Paradoxa Stoicorum (De Paradoxo)
Dell'opera di Cicerone D. riporta, traducendolo, un passo in Cv IV XII 6 E però dice Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze: " Io in nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né le magioni magnifiche, né le ricchezze, né le signorie, né l'allegrezze de le quali massimamente sono astretti, tra cose buone o desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io vedesse li uomini ne l'abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che abondano. Però che in nullo tempo si compie né si sazia la sete de la cupiditate; né solamente per desiderio d'accrescere quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno ne la paura di perdere quelle ".
Si legga Cicerone (Par. I I 6): " Numquam mehercule ego neque pecunias istorum neque tecta magnifica neque opes neque imperia neque eas, quibus maxume astricti sunt, voluptates in bonis rebus aut expetendis esse duxi, quippe cum viderem rebus his circumfluentis ea tamen desiderare maxime, quibus abundarent. Neque enim umquam expletur, nec satiatur cupiditatis sitis; neque solum ea qui habent libidine augendi cruciantur, sed etiam amittendi metu ". Torna comodo a D. rifarsi allo scritto di Cicerone, perché in esso trova la condanna delle ricchezze. Ma va notato che D. traduce con allegrezze il " voluptates " di Cicerone, e non rende il valore del termine latino; inoltre, D. traduce " duxi " con dissi, forse per errata lezione del testo che aveva presente, e, ancora per errata lezione (legge " quae " in luogo di " qui "), rende " ea qui habent " con quelle cose che hanno (cfr. F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 101-102, che tiene conto dei rilievi fatti da altri studiosi, in particolare dal Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 219).
L'opuscolo di Cicerone, scritto nel 46 a.C., raccoglie sei paradossi stoici, cioè sei affermazioni contrarie all'opinione comune; cfr. Cic. Par., prooem. 4 " Quae... sunt admirabilia contraque opinionem omnium (ab ipsis etiam παράδοξα appellantur) "; cfr. Acad. II 136. Essi sono: 1) " Quod honestum sit, id solum bonum esse "; 2) " In quo virtus sit, ei nihil deesse ad beate vivendum "; 3) " Aequalia esse peccata et recte facta "; 4) " Omnes stultos insanire "; 5) " Omnes sapientes liberos esse et stultos omnes servos "; 6) " Quod solus sapiens dives ". La trattazione di essi è condotta dall'autore secondo i criteri della disputa oratoria: " degustabis " - scrive Cicerone a Marco Giunio Bruto, al quale l'opera è dedicata - " genus exercitationum earum, quibus uti consuevi, cum ea, quae dicuntur in scholis θετυκῶς, ad nostrum hoc oratorium transfero dicendi genus " (Par., prooem. 5).