PARADISO (dal persiano pairidaeza, da cui anche l'ebraico pardeš, attraverso il greco παράδεισος, con il significato primitivo di "giardino recinto", "verziere", "parco")
È, nell'uso comune cristiano moderno, il luogo di perfetta letizia ove andranno i giusti dopo la morte in premio della loro giustizia, e rappresenta quindi il contrapposto al luogo di pene, o inferno, destinato ai malvagi. La scelta di questo termine per tale designazione fu determinata dalle parole di Gesù morente che disse al ladrone pentito: "In verità ti dico, oggi con me sarai nel paradiso" (Luca, XXIII, 43) Ma anche altri passi della Scrittura influirono sulla scelta di questo termine: tali le parole di S. Paolo che dice di essere stato rapito "nel paradiso" (II Cor., XII, 4), dopo avere affermato di essere stato rapito "fino al terzo cielo" (ibid., XII, 2); inoltre il racconto della primitiva coppia umana (v. adamo), la quale secondo il testo ebraico fu posta in un "giardino in Eden" (Genesi, II, 8 segg.), mentre i Settanta traducono questa espressione con "paradiso in Eden" (cfr. anche Apocalisse, II, 7). Perciò molti scrittori cristiani antichi identificarono il "giardino" della prima coppia umana col luogo destinato ai giusti dopo la morte. Per l'ubicazione del "giardino", v. eden.
Altri scrittori, tuttavia, designarono il luogo dei giusti col termine di "seno di Abramo", in forza dell'espressione di Cristo nella parabola del ricco epulone (Luca, XVI, 22), dal cui contesto risulta che l'espressione allude ad una località cosmica situata in alto in qualche regione celestiale (cfr. ibid., XVI, 26). Di qui sorse un altro quesito. Mentre alcuni scrittori ammettevano che il "giardino" della primitiva coppia umana fosse situato in una regione celestiale, altri non erano disposti a concedere ad esso una situazione così elevata; perciò costoro, pur seguitando a designare il luogo dei giusti col termine di "giardino" ossia "paradiso", ne precisarono il senso, e vi aggiunsero l'aggettivo "terrestre", se s'intendeva il luogo della primitiva coppia umana ("paradiso terrestre"); mentre se s'intendeva il luogo dei giusti vi si aggiunse l'aggettivo "celestiale", o più frequentemente s'impiegò da solo ("il paradiso" per antonomasia). Ma questa precisazione del termine è piuttosto tardiva, giacché fino circa al sec. VI il vocabolo "paradiso" impiegato da solo indica costantemente il "giardino" della primitiva coppia umana.
L'incertezza della terminologia continuò per secoli, e anche più si protrasse l'incertezza delle concezioni cosmologiche, di cui si trovano chiare conseguenze nella Divina Commedia. Mentre per Dante il "paradiso" dei giusti è totalmente celestiale, occupando lo spazio dal cielo della Luna in su, il "paradiso terrestre" è sol di poco inferiore al cielo della Luna, è situato su una montagna, altissima, posta nell'emisfero meridionale (in opposizione a quello settentrionale abitato dagli uomini) ed inaccessibile ad ogni mortale ancora in vita. Questa concezione del "paradiso terrestre" dantesco dipende specialmente dall'idea suaccennata di un Eden situato in qualche regione celestiale o, secondo altri scrittori antichi, addirittura sospeso fra cielo e terra.
Concetto teologico. - Nella dottrina cattolica il paradiso, in quanto è lo stato dei giusti dopo la morte, è costituito essenzialmente dalla visione beatifica di Dio, cioè dalla cognizione intuitiva e immediata dell'essenza di Dio; in virtù di essa "le anime dei santi vedono la divina essenza con visione intuitiva ed anche faciale, non essendovi di mezzo alcuna creatura che funga in ragione di oggetto veduto, bensì mostrandosi la stessa divina essenza immediatamente, nudamente, chiaramente e apertamente" (costit. Benedictus Deus, di Benedetto XII). Questa visione di Dio, fine ultimo dell'uomo e somma meta delle sue aspirazioni, è ciò che rende essenzialmente beato l'uomo stesso (cfr. I Cor., XIII, 12; I Giovanni, III, 2). Tuttavia siffȧtta visione di Dio è assolutamente soprannaturale all'uomo e ad ogni intelligenza creata, e concessa solo per effetto della grazia soprannaturale. Conseguenza di questa visione beatifica sono il suo perenne ed immutabile possesso da parte di coloro che l'hanno raggiunta (eternità della gloria dei beati), quindi anche l'impeccabilità dei medesimi. Oltre a questa beatitudine, essenziale per lo stato dei giusti dopo la morte, i teologi enumerano molte altre beatitudini accidentali, che sono parimente conseguenza della prima. Tali la mancanza assoluta di ogni pena; la riunione dell'anima col corpo glorificato, dopo la resurrezione dei morti; la compagnia gloriosa di Cristo e dei beati, ecc.
Vi saranno tuttavia varî gradi di beatitudine a seconda dei varî gradi di meriti posseduti da ciascun beato. V. anche eden.
Bibl.: Per la storia delle concezioni cosmologiche cfr. de Vuippens, Le paradis terrestre au troisième ciel, Parigi-Friburgo 1925; G. Ricciotti, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante (vol. II di: L'Apocalisse di Paolo siriaca), Brescia 1932; per il concetto teologico vale qualunque corso di teologia dogmatica, al trattato De novissimis.
Storia delle religioni. - Nel significato religioso che, attraverso l'uso biblico ed ecclesiastico del termine, è il solo sopravvissuto, il paradiso è un luogo in cui i defunti godono eterna beatitudine. Il concetto si trova, sotto nomi e forme diverse, nella maggiore parte dei sistemi religiosi. Fanno tuttavia eccezione alcune religioni, quali quelle del mondo classico e la religione egiziana, nella loro forma primitiva e popolare, per cui la morte è seguita solo da una mesta forma di sopravvivenza, pallido riflesso dell'esistenza terrena, e confinata nell'ombra del sepolcro; e il buddhismo, per cui ogni esistenza è un male e che vede nel nirvana la fine ultima e desiderabile del ciclo delle vite mortali. Ma per il fatto che nella maggior parte delle religioni coesistono elementi disparati, e anche contraddittorî, la nozione di paradiso ha trovato posto anche nei sistemi religiosi sopra menzionati, almeno nelle loro forme alterate o evolute. Essa risponde a un bisogno di felicità, e altresì di giustizia, inerente alla natura umana; la sua precisione e chiarezza dipendono, nelle diverse religioni, dall'idea che ci si fa dell'anima e dei suoi destini; considerando la storia delle religioni nel suo complesso, si può dire che quella nozione si evolve nel senso di una spiritualizzazione sempre maggiore.
Il paradiso è generalmente localizzato in una regione lontana e indefinita, rigorosamente separata dal mondo dei mortali e raggiungibile solo correndo rischi terribili. Assai sovente esso si trova ai confini della terra, in genere a occidente (così nel buddhismo cinese e giapponese); spesso è al di là dei mari, nelle Isole dei beati, l'accesso alle quali secondo la religione assiro-babilonese è riservato ad alcuni privilegiati, e che si trovano anche nella religione greca e nella romana. Sede del paradiso è anche spesso il mondo sotterraneo, ore è pure la dimora dei malvagi: così i Campi elisî della mitologia classica. Infine, il paradiso è talvolta localizzato nel cielo, come nel mazdeismo e nella maggior parte delle sette filosofico-religiose, spiritualistiche, dell'antichità classica. Ma è un abusare del termine il parlare a tale proposito di un paradiso celeste.
Come dimostra l'etimologia, infatti, paradiso designa un luogo concreto, con caratteri materiali e sensibili: per lo più è un giardino o un prato, dove, in un'eterna primavera, la natura prodiga i suoi doni: fonti, fiori e frutti, dolci zefiri e canti di uccelli (cfr. p. es. Odissea, IV, 365 seg.). Di tali raffigurazioni-poetiche si sono compiaciute la fantasia dei Celti e, anche con maggior precisione, la letteratura vedica. Le delizie del paradiso hanno infatti, in queste religioni, un carattere tutto sensibile, se non proprio sensuale: sono, ingranditi ed eterni, i piaceri cercati sulla terra. Pertanto, in ciascuna nozione del paradiso si riflettono i caratteri della civiltà da cui è sorta; e per i primitivi dell'Australia la gioia paradisiaca consiste nel possedere capanne più vaste e comode, terreni più ricchi di caccia, al sicuro da malattie e da pericoli. Virgilio immagina i beati (Eneide, VI) dediti ai piaceri della musica, del canto e della palestra; nel Walhalla germanico, i guerrieri lottano e banchettano in compagnia di Odino.
L'accesso al paradiso è concepito dapprima come un privilegio dei personaggi di stirpe divina (Odissea, loc. cit.) o di una classe dirigente, come presso i Germani, per i quali tuttavia dev'essere meritato con una morte eroica; ed essendo il coraggio fisico la virtù principale, appare qui il concetto di una retribuzione. Così il paradiso è presto concepito come una ricompensa, accessibile a tutti i giusti, attraverso determinate prove e, in particolare, un giudizio. E dal canto loro anche le delizie del paradiso assumono un carattere sempre più spirituale, finché la nozione stessa del paradiso si risolve in quella di beatitudine (mazdeismo, neoplatonismo e neopitagorismo).
Bibl.: A. Bertholet, Die Gefilde der Seligen, Tubinga 1903; E. Rohde, Psyche, trad. ital., Bari 1928; C. Pascal, Le credenze d'oltretomba nelle opere letterarie dell'antichità classica, 2ª ed., Torino 1923, voll. 2; N. Söderblom, La vie future d'après le mazdéisme, Parigi 1901; Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics I, Edimburgo 1908, II, p. 680 segg.; XI, p. 833 segg.