Paradiso
Nella letteratura protocristiana con il termine paradisus (greco παράδεισος, " giardino "), s'intese designare l'Eden o giardino delle delizie (paradisus voluptatis) in cui Dio collocò Adamo (Gen. 2, 8-15; cfr. Ezech. 28, 2-16; 31, 3-18; Iob 15, 7-8; Deut. 30, 12-13; Baruch 3, 24-30; Luc. 23, 43; Paul. II Corinth. 12, 4; Apoc. 2, 7; cfr. P. Bernard, Ciel, in Dictionnaire de Théologie Catholique, II, Parigi 1923, 2474-2511; É. Cothenet, Paradis, in Dictionnaire de la Bible, Supplément, VI, ibid. 1960, 1177-1220; anche F. Vigouroux, Paradis, in Dictionnaire de la Bible, IV 2, ibid. 1912, 2119-2123). Tale opinione era legata all'antichissima cosmologia ebraica e all'esegesi scritturale, e venne via via sviluppata dalla tradizione giudaico-cristiana che pose il P. terrestre o in cielo, nel piano superiore dell'edificio cosmico (spesso identificato col " terzo cielo " della Visio Pauli), dov'era collocata la Gerusalemme celeste, ovvero in un luogo intermedio tra terra e cielo, oltre l'Oceano inattraversabile, o, ancora, in una località imprecisata al di là della terra e irraggiungibile all'uomo (per tutto ciò vedi i fondamentali contributi di G. Ricciotti, L'apocalisse di Paolo siriaca, I, Introduzione, traduzione e commento; II, La cosmologia della Bibbia e la sua trasmissione fino a D., 2 voll., Brescia 1932; e B. Nardi, Il mito dell'Eden, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 311-340). Ma tra i padri della Chiesa operò anche la distinzione tra P. come Eden, che era considerata dimora provvisoria dei giusti dopo la morte, in attesa del giudizio finale, e il ‛ regno dei cieli ' (regnum caelorum), ubicato nella sommità del piano superiore cosmico, sede del trono di Dio, in cui risiederanno tutti i giusti, dopo il giudizio, per godere di una felicità eterna e perfetta. Sicché per indicare l'Eden, l'originale giardino delle delizie, al termine P. fu aggiunta la qualificazione ‛ terrestre ', mentre il P. come tale (o con l'aggiunta di ‛ celeste ') venne a indicare il regnum caelorum o Dei del Nuovo Testamento (cfr. Matt. 4, 17 " appropinquavit enim regnum caelorum ", e anche 3, 2; 5, 3 e 10; 10, 7; 11, 12; 13, 24, 31, 33, 44, 45 e 47; 18, 23; 19, 14, ecc.; Marc. 1, 15; 4, 26; 10, 14; Luc. 6, 20; 10, 9 e 11; 13, 18, ecc.).
Tali opinioni si alimentavano inoltre dei dati della letteratura apocrifa apocalittica e agiografica, particolarmente ricca e fortunata per tutto il Medioevo; che il cielo fosse ‛ dimora di Dio ' era inoltre un dato scritturale ampiamente attestato.
Su questo dato comune, della presenza di Dio nei cieli, e sulla tradizione ebraico-cristiana venne formandosi l'idea di una comunità celeste dei giusti, perennemente felice nella visione beatifica di Dio. Già nei padri della Chiesa sono ritrovatili (specie in s. Ireneo) gli elementi essenziali della tradizione cristiana. Con la patristica greco-latina dei primi secoli, la dottrina del P. celeste è infatti fissata nelle sue linee generali: una vita ultraterrena comune a tutti i beati posta nei cieli è ormai accettata da tutti, variano semmai le soluzioni di problemi particolari.
È con s. Agostino che tutti i temi precedenti vengono ripresi e discussi, spesso senza trovare definitiva soluzione; in primo luogo il problema del differimento del possesso del regno celeste da parte dei beati e se il P. s'identifica o no con il cielo sommo: " illum paradisum sive in tertio coelo sive ubicumque alibi est, quo post tertium coelum est raptus apostolus, si tamen non aliquid unum est diversis nominibus appellatum, ubi sunt animae beatorum " (Gen. ad litt. XII 34). Se parlerà del regno celeste come unione di Cristo e di santi presso Dio (Civ. XX 9) e lo definirà un luogo di tipo materiale, " loca similia corporalibus " (Gen. ad litt. XII 32), non s'impegnerà mai in una definizione ‛ fisica 'e ‛ strutturale ' dell'al di là.
Gregorio Magno tornerà da parte sua sul tipo di godimento intellettuale derivante dalla visione di Dio e sugli effetti molteplici di essa (Dial. IV 23, 25 e 28-29; Moral. XII 9, 21 e 43). Tra il VII e il XII secolo gl'insegnamenti della patristica latina, e soprattutto di Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, rimangono il fondamento delle trattazioni sul P. e il regno celeste. Seppure attraverso una più attenta considerazione delle ragioni naturali che devono presiedere all'esatta ubicazione cosmologica del P., le qualificazioni di esso sono ancora tutte nel clima morale-allegorico del pensiero altomedievale. Il problema del P. è innanzi tutto quello della visione intuitiva di Dio e della condizione delle anime e dei corpi resuscitati. A questi temi di più spiccato interesse teologico si aggiungono i dati della tradizione degli scritti apocrifi e delle visiones (soprattutto la Visio Pauli), assai più ricca di spunti letterari e ‛ strutturali '; per non dire di testi fortunatissimi nel Medioevo quali il ciceroniano Somnium Scipionis nel commento di Macrobio, il De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella e il Corpus areopagiticum, presente in tutta la tradizione mistica, che ne trasse gli elementi tipici dell'ascesa dell'anima a Dio, a cui vanno aggiunte le suggestioni platoniche presenti nella patristica, nella specifica tradizione neoplatonica (in modo particolare Plotino, Proclo e il Liber de causis) e nella sua versione arabo-latina (Avicenna e Alberto Magno soprattutto).
Tutto questo insieme di dottrine e di stimoli si combina, tra il XII e il XIII secolo, col recupero del corpus aristotelico e, in primo luogo, con le dottrine fisiche dello Stagirita. La struttura del mondo celeste aristotelico-tolemaica deve, in qualche modo, accordarsi con i dati della tradizione giudaico-cristiana. Molto della speculazione scolastica si misurerà anche in questo sforzo di concordismo tra la cosmologia mosaico-cristiana e quella greco-araba. I problemi più rilevanti in questo ambito saranno quelli dell'ubicazione e caratterizzazione del P. terrestre (v.) o Eden e del cielo Empireo (v. EMPIREO; e anche B. Nardi, La dottrina dell'Empireo nella sua genesi storica e nel pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 167-214; R. Mondolfo, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, ibid. 1956, 289 n. 5, 423-424).
Per quanto attiene il P. come tale, la sede celeste dei beati, la nozione appare immutata, né si tratta di un dato posto in discussione.
In conformità con l'uso medievale del termine, D. designa generalmente con P. il ‛ luogo ' di beatitudine eterna per le anime giuste, sede di Dio e delle corti angeliche, quello che egli percorre nella terza e ultima fase del suo viaggio ultraterreno; ma P. è anche l'insieme degli angeli e dei beati, ed è la stessa beatitudine celeste, stato di felicità, di completezza, di perfezione spirituale determinato dalla visione di Dio.
In senso proprio di luogo, il termine ricorre nel III trattato del Convivio, in Amor che ne la mente 56 Cose appariscon ne lo suo aspetto / che mostran de' piacer di Paradiso, e nei passi di commento a tali versi, sempre legato a ‛ piacere ' o ad altro vocabolo di analogo significato: VIII 5 ne lo suo aspetto [della Donna gentile] appariscono cose che mostrano de' piaceri di Paradiso... ma per altro modo che per lo contentare in Paradiso [che] è perpetuo; XV 2 ne la faccia di costei [la sapienza] appaiono cose che mostrano de' piaceri di Paradiso; e più oltre quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso; XV 5 ne l'aspetto di costei [la sapienza] de le cose di Paradiso appaiono; ancora il sintagma piacere di Paradiso è al § 11.
Lo stesso valore hanno le espressioni festa / di paradiso (Pd XIV 38: " piena ed eterna beatitudine del P. "); gaudia Paradisi (Ep XIII 51) e ‛ deliciae Paradisi ' (§ 76 in deliciis paradisi Dei fuisti; cfr. Ezech. 28, 13).
Valore proprio, di luogo, anche in Rime XCIII 14 ella è sì d'ogni peccato netta / come angelo che stia in paradiso, e in Fiore CVIII 14 e CXI 2. P. è il luogo sede della " divina corte di Paradiso " (Chiose Vernon) in Pg I 99 [il] primo / ministro, ch'è di quei di paradiso; analogo significato in Pd XXX 44 l'una e l'altra milizia / di paradiso.
In Pd X 105 Grazian... l'uno e l'altro foro / aiutò sì che piace in paradiso, il termine vale " Dio e la divina corte angelica "; in XXI 59 la dolce sinfonia di paradiso è " il dolce accordo dei devoti canti dei beati " (Grabher), e in XXVII 2 tutto 'l paradiso è la divina corte del P. che canta ‛ gloria! '... ‛ Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo ' (v. 1; Lana: " Il paradiso. Qui pone continens pro contenuto "; Benvenuto: " tota illa turba beatorum, quae ostendebatur ibi in illa octava spaera in diversis ordinibus "); La forma general di paradiso (XXXI 52) è l'insieme ordinato degli angeli e dei beati (" viderat angelos ministrantes et beatos contemplantes ", Benvenuto.
P. è lo stato di beatitudine eterna per le anime giuste: Pd III 89 ogne dove / in cielo è paradiso: " ogni luogo, in P. (cielo), è piena e perfetta beatitudine ". " Beatitudine dei beati " è per il Buti paradiso in XVIII 21 (Volgiti e ascolta; / ché non pur ne' miei occhi è paradiso); " beatitudine dei santi " in XXIII 61. A Pd XV 36 dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso, il Buti chiosa: " della mia beatitudine... della mia felicità, che io debbe avere vedendo Iddio ", e Benvenuto: " gratiae mihi concessae a Deo et meae beatitudinis ". In Rime LXVIII 28 ricordando la gio' del dolce vaso, / a che niente par lo paradiso, P. è ancora la " beatitudine celeste ".
D. vuole indicare il P. terrestre in Pd VII 38 fu ella [l'umana natura] sbandita / di paradiso, e 87 Vostra natura... / di paradiso, fu remota; in Mn III XV 7 terrestrem paradisum è contrapposto a paradisum coelestem; lo stesso valore in VE I IV 2 De fructu lignorum quae sunt in paradiso vescimur; de fructu vero ligni quod est in medio paradisi (cfr. Gen. 3, 2-3), e V 3 si extra paradisum afflatus est homo.
In Ep XIII 11 Comoediae sublimem canticam, quae decoratur titulo Paradisi, 37 cantica tertia... quae dicitur Paradisus, e 43 tertia cantica quae Paradisus dicitur, P. indica il ‛ titolo ' della terza cantica.
Il termine P. non ricorre nella Vita Nuova, dove per indicare il luogo di eterna beatitudine sono usati il più generico ‛ cielo ' o varie perifrasi: questo corrisponde al tono più vago e sfumato dell'operetta giovanile, al non frequente uso del vocabolo nella terminologia stilnovista, ma anche al fatto che il P. con la sua struttura e collocazione precisa era una dimensione che il poeta non sentiva ancora in riferimento a Beatrice, la quale non era vista ancora in funzione di un ben determinato e definito mondo ultraterreno.
Frequente in D. l'uso di varie perifrasi per indicare il P. o più specificamente l'Empireo: il reame ove li angeli hanno pace, Vn XXXI 10 16; region de li angeli, Pd II 20; regno santo, I 10; deiforme regno, II 20; sicuro e gaudioso regno, XXXI 25; imperio giustissimo e pio, XXXII 117; il chiostro / nel quale è Cristo abate del collegio, Pg XXVI 128-129; quella Roma onde Cristo è romano, XXXII 102; lerusalemme, Pd XXV 56; superna lerusalem, Ep II 5. Rispecchiano la tendenza di D. a inserire nella sua opera miti e vocaboli del mondo pagano, con preciso riferimento a temi della religione cristiana, alcune delle perifrasi per P., come l'alto Olimpo, Pg XXIV 15; Atene celestiali, Cv III XIV 15. In Ep XIII 66, 74 e 77 con la locuzione ‛ circumloqui Paradisum ' D. spiega che è il P., e più precisamente il cielo Empireo, quello che egli ha voluto indicare per mezzo di perifrasi in Pd I 4. **
Il P. nella Commedia. - La struttura del P. (per la quale v. anche la voce COMMEDIA) si ricollega naturalmente per alcuni aspetti a quella dell'Inferno e a quella del Purgatorio (per le considerazioni generali sulla struttura totale del poema si rimanda a Inferno). A parte la consecutività della collocazione topografica e della trama narrativa, ritorna anche in questa cantica la divisione in dieci parti, con una presenza del numero nove (il miracolo), del numero sette consacrato dalla Bibbia, del tre (simbolo della Trinità), dell'uno (Dio), essendo sette i cieli che prendono i nomi dai pianeti, cui si aggiungono, a fare nove, il cielo delle Stelle fisse, il Primo Mobile, e l'Empireo, con il quale si compie il numero di dieci; simile rimane inoltre il principio, costantemente presente dunque nelle tre cantiche, che più lontani da Dio sono i meno meritevoli (in questo caso, e limitatamente ai primi tre cieli, i beati che maggiormente risentirono in diversi modi della fragilità terrena).
Differente invece, sotto altri aspetti, la struttura nei confronti di quella delle due precedenti cantiche: principalmente perché s'immagina che tutti i beati abbiano nello stesso cielo, l'Empireo, ov'è Dio, i loro scanni, ma che, avendo una differente misura di beatitudine nascente dal sentire più o meno intensamente la carità per Dio suscitata dallo Spirito Santo, essi si presentino a incontrare D. distintamente, nei nove cieli che precedono l'Empireo, soltanto per concretare con segni sensibili ai suoi occhi umani certi loro caratteri, tra i quali, in particolare, il già citato vario grado di beatitudine: situazione che D. immagina anche in conformità di quanto scritto in Sum. theol. III Suppl. 93 2, dove si afferma: " Locus quo Sancti beatificabuntur, non est corporalis, sed spiritualis, scilicet Deus, qui unus est... quamvis sit unus locus spiritualis, tamen diversi sunt gradus appropinquandi ad locum illum ".
Il P. dantesco deriva ovviamente per la parte di gran lunga più importante da quanto sull'argomento avevano indicato l'escatologia cristiana, e l'arte letteraria e figurativa che a essa si era ispirata, pur intervenendo fortemente l'elemento di originalità assai frequente in D., ben spesso consapevole della tradizione teologica ma non alieno dall'intervenire con il proprio pensiero a modificare e a chiarire. In più egli aveva la necessità, nel caso specifico, di concretare, e minuziosamente, l'idea del P. in una narrazione poetica, risolvendo dunque con nettezza contraddizioni e incertezze della tradizione. Doveva nello stesso tempo dare al P. una struttura armonizzata con le altre parti del cosmo (visto soprattutto in relazione con la sorte degli uomini in vita e post mortem), disegnate nelle prime due cantiche del poema. Se l'idea di un mondo e di una situazione felice per coloro che erano stati in vita i migliori appariva inesistente o assai vaga nella religione della Grecia dei secoli più lontani, nella cultura ellenica dei secoli posteriori l'idea di una dimora felice di coloro che erano stati moralmente virtuosi era decisamente apparsa nelle dottrine misteriche, orfiche e pitagoriche, e per quella via era stata accolta dalla cultura latina (si pensi al Cicerone del Somnium Scipionis), e tra l'altro - fatto particolarmente importante - da Virgilio, fonte certa diretta e fondamentale (oltre tutto citata da D. in If II 13-27 anche se in relazione all'oltremondo in generale, e non propriamente al P.): da tale poeta era stata concretata nel canto VI dell'Eneide, dove - subordinata agl'interessi eroico-politici del poeta latino, e pertanto assegnata ai protagonisti della grande storia - esiste una parte di oltremondo rallegrata da musica, canto, giochi di palestra (mentre vi era adombrata anche la contemporanea esistenza in un pagano luogo di pena). L'idea dell'esistenza di un mondo ultraterreno che dava premio agli eroi nelle leggende germaniche e celtiche è pure largamente comprovata; così come l'idea di un oltremondo quale luogo di premio appare - caratterizzata da sensuale concretezza - nel Corano, non senza riflessi nella letteratura (si è insistito sul possibile influsso su D. del Libro della Scala, v.). Da qualsiasi fonte derivino, di figure di paradisi pieni di delizie assai più materiali che spirituali è comunque ricchissima tutta la letteratura cristiana latino-medievale, romanza, e in particolare italiana, anche quella di poco anteriore a D., o a lui contemporanea (basti pensare al De Ierusalem coelesti di Giacomino da Verona, al Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva, ecc.): da essi D. sembra voler prendere volutamente le distanze con continue dichiarazioni sulla spiritualità della gioia del suo P., anche se di quelle rappresentazioni, di norma ricche di giardini, fiori, musiche, risulta forse rimasta una qualche traccia, coinvolta in un testo di tono del tutto diverso, e in chiave di rappresentatività concreta: si pensi, nell'Empireo, alla descrizione della candida rosa, e si pensi ai paragoni prativi, fluviali, floreali, ecc., che, presenti lungo tutto il P., s'infittiscono in modo evidente negli ultimi canti. Non tanto della concezione ebraica su di un premio post mortem nel suo nucleo più importante e profondo (i giusti morendo si uniscono ai giusti del passato, e di questa unione si rallegrano di fronte a Dio), quanto dei cenni al P. contenuti nel Vecchio Testamento - che alludono peraltro prevalentemente a un P. terrestre - D. ebbe certo conoscenza. Tuttavia fonte sostanziale dovette essere per lui soprattutto il Nuovo Testamento: sia nei luoghi dove appare il termine (in Apoc. 2, 7, dove tuttavia sembra ancora alludersi al P. terrestre; in Luc. 23, 43, dove Gesù promette al ladrone un premio imminente dopo la morte; in Paul. II Corinth. 12, 2 ss., dove Paolo parla del proprio rapimento al terzo cielo; e ancora in Acp. Ap. 9, 15, passo particolarmente importante perché D. stesso lo cita in If II 28-30); sia nei passi che prospettano la visione di Dio da parte dei beati faccia a faccia (Matt. 5, 8; Paul. I Corinth. 13, 12); negli altri che collocano il P.. nei cieli (Apoc. 21, 10; Gal. 4, 26); in quelli dove appare il concetto anche se non il termine di Paradiso. La compresenza nella tradizione sacra - che poteva creare difficoltà - di un P. terrestre (v.) e di un P. celeste è risolta da D. con l'immaginare un P. terrestre al culmine del monte del Purgatorio ancora sulla terra, in un momento di trapasso, e un P. celeste al di là della sfera del fuoco, aventi nella struttura complessiva del racconto e nella realtà diverse funzioni: concezione, per quel che sappiamo, originale, almeno nel tono netto che assume in Dante.
La struttura morale del P. si collega sostanzialmente alla dottrina secondo la quale i pianeti esercitano vari influssi, di cui uno preminente, sull'uomo: dottrina accettata da D. con le riserve indicate in Pg XV 67-81, secondo le quali l'influsso degli astri determina i movimenti iniziali dell'animo ma non tutti, e senza che sia distrutto il lume della ragione a distinguere il bene dal male, e il libero volere, che può vincere gl'influssi degli astri, ove sia virtuosamente alimentato, anche se inizialmente duri fatica nel contrastare agl'influssi stessi: teoria, questa, che D. trovava in Sum. theol. II II 95 5, dove si afferma che " contra inclinationem coelestium corporum homo potest per rationem operari ", e che confermerà nello stesso P. (VIII 1-12) quando dichiarerà che false erano le antiche personificazioni mitologiche dei pianeti e il loro culto. Perché in realtà gl'influssi discendono invece per lui da Dio attraverso le mediazioni angeliche che governano i vari astri: verità che D. illustra in Pd II 112-144, dove spiega che dentro l'Empireo, il quale immobile contiene Dio, si volge il Primo Mobile nella cui virtù ha fondamento tutta la vita del cosmo, mediante le influenze che le sfere inferiori ricevono dalla prima. L'ottavo cielo infatti, adiacente alla nona sfera o Primo Mobile, attraverso l'intelligenza angelica che a esso presiede distribuisce la virtù, che riceve universale e indistinta dalla nona sfera, nelle diverse stelle, ciascuna dotata in tal modo di proprie distinte virtù, che producono loro specifici influssi attraverso le intelligenze angeliche che a esse sono inerenti in modo simile (non identico) a quello che unisce l'anima al corpo.
D. non volle evidentemente, con queste divisioni e distinzioni, a parte i motivi teologici, rinunziare del tutto alla già collaudata struttura narrativa secondo la quale incontrava vari spiriti in varie parti che nel suo viaggio successivamente visitava, spronato, evidentemente, a questo procedimento dal suo non mai abbandonato amore dell'armonia. Egli immagina di trovare nel primo dei cieli mosso dagli Angeli, quello della Luna, che influisce sulla psiche umana nel senso di determinare l'incostanza, coloro i cui voti rimasero sulla terra non osservati e incompiuti in qualche parte, oltre che per altrui anche per propria colpa, in quanto la volontà, se assoluta, non può mai essere oppressa. Tuttavia, secondo quanto Piccarda spiega a D., dubitoso che i beati che si presentano sulla Luna desiderino più alto luogo per contemplare più intensamente Dio e amarlo più fortemente, essi vogliono soltanto quello che hanno, e non desiderando altro, sono appagati: perché se volessero essere in più alto grado, sarebbe questa - cosa impossibile - una volontà discordante da quella di Dio che assegna a ciascuno il suo posto in proporzione al merito. Così D. aggira la difficoltà derivante da queste distinzioni di beatitudine che costituirebbero limitazione di gioia e giustifica in modo più pieno la scandita costruzione del Paradiso. Nel secondo cielo, quello di Mercurio, cui presiedono gli Arcangeli, D. trova gli spiriti ambiziosi che furono attivi perché a essi conseguisse onore e fama; nel terzo cielo, di Venere, che irraggia attraverso le intelligenze angeliche a esso preposte (i Principati) ciò che in terra vi è in fatto di amore (ma non soltanto il folle amore carnale vagheggiato dagli antichi), vi sono gli spiriti di coloro che degl'impulsi sensuali particolarmente risentirono. Cessano qui i gruppi dei beati i cui meriti furono in qualche modo oscurati da qualche non santa inclinazione, poiché nei cieli seguenti la distinzione avviene secondo virtù positive: nel cielo quarto, del Sole, cui presiedono le intelligenze angeliche delle Podestà, vi sono gli spiriti che rifulsero in terra per sapienza; nel cielo quinto, di Marte, cui presiedono le intelligenze angeliche delle Virtù, vi sono gli spiriti che risentendo degl'influssi di quella stella combatterono, ma per la verità cristiana. Segue il cielo sesto, di Giove, cui presiedono le intelligenze angeliche dette Dominazioni, ove sono gli spiriti che si distinsero per giustizia; il cielo settimo, di Saturno, cui presiedono le intelligenze angeliche dei Troni, mostra a D. gli spiriti che acquisirono meriti con la vita contemplativa.
Nel cielo ottavo, delle Stelle fisse, cui presiedono le intelligenze angeliche dette Cherubini, non vi sono gruppi di anime contraddistinte da particolari inclinazioni, ma i beati, Cristo e Maria appaiono a D. trionfanti; nel nono o Primo Mobile, mosso dai Serafini, appaiono a D. i nove cori di angeli concretati in forma visibile da nove cerchi luminosi ruotanti intorno a un punto estremamente luminoso che è Dio; nel decimo cielo o Empireo appaiono tutti i beati, gli angeli e Dio, collocato nel più alto dei cieli, così come Lucifero era al polo opposto nel punto più basso della terra, secondo il principio dantesco delle precise contrapposizioni.
Difficile affermare con sicurezza in quali modi esattamente la partizione dei beati in vari cieli, che pur comporta una diversa vicinanza a Dio e quindi un giudizio, rifletta la visione propriamente morale di Dante. È possibile ipotizzare - restando appunto sul terreno delle congetture - che la collocazione più distante da Dio assegnata ai mancanti ai voti possa significare che l'incostanza e la debolezza di carattere sboccate in precise conseguenze riuscivano particolarmente non gradite al poeta dal carattere costante e forte; egli dimostra un particolare apprezzamento, lungo tutta la cantica, per lo spiritualismo, e mentre assegna un'alta collocazione ai contemplativi nella scala dei meriti, esprime evidenti riserve su coloro che troppo concedettero all'ambizione naturale e all'attività terrena, e ai materiali istinti amorosi. Può anche ipotizzarsi dalla struttura il concetto di una complessiva superiorità assegnata ai contemplativi, per le ragioni sopra indicate, piuttosto che ai militanti (pur essendo palese in tutta la cantica, contrassegnata in complesso da un certo rigorismo morale non privo di durezza, l'ammirazione per la combattività) e piuttosto a questi che ai sapienti.
Il P. ha naturalmente una sua struttura topografica, se di struttura topografica si può in tale cantica parlare o non piuttosto di una serie di diversi scenari apparenti nei vari cieli, di un succedersi di visioni diverse. È comunque, il P. nel suo complesso, collocato con esattezza nell'universo: si trova fuori della terra (che per D. è immobile al centro del cosmo) ed è costituito - con la consueta precisione che è manifestazione dell'intervento provvidenziale - da nove cieli corporei progressivamente più veloci e più grandi a mano a mano che si avvicinano a Dio, e infine dall'Empireo incorporeo: Empireo allineato all'asse costituito dalla voragine infernale e dal monte del Purgatorio.
Nella costruzione narrativa del P., D. non rinunziò a quelle parti più accessibili al lettore comune che ricorrevano nelle cantiche precedenti, e che consistevano nei racconti fatti dalle anime in occasione degl'incontri, anche se volutamente diminuì, rispetto alle parti didascaliche, il loro rilievo. Nel P. i racconti in genere consistono in biografie di tono agiografico, in poetiche vite di santi presentate come ‛ exempla ' aventi il carattere della perfetta eroicità, se si prescinda dai primi cieli. Frequenza e rilievo particolarmente alti hanno tuttavia le spiegazioni sui problemi di teologia (e spesso insieme di fisica, secondo la concezione dantesca del cosmo). Tali disquisizioni presentano a volte evidenti legami con quel tanto di azione narrativa relativa al viaggio che esiste pur nel P., nascendo come spiegazioni della situazione del poeta (ad es. l'opportunità di chiarire la possibilità dell'ascesa di D. al cielo porta alla spiegazione della legge della destinazione di tutti gli esseri e di tutte le cose nell'universo, I 103-141); altre volte esprimono quel fatto di umanità che sono i dubbi di D., il suo reiterato assalto intellettuale ai grandi problemi della religione e della vita. Assai frequenti i commenti morali, spesso di aspro rimprovero all'umanità, tanto da assumere il carattere d'invettive: presenti, queste, anche nelle altre cantiche, ma qui nel P. ritornanti, in conformità con la situazione di perfetta chiaroveggenza e di assoluto rigore morale, con frequenza molto maggiore, adunandosi in qualche parte della cantica con successione incalzante: da quella contro le lotte di parte che chiude l'episodio di Giustiniano a quella contro l'invidia delle córti nell'episodio di Romeo (c. VI), a quella di Carlo Martello contro i cattivi principi (VIII 127-142), alle altre sulla decadenza degli ordini francescano e domenicano. Esse danno, espresse come sono in linguaggio realistico-polemico, e sempre volte a precisi problemi, un forte contributo di concretezza immediata, tanto più che appaiono collocate in posizione di voluto chiaroscuro rispetto ai passi che esaltano la santità, cui sono in genere adiacenti.
Nell'ambito di una mai interrotta volontà di concretezza, che genera un P. non di evasione ma tale da riflettere in ogni momento il mondo degli uomini nella sua realtà, D. non dimentica il fatto che dalla deteriore situazione religiosa, morale, politica, che dal P. si segue con angoscia e sdegno, e insieme con fiducia nel provvidenziale intervento, egli stesso è stato coinvolto, e colloca pertanto pur qui più volte, come avveniva nelle altre cantiche, in diversi modi e toni, il ricordo del suo esilio. Ciò avviene in modo indiretto al termine del canto VI, tutto pervaso dal tema politico come lo era stato il canto VI dell'Inferno con l'episodio di Ciacco - ove più o meno direttamente si rappresentavano i travagliati rivolgimenti di Firenze, dai quali procederà la personale sventura di D. - e il canto VI del Purgatorio con l'episodio di Sordello, in una corrispondenza numerica che costituisce elemento di unificazione che interessa l'intero poema. Il canto VI è infatti chiuso dall'episodio di Romeo, personaggio nel quale è evidentemente raffigurato, in chiave elegiaca, il poeta stesso nel suo esilio solitario colmo di pena sopportata con dignità. Un cenno all'esilio in forma di sfogo diretto ed esplicito appare inoltre nel canto XXV, che si apre con l'espressione della speranza umana, che il poeta sente nobile pur riguardando la terra (né probabilmente manca una corrispondenza con la Speranza che costituisce il tema teologico discusso e spiegato nel canto), che l'opera sua plachi la crudeltà di Firenze, e rechi anzi, non soltanto la cessazione dell'esilio, ma il premio cui dà diritto un poema cui ha posto mano e cielo e terra. E in misura ancora più ampia si parla dell'esilio nei canti XV-XVII, soprattutto nella predizione definitiva di Cacciaguida, accompagnata dal duro giudizio morale sui colpevoli, ma anche in questo caso dalla contemporanea predizione di un premio terreno fatto di fama nel tempo, che si aggiunge a quello celeste, di cui si è acquisita la certezza col mistico viaggio.
Invettive e cenni polemici cessano soltanto in prossimità di Dio, al canto XXX, con un ultimo cenno alla perfidia di Clemente V ai danni di Enrico VII e alla mal disposta Italia: e sono stati posti anche in voluto contrasto con altri elementi della narrazione poetica, quali le numerose descrizioni di luce e di musiche di straordinaria bellezza, rappresentazioni che sostituiscono, nel P., il paesaggio vero e proprio. In queste descrizioni appaiono con frequenza ed evidenza maggiori rispetto a quanto non avvenga nelle altre cantiche, a evocare un mondo più consueto in confronto con il mondo straordinario del P., comparazioni assunte dal mondo naturale (ad es. il raggio tra le nubi, in XXIII 79-81; la fronda che si leva, XXVI 85-87; l'inizio dell'alba, XXX 1-9; ecc.); dal mondo e dalla vita degli animali (ad es. il falcone liberato, XXX 34-37; la cicogna che pasce i figli, cfr. vv. 91-93; " ecc.); dal mondo della più semplice vita familiare (il lattante che si sveglia tardi affamato, XXX 82-84; o quello che è festoso per aver preso il latte, XXIII 121-124; ecc.).
Mezzo fondamentale con il quale D. realizza la già indicata essenza spirituale del P. e della gioia paradisiaca è l'amplissima parte e importanza concessa all'elemento della luce. Della visione di Dio, e della luce che ne è testimonianza, è costituita appunto la letizia che si gode in P.: lo dimostra tra l'altro in modo estremamente evidente il fatto che alla luce si volge l'esordio stesso della cantica, esordio che subito s'impegna a indicare come la gloria di Dio, intesa appunto come splendore, pervada tutto l'universo, e come D. sia stato nel cielo che maggiormente prende della luce di Dio, l'Empireo. È concetto spiegato in maniera insistente, e fin prolissa, a ulteriore dimostrazione dell'importanza che a essa D. annetteva, nell'epistola XIII a Cangrande.
Dell'Empireo si afferma appunto, ponendo la relazione tra ‛ ignis ' e ‛ caritas ', nella citata epistola (XIII 66-68), che dicitur empyreum, quod est idem quod coelum igne sui ardoris flagrans; non quod in eo sit ignis vel ardor materialis, sed spiritualis, quod est amor sanctus rive caritas. Il motivo della luce pervaderà poi tutta la cantica, anche, probabilmente, per effetto di un'importantissima tradizione dell'estetica medievale che rilievo grandissimo attribuiva appunto alla luce nell'arte sacra, procedendo dall'idea che il sole e la luce stessa fossero immagini primarie di Dio. Un intenso e immenso sfavillio segna il passaggio attraverso la sfera del fuoco (Pd I 54-66); l'aspetto della luna è luminosissimo pur se turbato da macchie, e i beati che vi appaiono son essi stessi ‛ splendori ' pur conservando pallide ma ancor conoscibili sembianze umane; sono in Mercurio ben più di mille splendori (V 103-108) nei quali - con gradazione calcolata - dell'umanità s'intravvede appena un barlume; puri lumi splendenti più o meno secondo il grado della maggiore o minore intensità della visione di Dio sono in Venere; nel Sole appaiono corone di fulgori vincenti il lume dell'astro (qui Salomone alla domanda su quale sarà il rapporto tra la luce e le sembianze umane dopo il giudizio universale risponde che nel corpo più perfetto crescerà il dono della grazia illuminante, la visione di Dio, l'ardore di carità, e con questi elementi la luce, che pure lascerà visibile l'aspetto corporeo). Nei cieli seguenti i lumi in cui si celano le anime si raggruppano in figurazioni particolari e, di norma, simboliche: nel cielo di Marte, in relazione al carattere dei beati (già combattenti per la fede), appaiono due liste luminose formate da spiriti disposti in modo da formare una croce greca a bracci eguali; nel cielo di Giove dalle luci in cui sono i beati è composta la scritta " Diligite iustitiam qui iudicatis terram ", il primo versetto del libro della Sapienza, in cui s' incitano coloro che reggono la terra ad attuare concretamente il concetto universale della giustizia, mentre successivamente la lettera M si trasforma nella figura di un'aquila, simbolo dell'Impero, e pertanto di quella giustizia terrena che a esso D. affida. L'occhio dell'aquila è formato in particolare da spiriti sommamente giusti, tra i quali D. con sua meraviglia - introducendo un'importante eccezione nella norma del P., eccezione attribuita al potere insondabile della predestinazione - sente nominare taluni pagani, o supposti tali, quali Traiano (già citato in Pg X 73-93 come consolatore della vedovella) e Rifeo, lodato da Virgilio come " iustissimus " in Aen. II 426, immaginando essere il primo rivissuto su preghiera di s. Gregorio, e aver per propria salvezza creduto in Cristo, il secondo aver avuto fede in Cristo venturo, sostituendo fede, speranza e carità alla mancanza di battesimo. Altra figurazione luminosa, lo scaleo d'oro - quello veduto in sogno da Giacobbe, in Gen. 28, 12 - nel cielo di Saturno, lungo il quale innumerevoli lumi scendono, risalgono o restano. Ancora tramata sulla luce la visione del trionfo di Cristo nell'ottavo cielo o Primo Mobile, ove migliaia di lumi sono accesi da un sole in cui traspare luminosa la persona di Cristo, mentre poco dopo sul più grande di essi, Maria, cala una facella, l'arcangelo Gabriele, che lo cinge formando una corona. Nel nono cielo un punto luminoso, figura di Dio indivisibile (cfr. Sum. theol I 11 2-4) " amictus lumine sicut vestimento " (Ps. 103, 2), è circondato da un cerchio di fuoco che rotea velocissimo, e via via da altri sino a formare il numero di nove (i nove cori degli angeli). Nell'Empireo, infine, la luce che abbaglia il poeta si mostra come fiume luminoso tra rive costellate di fiori, da cui escono faville che si mettono nei fiori, e da essi ritornano nel fiume: fiume che assume forma di lago mentre le faville appaiono angeli e i fiori appaiono beati in vesti candide, distribuiti in più di mille gradini così da apparire come un'immensa rosa. Ancora di luce è sostanziata la visione suprema della divinità in cui appare dapprima legato con vincolo di amore tutto ciò che nell'universo si trova diviso, sostanza e accidente, e il modo con cui essi operano; quindi appaiono tre circoli di ugual misura ma di diversi colori, di cui due sembrano il riflesso l'uno dell'altro, e il terzo fuoco che esca da essi; mentre il secondo, dopo che gli occhi lo hanno fissato intensamente, appare dipinto dell'effige umana nel suo stesso colore, ed è appunto su tale visione che il poema si chiude.
Frequentissimi, anzi pressoché continui, i colloqui di D. con Beatrice, che ancor più di Virgilio ha il compito di spiegare al poeta verità grandi e complesse, e con gli altri beati, colloqui nei quali predomina un tono disteso e cortese. Anche a correggere questo frequente distendersi del discorso in lunghe forme di ragionamento logico intervengono frequenti le esclamazioni naturalmente giustificate dalla straordinarietà delle situazioni, e le invocazioni a Dio e alla Vergine legittimate dall'anelito proprio di D. ad accedere a sovrumane esperienze mistiche. Pure nel P. vi sono momenti in cui interrompendo la narrazione D. si rivolge al lettore: particolarmente lunga, impegnativa e importante risulta l'esortazione al lettore del canto II, in cui s'invitano i non dotti in teologia ad abbandonare la lettura della nuova e più ardua cantica. Altra peculiarità dei colloqui e degli appelli al lettore del P. sta nel fatto che essi servono spesso a D. per dichiarare insufficienti i poteri dei propri sensi nella sovrumana posizione in cui si trova, e per proclamare la logica inadeguatezza della rappresentazione, ricordando i mezzi espressivi necessariamente umani di cui egli si serve.
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