URBANO VII, papa
URBANO VII, papa. – Giambattista Castagna nacque il 4 agosto 1521 a Roma, dal nobile genovese Cosimo e da sua moglie, la nobildonna romana Costanza, figlia di Giulio Ricci e di Maria Iacobacci.
È già segnata dalla porpora del prozio materno Domenico, cardinale dal 1517, la destinazione alla carriera ecclesiastica di Giambattista, nella quale si stava già affermando Girolamo Veralli, il futuro cardinale e cugino di Costanza. Dopo una prima formazione di tipo letterario-umanistico, gli studi giuridici all’ateneo di Perugia, poi presso quello patavino e infine conclusi a Bologna – dove strinse amicizia con il condiscepolo Gabriele Paleotti – con la laurea in utroque, munito della quale tornò a Roma. Qui Veralli, dall’8 aprile 1549 cardinale, l’accolse in casa propria, da un lato addestrandolo, dall’altro utilizzandolo a mo’ di segretario personale. Ebbe così modo di seguire da vicino il lungo e contrastato conclave, finalmente, il 7 febbraio 1550, elevante al soglio Giulio III e poi d’accompagnare, in veste di datario, il proprio protettore nella missione del 1551 in Francia. Promosso quindi da Giulio III referendario della Segnatura di giustizia, di lì a poco assunse, il 30 marzo, gli ordini tanto minori quanto maggiori per mano di Filippo Archinto, vescovo di Saluzzo e vicario di Roma, essendo poi, il 4 aprile, consacrato, in casa del cardinale Veralli, con l’assistenza del vescovo di Castro e maestro di cappella pontificia Gerolamo Maccabeo de Toscanella e del vescovo della sede corsa di Accia Pietro de Affatati, arcivescovo, appunto, di Rossano. Governatore per pochi mesi a Fano – del 14 giugno 1555 il breve di Paolo IV annunciante alla città d’averla destinata all’ecclesiastico romano – prima che fosse assegnata al cardinale Carlo Carafa, ebbe modo di raggiungere successivamente la sua remota arcidiocesi calabra quivi dandosi a un’intensa predicazione. Ma questo sussulto di zelo episcopale fu interrotto dal rientro a Roma. Governatore, dal marzo del 1559 all’aprile del 1560, di Perugia e dell’Umbria, caratterizzò il suo governo con piglio decisamente energico specie nella riscossione dei tributi, nell’esercizio delle proprie prerogative ancorché disponesse di pochi «fanti». Saggio nel comporre le controversie confinarie insorte tra Terni e Spoleto, non lo fu altrettanto quando – alla morte, il 18 agosto, di Paolo IV, nel timore di un colpo di mano sulla stessa Perugia da parte di Ascanio della Cornia spalleggiato da Cosimo de’ Medici – dispose che cento nobili armati presidiassero costantemente la città. E nell’assenza di pericolo dall’esterno, quel che era in pericolo fu la quiete interna, visto che circolavano armate anche «altre quadriglie» non solo di nobili, ma di popolani. Sicché Castagna – che incautamente aveva promosso il costituirsi del presidio nobiliare a difesa contro un’insussistente minaccia da fuori – si vide costretto a vietare con un bando il «cacciar mano all’arme sotto pena di rebellione e confiscatione di tutti li beni». Ma non poté cancellare l’improvvido precedente di cui fu responsabile. Di fatto promuovendo l’armarsi dei cento «primi et più nobili» perugini, indusse all’«armi» pure il «popolo». Donde – così, tra il critico e l’ironico, il cronista cinquecentesco locale Pompeo Pellini (Della historia di Perugia, pt. III, Perugia 1970, pp. 962 s., 968, 973) – l’abitudine perugina di impugnarle con l’occasione-pretesto della sede papale vacante. Ben altro rilievo assunse, invece, l’assidua costante partecipazione di Castagna alla fase finale del Concilio di Trento, ove giunse il 14 novembre 1561 rimanendovi sino alla conclusione. Piena la fiducia in lui di Pio IV; in effetti si contava a Roma sulla sua capacità di controllo, di avvertita vigilanza su quel che era l’andamento dei lavori. Ma lungo questi riconoscibile e visibile l’intervenire deciso e netto di Castagna, il quale esprimeva il punto di vista romano e anche le convenienze romane; ma non con la servizievole petulanza del prelato cortigiano a tutto disponibile in vista della carriera, bensì con l’intima convinzione di chi si stava battendo nel giusto e per il giusto. Indicativa la stima del servita proprio per l’arcivescovo di Rossano, pur così allineato con la S. Sede e collegato con preoccupazioni ed esigenze romane. Implicito riconoscimento – si può azzardare – la stima sarpiana che Castagna, a Trento, operò personalmente in buona fede, in coscienza, secondo coscienza. Udibile e visibile, in ogni caso, l’ecclesiastico romano a Trento e distinguibili i suoi interventi, le sue prese di posizione: era contrario a che Stanislaus Falescensius fosse ammesso al voto anche pro aliis sedici assenti di cui era procurator; era intransigente oppositore alla concessione del calice ai laici sino a trascendere in accuse di cedevolezza, per fiacco cattolicesimo, a una richiesta satura di malizia ereticale con quanti, invece, propendevano all’assenso. Sicché, implicitamente, il rimbrotto rimbalzò a denuncia di collusione con l’eresia nei confronti del re di Boemia Massimiliano. Rocciosamente tetragono sulla negazione del calice, su altri punti Castagna fu, invece, empirico, duttile, sensibile ai suggerimenti del buon senso: sull’espellibilità o meno, per esempio, dai conventi dei frati indisciplinati Castagna, per quel che lo concerneva, ritenne che i cattivi soggetti fossero cacciabili.
Era alla Chiesa che a Trento pensava, non allo Stato, nemmeno allo Stato pontificio. Pienamente validi per Castagna i matrimoni clandestini, come sostenne il 24 luglio 1563. E aveva insistito ancora l’11 agosto: se le leggi civili deprecavano e annullavano i matrimoni clandestini, quelle ecclesiastiche, anche se li deprecavano, non li annullavano.
Di per sé, a concilio finito, Castagna avrebbe dovuto trasferirsi anima e corpo in quel di Rossano a esemplare la residenza episcopale ché questa era ben un dovere sancito anche con il suo concorso. Ma a Trento fu troppo prezioso alla S. Sede perché questa non lo utilizzasse con incarichi di rilevanza. Sicché, dopo una puntata rapida nella sua arcidiocesi, fu destinato alla nunziatura di Spagna. Il 20 agosto 1565, Pio IV scrisse a Filippo II che gli inviava a rappresentare la S. Sede Castagna, e a lui non restava che obbedire e partire. A Bologna il 18 settembre, il 19 si mise in viaggio per Barcellona che raggiunse il 24 ottobre, donde si spostò a Madrid. E quivi insediatosi, inviò il suo primo dispaccio il 18 dicembre, così avviando i quasi sette anni di nunziatura. Tra i suoi compiti, quello di affiancare il cardinale legato Boncompagni per districare lo spinoso nodo della ‘causa toletana’, ossia il braccio di ferro tra l’Inquisizione spagnola e quella romana in merito alla competenza di giudizio sull’arcivescovo di Toledo Bartolomeo Carranza di Miranda arrestato, con l’accusa di eresia, dalla prima ancora il 22 agosto 1558. La questione era di principio. E, anche per merito di Castagna, del suo perorare, l’arcivescovo venne scarcerato il 1° dicembre 1566 e fatto partire alla volta di Roma. Arduo per Castagna fronteggiare, volta per volta, l’incessante riprodursi di attriti, laddove – così gli scrive, il 21 luglio 1568, il cardinale Alessandrino, ossia Michele Bonelli – era Filippo II che sembrava «voler esser papa» nel suo Regno. Ma lo stesso – è Castagna costretto a farlo presente più volte – «sta con grandissimo dispiacere», ché convinto fosse, invece, il pontefice colui che «li voglia togliere quel che ha». Si riserbava, al più, di leggere le lamentazioni romane riassuntegli per iscritto dall’arcivescovo di Rossano. Ma, quando questi faceva circolare – senza suo permesso – la revoca papale delle bolle emanate dai prelati di Spagna, avvampò di sdegno furente e fece dire al nunzio – il 25 aprile 1570 – da due consiglieri regi che il suo «poco rispetto» gli sarebbe costato caro. Granitico il cattolicesimo del re cattolico, ma concomitante all’«usurpatione» giurisdizionale a Napoli e in Sicilia e simultaneo a un’«authorità ecclesiastica» duramente «tribolata hoggidì» in tutti i domini spagnoli «da per tutto» e anzitutto «anchora qui», in Ispagna, dove «patisce molto». Roma poté sì pubblicare, con gran clamore, nella Pasqua del 1568, la bolla In coena Domini. Ma nel frattempo le «persone ecclesiastiche» risultavano «maltrattate» sin «in le Indie» lontane, nel frattempo all’autorità pontificia si frapponeva quella regia che, di fatto, fece «stampare e proibisce nelli regni suoi come gli piace». Continui gli avvisi a Castagna sul «poco conto» che si faceva del clero, sulle «giurisdittioni spirituali usurpate», invase, vilipese dai «ministri regii». Magra consolazione, per il nunzio, l’esposto scritto nella fiducia che il re non lo cestinasse. Per lo meno sulla lettura dei suoi promemoria poteva contare e poteva attestare che Filippo II «suole leggere ogni scrittura che se li dà per longa che sia».
Senza requie, allora, da parte di Castagna l’inoltro di puntigliosi riepiloghi dove si precisavano violazioni, esorbitanze. Proliferanti le occasioni di frizione, di scontro. E – par di capire – Castagna avrebbe gradito, a Milano, un arcivescovo un po’ più cauto di Carlo Borromeo, un po’ più attento a non suscitare «controversie» con il Senato, con il governatore. Quanto al clero spagnolo il nunzio fu costretto a tener conto del suo radicamento, delle sue abitudini, del suo orgoglio nei confronti di Roma, della sua soggezione all’autorità politica. Come applicare il Tridentino, quando – così Castagna il 6 maggio 1566 – erano i canonici a insorgere contro i «decreti» dei sinodi provinciali? Ben chiaro, comunque, al nunzio che i contrasti di giurisdizione e l’attuazione della normativa tridentina erano faccende interne a un regno che restava pur sempre il baluardo del cattolicesimo. Erano, allora, moti di assestamento di una compagine sostanzialmente sana.
Era l’eresia il tremendo pericolo. Perciò mise in guardia Filippo II nei confronti dell’arrivo dell’ambasciatore inglese e l’esortò ad aiutare la regina di Scozia, perciò insistette reiteratamente perché si portasse di persona a domare le Fiandre ribelli. Ma ben presto deluso il nunzio: Filippo II disse «di voler andare», però rimandò la partenza. Perplesso, sconcertato Castagna, di fatto però non si sentì di esprimere una pesante condanna. Sapeva quanto immani fossero i problemi gravanti sul sovrano. Intuì che a Roma si esagerava quando da lui si pretendeva l’impresa di Ginevra. Intese l’umana sofferenza del padre sottesa alla «ritentione» inflitta a don Carlos, il figlio riottoso; non fu insensibile ai lutti che lo avevano colpito; e non si sentì di dargli tutti i torti se si irritò pel conferimento (nel 1569 da parte di Pio V) del titolo granducale a Cosimo de’ Medici. Filospagnolo Castagna, però deciso nell’incalzare il sovrano perché aderisse al «santissimo desiderio» di Pio V a che, con egli in testa, «li principi christiani si sveglino et si riscotino contra» il turco. Si avviò, anche con Castagna, la paziente tessitura del «negocio della lega», ancorché, a ogni suo «caldo officio», il re replicasse raggelante che non era tempo, che doveva pensare alle Fiandre, che era impensabile la Francia – con tutti i suoi travagli interni – potesse essere coinvolta. Lungi dallo scoraggiarsi il nunzio batté e ribatté sullo stesso tasto. Urgeva agire. Esiziale il dissidio tra Gian Andrea Doria e Marcantonio Colonna. Perciò – così il nunzio – Filippo II si decise a troncarlo con nette perentorie istruzioni che distinguessero le competenze dei due. Diffidente, sospettoso il re della Serenissima, timoroso addivenne a un «accordo» con la Porta. Ragion di più per accelerare la stipula di una lega vincolante. E merito anche delle pressioni di Castagna se questa venne, finalmente, conclusa a Roma il 19 maggio 1571. Esultante, ovviamente, il 30 ottobre anche Castagna nell’apprendere del trionfo, del 7, cristiano a Lepanto. E «sconsolato» il nunzio quando, il 27 aprile 1572, venne avvisato dell’«infermità» di Pio V. Spentosi il papa di lì a poco, il 1° maggio, sembrò a lui non sopravvivere il fervore della crociata antiturca.
Bloccato a Messina don Giovanni d’Austria, mentre Filippo II paventava mosse inglesi, sospettò della Francia e si crucciò per il peggiorare della situazione nelle Fiandre. Subentratogli nella nunziatura Nicolò Ormaneto, Castagna, all’inizio di agosto poté partire e rientrare a Roma, dove, a tutta prima, pareva lo si volesse destinare al governo di Bologna. Una carica prestigiosa, che però preferì evitare. Gregorio XIII era bolognese e condizionante presenza quella dei suoi parenti a Bologna; ivi governatore Castagna si sarebbe sentito con le mani legate. Meglio, allora, altre incombenze. E opportuno, intanto, rinunciare all’arcidiocesi rossanese. Scrupoloso Castagna nel porsi il problema della residenza, rispettoso dei dettami tridentini. E non cacciatore di prebende, non avido di denaro. Sicché non pretese alcun reservatum, alcuna pensione. E a lui affidata da Gregorio XIII con breve del 15 giugno 1573, la nunziatura di Venezia, dove arrivò il 4 luglio.
Suo compito trasmettere a Roma le notizie – dalle Fiandre, da Genova, dal Levante specie da Costantinopoli, dalla Polonia – a Venezia abbondanti e, anche, in anticipo rispetto ad altri centri della penisola. Suo dovere vigilare su presenze e di eretici e di suggestioni ereticali in una città più esposta di ogni altra in Italia al pericolo, ché «aperta» all’andirivieni delle merci, degli uomini, delle idee, delle tentazioni, nonché, proprio perché editorialmente fiorente, sempre sospettabile della stampa di «libri pieni di errori»; e ciò sostenendo il ruolo e la funzione del S. Uffizio, ciò in costante contatto con l’azione inquisitoriale. Suo impegno adoperarsi a che la giurisdizione adriatica non fosse esercitata con pienezza a danno dei mercantili pontifici e della navigazione da e a i porti pontifici. Suo obbligo presidiare, di contro all’inveterata mentalità e alla plurisecolare prassi giurisdizionalistiche della Repubblica, l’immunità e l’autorità ecclesiastiche. Innumeri – di per sé – «le cause» nelle quali a Castagna toccò «contrastare»; continui i «travagli» al «foro ecclesiastico», a difesa del quale il legato profuse le sue energie. Ma si scontrò con una «pretendentia» giustificata come «antica consuetudine», con un’«ostinatione» che affondava nei secoli, con una durezza inscalfibile che non accettava cure.
Quasi surrogatorio, tuttavia, quest’irrigidirsi marciano sul terreno giurisdizionale della pieghevolezza nei confronti delle «conditioni» imposte dalla Porta per arrivare alla formalizzazione conclusiva della pace separata del 7 marzo 1573. E Castagna trasmise i sensi della «compassione» romana nel veder la Repubblica costretta a sperimentare la «durezza» e la «perfidia» ottomane, anche lungo le logoranti trattative per l’«accordo», anche in assenza di «guerra aperta». Disposto sì Gregorio XIII ad «aiutare in tutto quello che potrà». Ma, poiché poteva poco, Venezia doveva cavarsela da sola. Comunque, del suo scollegarsi dalla Sacra Lega non si pentì. Tant’è che – così il nunzio il 16 ottobre 1574 – «tutti», nel governo, «concordano» sul punto del mantenimento della «pace» con la Porta, anche i più «dolenti e sdegnati» per le sue onerosissime condizioni. E in vista degli accordi che le precisavano, per quanto questi siano pesanti, la città, reduce dalla guerra antiturca, era pur sempre in grado di gioire di quel che comportava la «desiata pace».
Di lì a un anno, fu la peste a intercettare la sua attività diplomatica. Tra i primi a segnalare il «sospetto» di epidemia, fu costretto, suo malgrado, a farsi cronista del procedere di questa: prima, tra fine luglio e ottobre del 1575, lo stillicidio dei morti «dentro di Venetia», poi, in novembre, la «peste formale», la «peste vera». Riparò a Padova e da qui, il 2 agosto, si trasferì negli immediati pressi di Vicenza, scampata, «con tutto il suo territorio», come testimonia lui medesimo il 10 settembre. Senza più tornare a Venezia, Castagna, scritta il 15 dicembre una lettera di commiato al doge, partì il 18 da Vicenza raggiungendo, il 22, Bologna. E in questa si fermò ché, dopo la «legatione» lagunare, l’attendeva il «governo» della città – conferitogli con apposito breve da Gregorio XIII; e, questa volta, non poté schivarlo –, di cui prese ufficialmente «possesso» il 5 gennaio 1577. E l’arcivescovo Paleotti, di Castagna amico e in Castagna fidente, si premurò di fargli avere un memoriale prospettante la feconda collaborazione tra direzione spirituale e temporale. Ma quegli rimase a Bologna poco più di un anno, troppo poco perché quanto auspicava Paleotti si realizzasse. E pare lo si richiamasse a Roma, d’altronde, proprio perché giudicato governatore di poco polso, non sufficientemente energico, forse troppo condizionato dal protagonismo di Paleotti.
È la veste di nunzio quella che invece si addiceva a Castagna. E la indossò per la terza volta, quando Gregorio XIII lo designò, così le generiche istruzioni del 29 agosto 1578, a «rappresentare», in quel che sarà il «convento», per il momento ancora vago e aleatorio, «per la pacificatione di Fiandra», il genuino spirito di «carità» del pontefice. Accorato questi dalle «turbolenze» di Fiandra, desiderò ardentemente che alla «sospension» d’armi seguisse lo «stabilimento della pace». E poiché la mediazione sarebbe stata imperiale, di fatto a Castagna fu affidato il compito di controllare che, pur di conseguirla, non si transigesse in fatto di «religione». Lasciata Roma il 9 settembre, raggelante per lui apprendere, il 23, a Trento dal cardinale Ludovico Madruzzo che, se la sua missione era quella di «assistere» – investito d’«autorità papale» – continuatamente «a tutte le trattative del negotio», non era affatto scontato potesse farlo adeguatamente: molto «difficilmente» l’imperatore avrebbe voluto fosse «admesso con gli elettori al trattato». Per quanto scoraggiato Castagna proseguì il suo viaggio e, passando per Innsbruck, il 26 ottobre fu a Praga. Freddo con lui, sin dalla prima udienza, Rodolfo II: a Castagna che insisteva essere il «principal punto» della negoziazione che questa non comportasse il benché «minimo preiudicio della religione cattolica», quello replicava che per arrivare e pur di arrivare alla pace era da «tentar ogni via». E non è che intendesse avviare i propri tentativi avendo a fianco il nunzio come mentore e tutore. Imbarazzante per Castagna essere giunto a Praga quando nessuna trattativa era realmente in corso e senza che, comunque, fosse ipotizzabile qualcosa di surrogatorio per giustificare la propria venuta. Sicché non sapeva che fare né che fingere di fare. Non gli restava che constatare, scrivendo a Roma il 10 novembre, «che il negotio è tanto acerbo che si meravigliano molti come la mia mossa di Roma sia stata così intempestiva et di repente senza haver prima certa notitia che il trattato fusse per seguire et quando».
Castagna rimase a Praga sino al 28 febbraio 1579. Di qui raggiunse, il 18 marzo, Augusta e, quindi, Monaco, a «intendere il parere» del duca di Baviera Alberto V per poi portarsi, il 1° aprile, a Colonia sede dell’imminente «congresso», nel quale stava ai commissari imperiali, tutti «principi dell’impero», tradurre la loro funzione arbitrale nella stesura degli «articoli» e «capitoli» fissanti il «trattato di concordia». Presa dunque stanza, presso i certosini, a Colonia, Castagna evitò «destramente» di enfatizzare il «capo della religione» a evitare non si imputassero alla S. Sede responsabilità dirette. Solo che avrebbe voluto da Roma «un qualche ordine», una qualche precisa istruzione. Ma il segretario di Stato cardinale Tolomeo Galli non sapeva che dirgli: «non possiamo darle altro aiuto se non di pregar Dio», gli scrisse il 13 giugno. Certo che, sfumando l’obiettivo della «concordia», fu inutile si adoperasse a premere perché «la voglia di questa benedetta pace» non inducesse a cedimenti sul terreno religioso. Della «pace generale» oramai «non se ne parla più», constata il 23 ottobre. Al più confidabile, visto che il «convento» si sciolse senza aver «conseguito il fine», le «conditioni et capitoli qui», a Colonia, redatti «da principi dell’imperio non interessati» al conflitto, non parte in causa di questo, possano fare in futuro da riferimento. Non gli restò che rientrare.
Lasciata, il 2 dicembre, Colonia, ci mise un mese – ragioni di sicurezza imponevano un itinerario tortuoso – ad arrivare, il 2 gennaio 1580, ad Augusta donde, il 4, scrisse a Filippo II, che, approfittando del buon rapporto instaurato «con l’eletto arcivescovo di Colonia», lo avrebbe costantemente consigliato «che si stringa quanto può nella servitù con Vostra Maestà». Filospagnolo, Castagna era convinto così di guadagnarsi la benemerenza del re. Di nuovo a Roma, fu dei diciannove cardinali creati senza consultare il Collegio dei porporati, il 12 dicembre 1583, da Gregorio XIII; e lo contraddistinse la titolarità della chiesa di S. Marcello da lui assunta il 13 gennaio 1584. Castagna era dunque il cardinale di S. Marcello. Cardinal legato a Bologna, morto, il 10 aprile 1585, Gregorio XIII, partecipò al conclave che il 24 elesse, con Sisto V, il successore. Confermato legato a Bologna, membro della congregazione dell’Inquisizione, di quella dei Vescovi, di quella degli Affari dello Stato ecclesiastico, non fu, però, nelle grazie di papa Peretti.
Morto, il 27 agosto 1590, Sisto V e iniziato, il 7 settembre, il conclave per l’elezione del successore, la sconfitta dell’ambiziosa autocandidatura del cardinale Marcantonio Colonna avvantaggiò Castagna la cui affermazione si fece consistente. La contrastò, però, il cardinale Alessandrino, ossia Michele Bonelli, non senza – così il rappresentante veneto Alberto Badoer, informatissimo da fuori su quel che avveniva dentro – riesumare presunte colpe che ne avrebbero macchiato il passato. «Mentre era scolaro a Bologna» avrebbe ammazzato un tale. Da una sua relazione con una donna gli sarebbe nata una figlia. Ma subito deterse le due macchie: da escludere assolutamente l’esistenza di una figlia naturale di Castagna; negato pure l’assassinio. Par di capire che ci dev’essere stato un fatto di sangue, dal quale però non emersero responsabilità tali da farlo condannare. Forse si trattò di legittima difesa. Fastidiosa, comunque, la manovra intercettante del cardinale Bonelli, ma anche sventata. Pericoloso rivale per Castagna il cardinale di S. Severina Giulio Antonio Santori, ma giocarono a suo favore l’appoggio del cardinale Francesco Sforza e il gradimento allargato di cui godeva. Sbloccate le residue difficoltà, il 15 venne elevato al soglio con il nome di Urbano VII.
Un’elezione che, da un lato, confermò la linea di tendenza in virtù della quale venivano preposti al culmine della Chiesa non più prelati di potente famiglia romana e palesemente sostenuti dalle grandi corti o espressione di una sola, bensì personalità dalla formazione giuscanonistica collaudata da carriera curiale; e che, dall’altro, è indicativa di una presa di distanza, sin di un’inversione di rotta nei confronti dei criteri ispiranti il pontificato del predecessore.
E sin rottura con la prassi da questi instaurata le primissime disposizioni di Castagna, specie quella revocante la sistematica oppressione fiscale. E come rasserenata dalla sua nomina e in lui fiduciosa la stessa città di Roma. Ma ciò per pochissimo.
Già il 18 l’aggredì una febbre a carattere malarico; e i medici non riuscirono a ricacciarla. Sicché s’aggravò sino a stroncarne la vita il 27. Tumulato dapprima a S. Pietro e quivi oggetto, il 6 ottobre, di un’orazione funebre di Pompeo Ugonio, le sue spoglie furono trasferite, il 21 settembre 1606, nella chiesa di S. Maria sopra Minerva. Nella cappella a lui dedicata, è la statua eseguita da Ambrogio Buonvicino a fissarne con il marmo l’immagine.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia completa si rimanda a G. Benzoni, Urbano VII, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 222-230.