "muto votare" che regolava i deliberati dei 60 decurioni di Milano. Ma il primo esperimento costituzionale si svolge nell'aprile del 1796 tra la municipalità repubblicana di Alba, nominata da tutti i cittadini, dopo un'insurrezione che si proponeva di guadagnare all'idea democratica tutto il Piemonte. La battaglia di Lodi apre all'Italia la possibilità di nuovi ordinamenti politici; i quali, se non hanno il pregio dell'originalità, essendo ispirati quasi tutti alla costituzione di Francia dell'anno III, rappresentano un grande progresso di convinzioni unitarie e indipendentiste, e risolvono il particolare storico in fusioni di sempre più vasti territorî. L'assemblea costituente delle quattro città, Bologna, Modena, Ferrara, Reggio, primo nucleo della Cispadana, con i suoi proclami a tutta l'Italia e con l'impulso dato al moto nazionale, segna il passaggio dalla vecchia concezione federale a quella unitaria, sin dall'ottobre del 1796. L'assemblea della Cisalpina, nata dall'unione con la Cispadana il 17 luglio 1797, inizia i proprî atti giurando fedeltà alla costituzione, di sistema bicamerale, e promettendo di non soffrire mai alcun giogo straniero (21 novembre).
Composta di 160 membri per il Consiglio degli iuniori, e di 80 per quello dei seniori, durò sino all'aprile del 1799; quasi quotidiane le sedute, talora anche duplici in uno stesso giorno; i suoi resoconti, stampati e pubblicati ufficialmente nel periodico Il redattore del Gran Consiglio; numerose le questioni esamisate e gli atti compiuti: abolizioni delle corporazioni artigiane, dei dazî interni, dei pedaggi privati, di varie corporazioni ecclesiastiche con incameramento dei loro beni; bonifica di terreni paludosi; libertà di navigazione fluviale, tassazione sui beni posseduti all'estero, cittadinanza ai patrioti profughi; libertà di circolazione dei grani, dei vini, della seta; unificazione dei pesi e delle misure; limiti alla libertà di stampa; parziale esenzione tributaria a famiglie numerose; tutela dei boschi; istruzione primaria gratuita; tassa sui celibi; arruolamento dei volontarî; istituzione d'un teatro patriottico e del vessillo tricolore; politica e propaganda di annessionismo, ecc.: bagliori di vita nuova fra esagerazioni demagogiche (iconoclastia e divorzio) e discussioni inconsulte (per l'abolizione dello studio del latino); atti di forzato vassallaggio (trattati di alleanza e di commercio durissimi con la Francia) non senza fiere ma inutili opposizioni e resistenze, specie per parte dell'Assemblea dei seniori, onde i mutamenti imposti alla costituzione dal Brune, dal Trouvé e dai commissarî del direttorio, e l'agonia delle stesse assemblee.
Analoga l'opera svolta dalle assemblee, che pure si sforzano di risolvere italianamente e democraticamente i problemi italiani, nelle altre repubbliche del famoso triennio, la Ligure, la Romana e la Partenopea, di effimera durata; maggiormente colpiti i privilegi feudali, i beni del clero, e decretata la fine del potere temporale.
Un posto distinto occupa il parlamento siciliano in mezzo a queste nuove espressioni d'una volontà popolare italiana legalmente costituita. Esso aveva continuato per tutto il sec. XVIII le sue adunanze, regolarmente, ma le sue facoltà erano ridotte a una sola: votare i donativi. Il potere regio restava assoluto. Nel 1794 incomincia però un movimento di fronda di colore antifiscale. Si parla con più libertà; si nega una parte dei sussidî chiesti dal re. Questo primo risveglio della coscienza costituzionale nell'ordine dei baroni, si accentua e si aggrava sino a provocare l'arresto di alcuni fra essi, più decisi nella lotta contro il potere regio. L'Inghilterra, richiesta d'aiuto dal parlamento, manda lord Bentink (22 luglio 1811) che risolve la crisi costituzionale accordando una Magna Carta sul modello di quella inglese. Il nuovo parlamento nella seduta solenne dei tre bracci (19 luglio 1812), durata 24 ore, vota unanime le basi della costituzione, il cui primo articolo dice: "Non vi saranno più feudi".
Il 1799 segna un arresto delle forme rappresentative per la caduta delle repubbliche napoleoniche. Dopo Marengo, il problema costituzionale è ripreso in esame con spirito di moderazione e per fare più largo posto alle esigenze nazionali. Nella grande assemblea dei patrioti di tutta la penisola, raccolti in Genova nel giugno 1799, s'invoca dalla Francia la formazione d'un regno d'Italia "indipendente, uno e indivisibile". Dai comizî di Lione uscì invece la repubblica italiana, modesto ingrandimento della Cisalpina; ma fu riaffermata l'idea unitaria e la necessità di dare al popolo italiano "costumi nazionali, non più soltanto locali". La nuova costituzione (1802) ispirata dal Melzi rispecchia l'indirizzo più tranquillo dello spirito pubblico, il disperdersi del giacobinismo e delle correnti rivoluzionarie. La tutela francese si aggrava. Il governo tende, in Lombardia e dovunque, a una concentrazione aristocratica dei poteri. Gli stessi rappresentanti vengono eletti per volere del primo console. Le nuove assemblee hanno funzioni molto limitate e nessuna di valore effettivo. Con il regno d'Italia il corpo legislativo ha una vita soltanto figurativa, come gli altri organi rappresentativi. Si sviluppano invece le istituzioni militari. I tentativi d'opposizione per fare il popolo realmente partecipe del potere falliscono. Cresce in questa atmosfera il partito degli italici puri, che ha per meta l'unità e l'indipendenza; la sua prima affermazione pubblica è nei collegi elettorali che sono raccolti a Milano il 22 aprile 1814, dopo l'armistizio con l'Austria, per chiedere a Parigi, mediante una deputazione, un governo autonomo, monarchico, ereditario. Il ritorno dell'Austria segna la fine d'ogni libertà politica, debolmente larvata nell'amministrazione locale del Lombardo-Veneto dai consigli comunali e dalle assemblee provinciali, che non valgono a modificare l'assolutismo del governo. Ovunque, in Italia, perdura l'agitazione liberale che dapprima si concreta a Napoli, nella monarchia costituzionale del 6 luglio 1820, sul modello spagnolo; essa vive sino al 24 marzo, ma ha una cospicua, se pur breve, attività.
Il parlamento, con 123 sedute, di cui 14 straordinarie, riorganizza l'esercito, la marina, la sicurezza interna e di frontiera, riforma gli organi statali e la magistratura, abolisce i maggioraschi e i giuochi d'azzardo, discute il vecchio codice, pubblica la legge abolitiva della feudalità in Sicilia, e dopo le risoluzioni di Lubiana, partecipa al movimento liberale ed emana provvedimenti per difendere il regno dall'aggressione austriaca, di cui redasse il verbale nell'ultima adunanza.
Fra i rigori della repressione assolutista, generale e uniforme, l'idea nazionale si viene ricomponendo e arricchendo di elementi popolari; e in questa forma dà il primo segno di vita nelle sommosse di Romagna (1831), coronate dall'opera della grande assemblea di Bologna che proclama la totale emancipazione dal dominio temporale di tutte le città aderenti al moto e la loro costituzione nello Stato delle provincie libere in Italia. Ma l'istinto delle moltitudini inizia il periodo realistico del Risorgimento solo con le insurrezioni del 1848 che trasformano costituzionalmente tutti i governi dell'Italia, eccetto il Lombardo-Veneto, e riaprono le aule dei parlamenti entro le quali il pensiero nazionale assume forme concordi per la guerra di tutti contro l'Austria. I resoconti di queste assemblee attestano il sorgere e lo svolgersi di bisogni e desiderî comuni, contemporaneamente nelle varie provincie, rispetto al problema della libertà e indipendenza, l'unione non ancora perfetta delle volontà locali rispetto al problema dell'unità per l'antagonismo fra Napoli e Torino, Palermo e Napoli, Milano e Venezia.
Già emerge, fra tutti, il parlamento subalpino che, attraverso le due camere, raccoglie e traduce in leggi i primi voti delle assemblee e i voti plebiscitarî per l'aggregazione di provincie italiane agli stati sardi: il 27 maggio 1848 per Piacenza, il 13 giugno per Modena e Reggio, il 16 giugno per la Lombardia, il 27 luglio per la Venezia. Sicché il parlamento subalpino si trova al centro del moto unitario e ne coordina e ratifica le azioni singole, predisponendo le guerre liberatrici, deliberando soccorsi, discutendo problemi d'interesse nazionale. Nella prima seduta (8 maggio) esso affermò subito, con il discorso inaugurale del principe Eugenio di Carignano, questa sua funzione di coordinamento delle forze rivoluzionarie italiane: "in Italia le disgiunte parti tendono ogni giorno ad avvicinarsi, e quindi vi è ferma speranza che un comune accordo leghi i popoli che la natura destinò a formare una sola nazione". Il 27 giugno, Giovanni Ruffini diceva ai colleghi deputati: "io vagheggio un'Italia una, avente a capitale Roma". Il programma, posto chiaramente sino dai primi giorni, si attuò fra dibattiti clamorosi, per l'atteggiamento diverso che presero i partiti, monarchico, repubblicano, clerieale, di fronte al problema italiano e alle sue varie vicende. Il dibattito maggiore si svolse per determinare i caratteri del movimento italiano, se monarchico o repubblicano, e si affermò già lungo il corso della prima campagna e per la ripresa della guerra, dopo Custoza. Non meno discusso fu il problema dei mezzi rivoluzionarî, se diplomatici o militari. E anche questo tenne in contrasto la destra e la sinistra, sin dall'ottobre del 1848: Rattazzi, Valerio, Sineo, Brofferio erano i sostenitori delle "guerre di libertà" e i rappresentanti più animosi del partito d'azione impersonato nella sinistra. La seconda legislatura inaugurata il 1° febbraio del '49 segna la vittoria dei democratici, ma fallisce con la battaglia di Novara.
L'anima italiana grandeggia ancora nella difesa di Brescia, di Roma, di Venezia, che assume un carattere spiccatamente nazionale; coadiuvata dalle assemblee, che affermano la solidarietà con gli altri stati della penisola; mentre ad esse fanno eco nel parlamento subalpino i partigiani della guerra, e il Brofferio raccomanda all'Italia la fiducia nelle proprie forze, il "procedere italianamente" "l'abbraccio fraterno di Torino e Roma". Ma il solo Piemonte conserva la libertà di parola, e nel suo parlamento si concentrano le direttive della rivoluzione, si raccolgono le voci degli emigrati; poiché di esso possono fare parte tutti gl'Italiani, giusta la deliberazione del 17 ottobre 1848 in seguito all'elezione di Alessandro Manzoni. Composto il dibattito intorno al trattato di pace con l'Austria, dalla nuova Camera eletta dopo il proclama di Moncalieri, e inaugurata da re Vittorio Emanuele II il 20 dicembre, si accentua col ministero d'Azeglio una politica risolutamente nazionale, che il parlamento ora asseconda con maggiore disciplina e unità di pensiero, perché dall'estrema sinistra, repubblicana e anticattolica, si è staccato un centro con il proposito di collaborare al rapido progresso delle istituzioni monarchiche e della causa sabauda.
Il primo ministero Cavour (4 novembre 1852) conduce il parlamento a operazioni decisive contro l'Austria: il sussidio agli emigrati di cui Vienna ha sequestrato i beni, il trattato di commercio con la Francia, la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea, assai contrastata e approvata dalla Camera il 10 febbraio 1853 con voti 101 contro 60, e dal Senato il 3 marzo con 73 contro 27. Il secondo ministero Cavour (4 maggio 1855 affretta lo sfacelo del mazzinianismo parlamentare, conquista il parlamento al suo programma di guerra e ne fa votare i fondi necessarî con un progetto di legge per un prestito di 50 milioni (febbraio 1859), e, dopo il famoso ultimatum dell'Austria, i pieni poteri al re. I preparativi della guerra e lo sviluppo vittorioso di essa accelerano il processo unitario e rinnovano i moti popolari contro le vecchie dinastie. Le assemblee costituenti radimate a Firenze, a Modena, a Bologna, a Parma dall'agosto al settembre sanzionano l'opera promossa dal governo di Torino e l'annessione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele. La nuova Camera, composta dei rappresentanti anche della Lombardia e dell'Italia centrale, s'inaugurava in Torino il 2 aprile 1860 con un discorso del re che salutava l'Italia "non più campo aperto alle ambizioni degli stranieri, ma l'Italia degli Italiani". Molto agitata fu, nelle sedute del maggio, la discussione intorno al trattato riflettente la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, approvato con 225 voti contro 33 (Biancheri, Bertani, Depretis, Ferrari, Guerrazzi, Sineo, Valerio, Zanardelli, ecc.) e 23 astenuti (Rattazzi, Berti, ecc.). Garibaldi si era già dimesso da deputato "protestando contro l'atto di frode e di violenza". Durante la sua magnifica gesta per salvare il Mezzogiorno d'Italia, il parlamento di Torino coopera alla caduta dei Borboni e alla disíatta dell'idea federale: prima, respingendo la subdola proposta, messa innanzi da Napoleone III, di un'alleanza tra Vittorio e Francesco II, all'ultim'ora, liberaleggiante; poi, votando il progetto di legge concernente l'annessione del Mezzogiorno, destinato a risolvere il contrasto fra Cavour e Garibaldi. Il 27 gennaio 1861, alla distanza di oltre un mese dal decreto che dichiarava l'incorporamento del Mezzogiorno, delle Marche e dell'Umbria al regno d'Italia, ebbero luogo le elezioni politiche generali: il 18 febbraio s'inaugurava il primo parlamento italiano, il 26 fu approvato dal senato il progetto di legge per la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d'Italia. Il 25 marzo Cavour discutendo la questione romana affermava: "senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire, Roma sola deve essere la capitale d'Italia".
Il parlamento del regno. - Dopo la proclamazione del regno, nel nuovo parlamento si viene costituendo, di fronte alla destra storica, un'opposizione permanente di sinistra, la sinistra storica, più politica che amministrativa, sorta in seno al partito d'azione e alimentata dal malcontento creato per la mancata soluzione dei superstiti problemi territoriali e per le deluse speranze d'un mutamento radicale nella situazione materiale e morale dell'Italia nuova. Mentre con il Cavour si poteva parlare piuttosto di oppositori che di opposizione, i suoi successori dovranno fare i conti con un'opposizione vera e propria, sebbene non sempre omogenea, né sempre costante, la quale si farà portavoce nelle assemblee, e specialmente alla camera, delle correnti che i nuovi problemi verranno suscitando nel paese. Il raggiungimento dell'unità amministrativa dovette superare le difficoltà e gli ostacoli dell'opposizione regionalistica, quando non municipalistica, e l'affermazione rigida del principio unitario alimentò il malumore del Sud contro il Nord anche in parlamento, dove la grave questione del brigantaggio rinfocolava recriminazioni e risentimenti. E questo proprio quando la grande maggioranza della Camera si sgretola: i vecchi avversarî del Cavour, i garibaldini del partito d'azione, malcontenti d'ogni genere si raccolgono ora attorno al Rattazzi. Il primo esperimento di governo del Rattazzi, dopo la caduta del Ricasoli (1862), coalizza contro di lui una forte opposizione di destra capeggiata da G. Lanza. Da questa opposizione esce sostanzialmente il ministero di L. C. Farini, dopo Aspromonte. Solida e coerente la destra nel suo sforzo politico unitario, non sempre altrettanto felice nel campo amministrativo ed economico. Di qui le critiche e gli attacchi, non tutti dettati solo da spirito di parte, della sinistra. Inquietudine e incertezza grande quella dei primi anni di vita parlamentare unitaria, dominata dai due maggiori problemi non risoluti del Risorgimento, Venezia e Roma, e vincolata spesso agli atteggiamenti di qualche particolare personaggio, come quando nel dicembre 1863 si dimisero quasi tutti i deputati del partito d'azione (eccetto il Crispi), dietro l'esempio di Garibaldi, per protesta contro il governo e contro la Francia.
Se l'atteggiamento della maggioranza nei due rami del parlamento è favorevole alle idee cavouriane del marzo 1861 per la soluzione della questione romana, l'opposizione non approva i metodi che si vogliono seguire, come apparirà nella drammatica discussione che seguirà Aspromonte.
Anche sotto il Minghetti il dissenso continua: la sinistra respinge accordi e temperamenti; la Convenzione di settembre (1864), pure approvata a grandissima maggioranza (317 sì, 70 no, 2 astenuti alla Camera; Cialdini la difende al Senato e Manzoni la vota), accentua il dissidio. Notevole l'affermazione famosa del Crispi (18 novembre) sulla necessità di accettare e sostenere la monarchia, che "ci unisce", contro la repubblica che "ci dividerebbe".
Le elezioni del settembre 1865 sono disastrose per la destra nel Mezzogiorno: uomini nuovi la sostituiscono, mentre la sinistra si rafforza materialmente senza divenire più omogenea, divisa com'è tra vecchi elementi rivoluzionarî e malcontenti dell'oggi, alleati ai primi specialmente in tema di politica fiscale.
Il costume parlamentare comincia già a tralignare. Gli eventi del 1866 e del 1867 nel Veneto e nella Campagna Romana, le grosse questioni della unificazione legislativa e del matrimonio civile, la discussione sull'elezione del Mazzini a Messina (1866), la legge sull'ordinamento dell'asse ecclesiastico suscitano fiere battaglie parlamentari. Assai dura la discussione dopo Mentana: da più parti s'invoca la necessità di restaurare l'autorità dello stato e di risolvere per via pacifica la questione romana. Ma la lontananza delle posizioni tra destra e sinistra appare persino nel voto di fiducia che alla fine di luglio del 1870 diede mandato al governo di risolvere la questione romana secondo le aspirazioni nazionali. Una sessantina di voti in più segnò la differenza tra favorevoli e contrarî.
Rinnovato il parlamento con le elezioni del novembre 1870, la grande discussione durata dal 21 dicembre al 21 marzo 1871 sul problema del trasporto della capitale e sulla legge delle guarentige rivelò una maggiore concordia degli animi nei due rami del parlamento, dove solo cattolici intransigenti e rappresentanti più accentuati della sinistra furono sfavorevoli.
Le grandi questioni storiche sono ormai composte; restano i meno gloriosi ma non meno duri problemi dell'ordinaria amministrazione: condizioni economiche, nuove tassazioni, problema dell'istruzione elementare, ecco ora il terreno di scontro delle correnti parlamentari. Le "economie fino all'osso" saranno titolo di gloria per gli uni, motivo di biasimo per gli altri, ed esalteranno o deprimeranno il Sella, "ministro della lesina" non tanto e non solo sul concreto terreno delle riforme da introdurre o da respingere, quanto, piuttosto, su quello del precopcetto di parte.
A poco a poco la destra si viene indebolendo: il suo compito storico è esaurito nello sforzo unitario e accentratore. Si accentua l'atteggiamento rigidamente conservatore contro il quale si appuntano le critiche degli oppositori. Ma ancora trionfa nelle elezioni del 1874. Per combatterla la sinistra storica si ringiovanisce nella giovane sinistra, che rinuncia al radicalismo di quella e ha un programma possibilista di monarchia democratica con suffragio allargato e abolizione dell'impopolare tassa del macinato. Tutta la politica della destra è attaccata e non le vale l'avere sanato il deficit del bilancio. Il 18 marzo 1876 il ministero Minghetti è rovesciato dall'attacco della sinistra, collegata con i deputati toscani malcontenti e con il centro. Le elezioni del novembre 1876 la seppelliscono.
Ma in un certo senso si può dire che dal 1876 a poco a poco scompaia anche la vera e propria sinistra. Uomini nuovi e problemi nuovi si vengono imponendo sulla scena politica. Il dissidio tra l'ottimismo dei programmi e la dura realtà dei risultati, le gare, le fazioni, la preoecupazione d'interessi puramente o prevalentemente parlamentari, indeboliscono la posizione dei ministeri di sinistra. Il programma democratico si attenua nel calcolo delle forze numeriche, dei gruppi o gruppetti da conquistare, delle combinazioni ministeriali. Deputati di sinistra passano all'opposizione; a sostituirli il ministero trova alleati a destra e al centro e non sul terreno d'una comune fede, ma su quello d'un programma contingente. Al disopra della provenienza politica il trasformismo attenua contrasti, livella fedi, ammorbidisce coscienze. Non tutto sarà male: nuove forze meno legate al passato si faranno strada, nuovi interessi prenderanno il posto degli antichi, il cammino in senso unitario sarà accelerato. Ma la scissione della sinistra darà vita a formazioni minori in lotta tra loro e contro il governo, indebolendo l'opera di questo e impedendogli la possibilità di realizzare il suo programma. Di qui lo spesseggiare di crisi ministeriali e l'altalenare dei gabinetti (tipico quello tra Depretis e Cairoli), mentre si profila all'orizzonte il socialismo. Scarsamente sentita durante il Risorgimento, la questione sociale cominciò ad imporsi all'attenzione pubblica dopo l'apparizione della prima Internazionale (1864). Repubblicani e democratici sono contrarî a questa; la destra fa adottare (1871) severe misure di repressione. La prima candidatura socialista di protesta è del 1874 (E. Bignami); il primo deputato socialista sarà Andrea Costa (1882). La sinistra (1878) con la sua dottrina del reprimere e non prevenire farà indignare la destra, ma scontenterà il Crispi, ormai maturo per più alti destini.
L'attrazione della politica interna e la preoccupazione anticlericale sembrano rendere meno sensibile il parlamento di fronte alla politica estera e coloniale, giudicata sempre più in base ai canoni del partito o a certa sentimentale superficialità che non per l'intrinseco valore degli atti e delle questioni. Quindi, tranne pochi, deputati e senatori accettano la dottrina delle mani nette e la politica di neutralità e pace con tutti, e quindi, se democratici, si schierano per l'irredentismo e per la Francia degl'immortali principî, se conservatori, si dichiarano amici della Germania bismarckiana. E sono sempre il sentimento e il preconcetto di parte che impediscono d'apprezzare secondo il suo vero valore la necessità dell'espansione coloniale italiana e scatenano l'odio democratico contro Crispi triplicista e gallofobo. In fondo la crisi della classe dirigente si ripercuote su coloro che rappresentano il paese in parlamento. L'Italia nuova si sta costituendo: la sua classe dirigente è ancora debole; elettori e parlamentari si distraggono troppo spesso dietro le modeste, seppure movimentate, vicende di un P. Sbarbaro e di un F. Coccapieller o dietro il torbido romanzo della Banca Romana e la "questione morale" crispina.
Più degno, spesso, il contegno del Senato, più vigile custode degl'interessi dello stato e meno proclive a indulgere a preoccupazioni parlamentari o elettorali.
È sorto, intanto, separandosene gli anarchici, il partito socialista italiano (1892). I suoi rappresentanti (Prampolini, Costa, Agnini) lanciano grida di ammonimento ai vecchi partiti: destra e sinistra, dice A. Costa, sono nomi vani senza soggetto, forme storiche esaurite; due sole forze contano ora: la democrazia sociale e la parte conservatrice. Tra la borghesia e la classe operaia la lotta è fatale. Con le elezioni del 1895 i deputati socialisti che erano prima 5, tre dei quali, il Barbato, il De Felice e Garibaldo Bosco, condannati per l'azione dei Fasci di Sicilia, sono saliti a 12 e i voti andati al partito triplicati. Nel 1897 l'estrema sinistra sale a una settantina di deputati, di cui 16 socialisti.
Lo sbandamento delle forze politiche, il disorientamento del parlamento nell'ultimo quinquennio del sec. XIX cessano per un momento all'indomani del regicidio di Monza. Ma sono intrighi parlamentari, collusioni e combinazioni tra destra, centro e sinistra che abbattono il Saracco e spianano la via a un ministero Zanardelli, in cui intorno a un deputato di sinistra si raccolgono uomini dei due settori. Le elezioni del 1900 portavano da 67 a 95 i deputati di estrema sinistra, tra i quali, oltre i radicali, spesso generali senza gregarî nel paese, figuravano ben 33 socialisti.
Trasformismo in grande quello che, sotto la guida di G. Giolitti, il parlamento italiano lascerà attuare dal 1903 al 1913, dieci anni di semidittatura parlamentare. "Libertà per tutti entro i limiti della legge": ma quanto larghi e come elastici questi! Sotto il Giolitti, grande manipolatore di elezioni e grande alchimista del parlamento, il costume politico non migliorò. Preoccupati troppo spesso più delle sorti del governo che di quelle dello stato, intenti a calcolare forze di gruppi e possibilità di successioni, i deputati della maggioranza e i senatori, accresciuti questi al momento opportuno da provvide "infornate", seguirono pedissequamente il loro capo, collaborando così a molte opportune leggi sociali, economiche, amministrative, culturali, ma mostrandosi impreparati o troppo docili di fronte a questioni che uscissero dal quadro d'una politica senza slanci e senza impeti.
E se le intenzioni del Giolitti furono di accostare ed educare gradatamente al governo forze politiche finora avverse, nella pratica parlamentare la sua maggioranza non si resse su principî e convinzioni ma sulla base di specifici interessi locali e personali. E l'acquiescenza verso i partiti estremi (i socialisti erano lievemente aumentati nelle elezioni del novembre 1904, avverse al socialismo rivoluzionario, alle quali isolatamente parteciparono anche i cattolici in favore dei deputati conservatori, prima breccia nella muraglia del non expedit) parve pericolosa a molta parte dell'opinione pubblica. Dal 1904 al 1919 la camera sarà sempre basata su una maggioranza giolittiana (350 deputati favorevoli al ministero sui 433 eletti a primo scrutinio nel 1909) e i ministeri non giolittiani, o non del tutto giolittiani, resteranno al potere quel numero di mesi o di giorni che a quella maggioranza, e cioè al suo capo, piacerà, come le esperienze Fortis, Sonnino e Luzzatti dimostreranno.
Intanto dai banchi dei radicali escono uomini di governo, come il Credaro, il Sacchi, il Pantano; l'atteggiamento del Giolitti verso le classi lavoratrici provoca un primo dissenso nelle file del partito socialista, dove molti sono grati al semidittatore della sua politica di miglioramenti materiali e dell'incontrastato diritto di sciopero. Ministeriali e antiministeriali tra i socialisti, mentre il Vaticano, di fronte al timore d'un accentuarsi della politica ultraliberale e anticlericale, mitiga il non expedit, e lascia così venire al mondo cattolici deputati, se non ancora deputati cattolici. I tre primi furono A. Mauri, il Chiozzi e il Micheli.
L'attività parlamentare è cospicua in questi anni. Il lavoro ordinario si accresce con quello delle grandi inchieste che, spesso in seguito a pressione demagogica, si vanno attuando, come quelle sull'amministrazione della guerra, sulla marina, sulla pubbliea istruzione, sulle condizioni dei contadini nel Mezzogiorno, a molti apparsa inutile duplicato dopo la grande inchiesta agraria di S. Jacini.
Intanto maturano progetti di riforme del Senato e del sistema elettorale. Del primo si lamentava la sempre più debole azione politica e l'accentuata sommessione al governo, che ne alterava la fisionomia con nomine male ispirate; del secondo, già più volte mutato e per effetto dell'accresciuto numero degli elettori e per il tentato esperimento dello scrutinio di lista, si diceva fosse insufficiente ai tempi nuovi. E la Camera, che non approvava il più limitato progetto di riforma elettorale del Luzzatti (marzo 1910-marzo 1911), dava tranquillamente il suo voto a quello radicalmente innovatore del risorto Giolitti, per il quale gli elettori da tre milioni e mezzo salivano a oltre otto milioni.
Ma la riforma elettorale veniva accettata (1912) anche perché era avvenuto, per effetto della guerra libica, il primo vero grande differenziamento politico dopo la scomparsa dei partiti storici. L'anticolonialismo del trentennio precedente si attenua in alcuni socialisti e repubblicani.
Con le elezioni successive alla guerra libica scompare di fatto definitivamente il non expedit. Infatti nel novembre 1913 entrano alla camera deputati che si sono impegnati (patto Gentiloni) ad appoggiare una politica non contraria ai principî cattolici. E pur accrescendosi notevolmente i socialisti da 41 a 53 (da 340.000 a 1.000.000 i voti elettorali), entra alla camera una pattuglietta nazionalista capeggiata da Luigi Federzoni.
Ma sono ormai tempi inquieti: il generale marasma europeo, le difficoltà economico-sociali della vita interna del paese si ripercuotono sul parlamento, che si spezzetta in gruppi o gruppetti, divisi spesso da sfumature: estrema sinistra, sinistra, centro sinistro, centro destro, destra; i liberali democratici sono diversi dai democratici liberali e il socialismo ormai dopo l'espulsione già avvenuta dei possibilisti tipo Bissolati, Bonomi, Cabrini, Podrecca, si è scisso anch'esso in due gradazioni: l'ufficiale e la riformista.
Questo parlamento inquieto e questa maggioranza malfida eredita il Salandra. La guerra mondiale si fa con un parlamento giolittiano, fondamentalmente contrario alla guerra. Mai, come nella crisi della neutralità, l'organismo parlamentare si rivelò insufficiente. La volontà d'intervento maturò fuori e contro le camere.
E tutta la politica italiana di guerra risentirà di questo contrasto tra una concordia apparente e una frequente ambiguità d'azione. Il potere esecutivo troverà frequenti impacci nel parlamento. Non è senza significato che un solo deputato italiano sia caduto combattendo, l'on. Brandolin. E mentre alla fronte si combatte e si muore, il parlamento si trastulla in congiure, in accuse, in recriminazioni, nelle quali affiora il fondamentale dissidio iniziale tra "neutralisti" e "interventisti" e le diverse concezioni di una guerra "democratica" o "nazionalista". Né il mutare dei governi migliorava la situazione: le difficoltà contro cui s'era battuto Salandra rinascevano con Boselli, né cessavano con Orlando.
Nel dopoguerra la situazione andrà peggiorando: la debole politica di governi incapaci, l'aizzamento del risentimento della piazza contro la guerra e i suoi autori, l'esempio russo, hanno i loro effetti. Le trattative di pace risentono di questa situazione. Il governo deve lottare contro gli alleati e contro il parlamento. Lo scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale manda alla Camera, nelle elezioni del novembre 1919, 156 socialisti e 102 popolari, rappresentanti questi del nuovo partito sorto nel gennaio 1919 con un programma sociale ed economico che teneva conto degl'ideali cristiani e delle tendenze demagogiche dell'ora. Sebbene già vivo e operante, nessun rappresentante del movimento fascista entrò per allora alla Camera, dove gl'ideali nazionali e la guerra sofferta e vinta furono difesi dal Fascio parlamentare, in cui si fusero i pochi nazionalisti e i liberali di destra. Pochissimi i repubblicani, numerosi ancora, ma assai frazionati in gruppi e tendenze, quelli che si chiamavano ancora liberali.
Camera difficile quella del 1919, davanti alla quale si logorano i governi del Nitti e del Giolitti, incapaci di fronteggiare i gravi problemi dell'ora, di domare l'inquietudine del paese, di ridare forza e coscienza alla borghesia smarrita di fronte al socialismo e al comunismo imperanti. Le lotte tra fascisti e socialcomunisti, gli scioperi a catena, la debolezza della politica interna ed estera superano anche le capacità politiche del Giolitti. Il suo tempo è compiuto; come è compiuto il tempo della onnipotenza parlamentare. La rivoluzione è in atto: al di fuori del parlamento si combatte tra fascisti, popolari e socialcomunisti. Le elezioni del maggio 1921 segnano la prima grande crisi parlamentare del dopoguerra: mezzo milione di elettori si sposta da sinistra a destra; i socialisti, scissi dai comunisti (12), scendono a 122; se restano quasi immutati i popolari (e la loro forza è tale che un loro veto può impedire il ritorno di Giolitti al potere), entra alla camera con Mussolini la prima falange fascista, di oltre 30 deputati.
Falliti i tentativi di conciliazione, non accolto l'invito mussoliniano all'accordo fra i tre grandi partiti di masse, caduta la manovra socialdemocratica nella mozione Celli (22 febbraio 1922) contro il fascismo ("non si va contro il fascismo e non si schiaccia il fascismo" ammoniva Mussolini), i tempi precipitano. Al di fuori del parlamento esautorato si svolgono le ultime battute della lotta (v. fascismo; italia: Storia). Dalla marcia su Roma anche il parlamento è trasformato. L'ultima fase della XXVI legislatura vide una Camera nella sua maggioranza non fascista collaborare più o meno di buona voglia con il nuovo governo. La riforma parlamentare del 1924 crea il collegio nazionale unico con 15 circoscrizioni a sistema maggioritario con rappresentanza proporzionale solo per le minoranze. Di fronte alla maggioranza decisamente fascista si coalizzano le opposizioni e paīono riprendere animo, specie dopo il delitto Matteotti, che offre il pretesto a una speculazione politica in grande stile. Ma la "sedizione dell'Aventino" è stroncata dal discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, con il quale sparì definitivamente ogni resto demoliberale dal parlamento italiano.
Radicale sarà la riforma del 1928. Ridotti i deputati a 400, le candidature designate dalle confederazioni sindacali vengono scelte e proposte dal Gran Consiglio del fascismo con lista nazionale da approvare o respingere in blocco dagli elettori. Le due elezioni plebiscitarie del 1929 e del 1934 hanno sperimentato il sistema. E il parlamento, che si avvia a un'ulteriore riforma in senso corporativo, superiore alle piccole lotte d'un tempo, restituito alla sua naturale funzione, ha svolto attiva, proficua opera legislativa.
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Architettura.
Le esigenze che, nel corso dei secoli e a seconda dei paesi, hanno impresso caratteristiche di particolare significato agli edifici di adunate rappresentative, furono radicalmente mutate e aumentate dal grande rivolgimento politico-sociale della fine del sec. XVIII. E se per l'addietro le sedute delle assemblee si potevano tenere anche in locali d'occasione e non appropriati, il sec. XIX, con i nuovi portati e le nuove organizzazioni politiche, ha imposto la creazione di sedi speciali, particolarmente adatte al funzionamento delle rappresentanze nazionali. In parecchie delle nuove o nuovissime sedi parlamentari, sono riunite in un unico palazzo le due aule corrispondenti ai due rami del parlamento. In alcune esiste pure, aggiunta a quelle e amplissima, una terza sala o aula destinata alle adunanze collettive dei parlamentari con intervento del sovrano o del capo del governo. In altri casi vediamo preferita la separazione assoluta tra l'uno e l'altro dei rami del parlamento con creazione di edifici appositi per l'una e per l'altra camera legislativa. In altri casi ancora vediamo adattati alle esigenze della funzione parlamentare odierna, antichi e storici palazzi, aventi originariamente altra destinazione. Esempî importanti, sotto questo punto di vista, il parlamento dell'Italia e quello della Francia. La seconda metà del sec. XIX diede occasione a molti egregi architetti di affermarsi, specializzandosi, in questo complicato tema dell'arte loro. I concorsi pubblici nazionali ed internazionali non furono pochi.
Fra i parlamenti moderni è considerato primo in ordine di data il Congresso degli Stati Uniti d'America: il cosiddetto Campidoglio di Washington. La primitiva costruzione fu incominciata sul finire del secolo XVIII; presto sospesa e rimasta quindi incompiuta, fu distrutta dagl'Inglesi nel 1814. Il palazzo fu poi riedificato su progetto dell'architetto Anderson tra gli anni 1851 e 1867. Esso è costituito da un gran fabbricato centrale sul quale campeggia un'enorme cupola, e da due edifici laterali (collegati al primo per mezzo di ampie gallerie) ciascuno dei quali comprende uno dei due rami della rappresentanza parlamentare: l'edificio, dall'aspetto assai imponente, è improntato alle più spiccate caratteristiche dell'arte classica quale era sentita alla metà del sec. XIX.
Un altro dei più vecchi fra i moderni parlamenti è quello inglese. Lo distrusse quasi interamente nel 1834 un incendio, in seguito al quale fu bandito il concorso per lo studio di una nuova sede parlamentare sulla stessa area. Vincitore dell'importante gara fu l'architetto Carlo Barry. La costruzione, cominciata nel 1837, ebbe termine nel 1868. L'edificio, comprendente la Camera dei lord e quella dei comuni, rivela lo stile gotico inglese con varie accentuazioni altimetriche fra le sue masse che lasciano spiccare con speciale grandiosità, fra il giuoco ascensionale dei tipici particolari stilistici, la Torre dell'orologio, alta 98 m., e la Torre Victoria, che raggiunge i 104 m. d'altezza. Il fabbricato copre una superficie di circa trentamila mq. e la sua principale facciata, prospettante sul Tamigi, presenta uno sviluppo di 287 m. Un ampio corpo di fabbrica sporge a un'estremità del nuovo palazzo, accentuando l'irregolarità del perimetro generale. È, quella, una porzione del vecchio edificio scampata all'incendio del 1834, assai ingegnosamente incorporata nel nuovo fabbricato; e ha pure particolare interesse storico perché comprende parte dell'antichissimo edificio della primitiva Westminster Hall.
La Camera dei deputati francesi in Parigi ha per sua sede l'ex-palazzo Borbone, la cui costruzione fu iniziata nel 1722 dall'italiano Girardini e che venne adattato una prima volta (1795), per le sedute del Consiglio dei Cinquecento, da Gisor e Lecomte. Nel 1807 l'architetto Poyet l'arricchì del classico prospetto verso la Piazza della Concordia. Infine, tra gli anni 1828 e 1833, l'architetto Joly la trasformò in quello stato (com'è al presente), che la fece esempio tipico di tante aule parlamentari successive. Il Senato francese ha la sua sede nel Palazzo del Lussemburgo, costruito dall'architetto De Brosses tra il 1615 e il 1620. L'aula delle adunanze è opera dell'architetto Gisor, il quale la cominciò nel 1836 e la condusse a termine nel 1841.
Le antiche rappresentanze del popolo tedesco che solevano raccogliersi saltuariamente in località diverse, ebbero sede stabile nella Sala di consiglio di Ratisbona nel 1663 e vi rimasero fino al loro scioglimento nel 1806. La funzione parlamentare fu poi rappresentata in Germania dal Consiglio federale (Bundesrat) e dalla Dieta imperiale (Reichstag). L'edificio che accoglie il Consiglio federale fu costruito tra gli anni 1892 e 1899 dall'architetto Schulze. Il palazzo del Reichstag è opera di P. Wallot. La costruzione s'iniziò nel 1884 e l'edificio fu inaugurato il dicembre del 1894. Il palazzo, che s'impone per grandiosità e ricchezza, non è sfuggito alla critica, ma è certo uno degli edifici monumentali più importanti e significativi del suo tempo.
Il parlamento (Reichsratshaus) di Vienna è considerato uno dei migliori fra gli edifici del genere, specialmente fra quelli che comprendono due camere legislative. Fu eretto sul Ring tra gli anni 1874 e 1883 su disegno di T. Hansen. L'insieme delle molte parti costituenti questo palazzo è assai seriamente studiato. I due rami del parlamento: Camera dei signori a sinistra e Camera dei deputati a destra, con tutte le relative dipendenze, risultano perfettamente separate e collegate al tempo stesso, formando un insieme armonico e organico. L'autore ha tenuto a individuare, facendoli spiccare anche in altezza, i due corpi di fabbrica corrispondenti alle aule parlamentari, riservando alla parte centrale del grande edificio la naturale funzione di collegamento pratico ed estetico. Lo stile adottato dal Hansen per questo palazzo, è improntato all'arte greca.
Il parlamento della nazione magiara in Budapest, si eleva lungo la riva del Danubio, tra il ponte aella Margareta e il ponte della Catena. È opera dello Steindl. La costruzione ebbe inizio nel 1885. Anche in questo palazzo sono compresi i due rami del parlamento; i quali vi svolgono la loro attività ben separati, ma anche collegati da un ampio salone centrale generante una gran cupola, la quale domina su tutta la composizione. Lo stile medievale, trattato alquanto scenograficamente, informa all'esterno come all'interno la decorazione di tutto il palazzo.
Anche il parlamento elvetico, eretto in Berna, comprende la sede dei due corpi legislativi; il Consiglio nazionale e il Consiglio provinciale. È opera dell'Auer.
La sede del potere legislativo per il regno d'Italia ha una particolare storia in conseguenza delle varie peregrinazioni imposte dagli avvenimenti nazionali. Il parlamento subalpino fu inaugurato in Torino il giorno 8 maggio 1848 a palazzo Madama destinato come sede del Senato, e il giorno dopo la Camera elettiva iniziava i suoi lavori a palazzo Carignano. Le sedute dalla Camera vitalizia si tennero sempre nel salone a primo piano del palazzo Madama, e quelle della Camera subalpina, o dei deputati, nella grande aula al primo piano del palazzo Carignano, ossia nel salone circolare sopra l'androne d'accesso al palazzo architettato dal Guarini.
Il parlamento nazionale italiano fu trasferito nel giugno del 1865 a Firenze: la Camera dei deputati prese sede nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, e il Senato nel Teatro mediceo agli Uffizî. Inaugurata la nuova sessione parlamentare in Roma capitale (27 novembre 1871), la Camera dei deputati stabiliva e adattava la propria sede nel palazzo di Montecitorio (costruito dal Bernini per i Ludovisi nel 1650) e il Senato si fissava nel palazzo Madama, che fu dei Medici.
Entrambi i rami del parlamento italiano occupano ancora la primitiva loro sede romana. Il Senato s'è assestato nel palazzo Madama, al quale sono stati apportati ampliamenti considerevoli.
La Camera dei deputati invece, pur essendosi definitivamente fissata a Montecitorio, passò attraverso vicende meritevoli di essere particolarmente ricordate. La primissima aula, costruita nel gran cortile semicircolare di Montecitorio, dovette ben presto essere sostituita, nel 1879, dalla grande aula ditta "aula Comotto" dal nome del suo autore.
Alla morte di Vittorio Emanuele II, fu da più parti avanzata la proposta di creare, come monumento onorario al gran re, un nuovo palazzo del parlamento. L'idea non fu accolta, ma al concorso donde scaturì l'attuale monumento, si poté constatare in qualcuno dei progetti presentati la prova dell'assennatezza di quel concetto.
Nel 1883 fu bandito un concorso nazionale per un apposito palazzo, destinato a ospitare i due rami del parlamento.
La gara artistica fu assai importante; purtroppo sfumò senza lasciar traccia e, nel 1889, il governo indisse un nuovo concorso nazionale.
Il palazzo avrebbe dovuto comprendere, oltre ai due rami del parlamento, anche una grande aula per le sedute reali; la località prescelta: l'altura di Magnanapoli dominante il Foro Traiano; imposta la conservazione della torre delle Milizie, ma nessun'altra prescrizione che tenesse nel dovuto conto i ritrovamenti archeologici oggi effettuati ma fin da allora supponibili. Il concorso ebbe un brillante successo artistico; si può dire che abbia segnato una tappa importante nella storia dell'architettura italiana di quel tempo; ma, purtroppo, anche per serie circostanze politiche, il proposito governativo venne abbandonato. Nel 1897, le lamentate deficienze dell'"aula Comotto" indussero il governo a deliberarne la sostituzione, sempre però nello stesso palazzo di Montecitorio. Fu indetto un concorso per il progetto di una nuova aula e per la relativa sistemazione del palazzo entro i suoi limiti originarî. Segnalati come migliori e premiati tre progetti, i loro autori ripeterono la gara nell'anno successivo; ma nonostante il felice risultato della prova, l'iniziativa non ebbe seguito. Più tardi, abbandonato ogni proposito di concorso, si diede all'architetto Ernesto Basile l'incarico di allestire nuovi studî, con la facoltà di estendere l'opera sua di trasformazione fuori dei limiti del palazzo; il rispetto dei quali aveva rivelato l'abilità dei precedenti concorrenti. L'ardita rinnovazione progettata e portata a compimento dal Basile può dirsi tecnicamente riuscita. La forma artistica però, sia quella architettonica dell'esterno, sia quella decorativa degli interni, fu ed è assai discussa. Per la collaborazione artistica data all'architetto Basile, basti ricordare tre nomi: G. A. Sartorio pittore, Davide Calandra e Domenico Trentacoste, scultori.
Oltre ai parlamenti dei quali è dotato ogni stato europeo, molti ne sorsero in altri continenti, come affermazione di precise nazionalità, o come rappresentanza di entità coloniali. Dal piu al meno, il principio informatore di questi edifici è il medesimo; ma gli sviluppi ne variano alquanto i risultati. P. es., a Sidney, capitale del dominion inglese della Nuova Galles del Sud (Australia) fu eretto, su disegno dell'architetto Lynn, un palazzo del parlamento nel quale sono riuniti il parlamento e la casa del governo. E a Melbourne l'architetto P. Karr, ha creato un edificio il quale, con i suoi ricchi colonnati, con la sua monumentale elevazione mediana, con il suo complesso architettonico grandioso, si può ben dire che abbia soddisfatto, oltre alle esigenze pratiche, anche a quelle volute da un gusto, magari discutibile.
Il parlamento della Repubblica Argentina, ivi chiamato Palazzo del Congresso, è sorto in un punto importantissimo di Buenos Aires e ha avuto il merito di provocare un assai propizio rivolgimento urbanistico nella vecchia e monotona disposizione stradale ed edilizia di quella città. È un vasto e ricco edificio dovuto all'architetto italiano Vittorio Meano. Esso comprende il Senato e la Camera dei deputati, nonché una sala rotonda centrale sormontata da una cupola. Stilisticamente l'edificio risponde a quell'architettura che si dice d'ispirazione classico-romana. La Repubblica dell'Uruguay, volle sostituire il vecchio e disadatto palazzo della "Representación Nacional" con un nuovo e grandioso edificio che chiamò "Palacio Legislativo". Vicende varie hanno alternativamente avviato, sospeso e fatto riprendere l'iniziativa, che aveva avuto principio con un progetto del ricordato Meano, rimaneggiato poi da altri alla morte di lui. Nel 1913 fu dato incarico all'architetto Gaetano Moretti di Milano di riprendere in esame l'argomento. L'inaugurazione del palazzo ebbe luogo nel 1925, col funzionamento di entrambi i rami del parlamento. Tuttavia ancora oggi il fabbricato, completamente finito all'interno, non è ancora compiuto nelle grandi e significative ornamentazioni architettoniche e scultoree delle facciate.
Si potrebbe osservare che, se v'è caso nel quale l'espressione esteriore del fabbricato dovrebbe rivelare le caratteristiche d'arte della nazione rappresentata, è proprio l'edificio del parlamento. Invece, salvo rare eccezioni, si deve asserire che assai poco seguito ha avuto quel principio.
L'arte romana, nelle sue varie interpretazioni esotiche, è quella che più ebbe influenza sul carattere architettonico dei non pochi palazzi parlamentari costruiti all'estero.
All'inizio del 1934 è facile constatare come, allo stesso modo che i rivolgimenti politici della fine del secolo XVII provocarono il sistema rappresentativo che diede vita agli esistenti edifici parlamentari, così non è fuori di luogo supporre che le mutate o mutabili tendenze politiche odierne possano dar vita a nuovissime organizzazioni, e che quindi per ospitarne le rappresentanze, non possano più valere i criterî edili e architettonici fin qui seguiti. D'altra parte, non è affatto improbabile che un forte rivolgimento sia portato in questi edifici di rappresentanza, e specialmente nelle aule di discussione, anche dai considerevoli progressi odierni delle scienze applicate all'edilizia ed alla tecnica dei rispettivi servizî. Ce ne offrono sicura prova gl'interessanti studî e le applicazioni pratiche di questi ultimi tempi, a sale da concerto, di conferenze, di spettacolo ed anche a edifici di culto, già in funzione nel nostro e in altri paesi.