URBANO VI, papa
URBANO VI, papa. – Figlio di Nicolò Prignano, probabilmente proveniente da Pisa ed emigrato a Napoli per motivi politici – era forse un mercante –, e di Margherita Brancaccio (di nobile famiglia napoletana), Bartolomeo nacque a Napoli attorno al 1318.
La data è approssimativamente desumibile dalle testimonianze rese al momento della sua elezione al pontificato, secondo le quali aveva sessant’anni. Il luogo è incerto: prevale l’opinione che sia nato a Napoli, ma studi di ambito locale ne rivendicano i natali all’area salernitana o al territorio che a oriente di Nocera si protende verso Sanseverino, identificato con il feudo di Acquarola.
Studiò diritto canonico all’Università di Napoli e la buona preparazione giuridica ne favorì la carriera, in ambito sia ecclesiastico sia accademico. Nel 1360 ricopriva infatti la carica di rettore dello Studio di Napoli; fu diacono e canonico della chiesa cattedrale di Napoli e nello stesso 1360 fu nominato vicario generale dell’arcivescovo, Bertrando di Meychones, in partenza per Avignone, incarico che ricoprì anche nel 1365. In questo periodo ricevette diversi benefici a Napoli, Bari, Salerno e nella diocesi di Benevento. Il 22 marzo 1363 Bartolomeo Prignano fu nominato arcivescovo di Acerenza.
In tale veste fu attivamente impegnato nelle delicate relazioni fra la chiesa metropolita e i suffraganei, oltre che nella energica rivendicazione dei diritti e dei privilegi dovuti alla sua diocesi contro l’occupazione di beni ecclesiastici da parte di Francesco del Balzo, duca di Andria, imparentato con la dinastia angioina.
Già dal 1364 aveva iniziato a soggiornare ad Avignone, anche se in modo saltuario; dal 1368 pare che vi si stabilisse definitivamente, al seguito del cardinale Pietro di Monteruc. Gli furono affidati delicati incarichi giudiziari e importanti mansioni nella cancelleria pontificia, che diresse a partire dal 1376, quando Gregorio XI si trasferì a Roma. Il 13 gennaio 1377 ricevette anche l’investitura della cattedra arcivescovile di Bari.
Dopo la morte di papa Beaufort (notte tra il 26 e il 27 marzo 1378), il conclave si tenne a Roma per la prima volta dopo settantacinque anni, non senza pressioni da parte delle autorità e del minaccioso popolo romano, che gridava nelle strade: «Romano lo volemo o almanco italiano». L’elezione fu contrastata.
Nel primo scrutinio (7 aprile) il Collegio cardinalizio (undici francesi, quattro italiani, uno spagnolo), rinchiuso nella cappella di S. Nicola nel Palazzo Vaticano, elesse con tredici voti Prignano e il medesimo esito diede un secondo scrutinio suggerito dal cardinale Francesco Tebaldeschi (per evitare polemiche).
Dietro la scelta di un esterno al collegio cardinalizio vi fu certamente la cultura giuridica, l’integrità morale, il rigore che Bartolomeo aveva dimostrato nell’adempiere ai suoi incarichi, la stima guadagnata presso i suoi collaboratori, oltre a considerazioni di carattere più squisitamente politico. Tuttavia, dovendo attendere l’arrivo a Roma del neoeletto, per calmare la folla tumultuante i cardinali reputarono opportuno ricorrere all’espediente di indicare nell’anziano e malato cardinale romano Tebaldeschi il prescelto; e temendo che, saputa la verità, si scatenassero le rappresaglie, alcuni prelati abbandonarono il Palazzo Vaticano. La sera dell’8 aprile il cardinale francese Pietro Vergne, il camerario Pietro Cros, arcivescovo di Arles, insieme ad altri quattro porporati si rifugiarono in Castel S. Angelo, ove rimasero sotto la protezione del castellano nominato dal cardinale Géraud du Puy, legato pontificio ai tempi di Gregorio XI.
Numerose sono le notizie rimaste per il periodo intercorso fra la morte di Gregorio XI e l’elezione di Urbano dovute alle deposizioni di centosessantaquattro testimoni oculari, chiamati a fornire utili elementi sulla validità del conclave. E se in genere era imputato al «sedicioso populo» di aver reso particolarmente minacciosa l’atmosfera del conclave, alcune testimonianze ribadivano che nessuna intimidazione venne perpetrata in quell’occasione nei confronti dei cardinali.
La profonda formazione giuridica e il carattere decisamente energico del nuovo pontefice influirono sulle immediate decisioni: già il 14 maggio 1378 Urbano VI concesse lo Studium generale alla città di Orvieto e il 26 luglio, a Tivoli, firmò la pace con Firenze che, rimasta aperta con la morte di Gregorio, pose fine alle ostilità innescate dalla guerra degli ‘Otto santi’. Ma ancora prima, con la bolla Nonnullorum perversorum del 19 aprile 1378, un provvedimento che rientrava nella sua concezione del primato assoluto del papa, si riservò le annate di tutti i benefici, quelli già conferiti e quelli che avrebbe concesso in seguito.
Sentendosi portavoce dello spirito riformatore che aleggiava sulla Chiesa, sollecitato anche da personaggi come Caterina da Siena, nel tentativo di affermare l’autorità del pontefice al di sopra del Collegio cardinalizio si mosse nei confronti dell’alta gerarchia ecclesiastica con un’azione forte contro ogni tipo di degenerazione materiale e morale. Per evitare quello che considerava il male peggiore, la simonia, proibì ai cardinali di richiedere benefici a favore di re o principi; mentre, dall’altra parte, per convincere i porporati a sottomettersi alla sua volontà più che a quella del potere temporale promise di concedere loro maggiori ricchezze, finanche il doppio di quanto avrebbero potuto ricevere dai vari signori. Anche in questo settore dunque egli dimostrò di agire in modo del tutto autonomo e discrezionale, conferendo i benefici maggiori e minori a suo piacimento.
Gli eventi dell’estate del 1378 furono gravidi di conseguenze.
Urbano VI autorizzò il trasferimento ad Anagni dei cardinali, che avrebbe dovuto raggiungere per chiarire la delicata questione della legittimità della sua elezione, ma le notizie di una congiura ai suoi danni dissuasero Urbano dall’effettuare il viaggio. Tra il 21 e il 26 giugno giunse a Roma il priore dei certosini di S. Martino di Napoli, amico intimo del papa, per invitarlo, a nome dei cardinali, a presentarsi ad Anagni. Urbano invece il 26 giugno si recò a Tivoli dove, qualche giorno dopo, venne raggiunto da una seconda delegazione, anche in questo caso condotta da un amico, il vescovo di Pamplona, per trovare una soluzione a quella che ormai era ritenuta una controversa elezione, ma l’esito dell’incontro fu negativo. Il 20 luglio i cardinali dissidenti, incoraggiati anche dal successo delle truppe mercenarie al loro servizio, dichiararono all’unanimità la nullità dell’elezione papale.
Per evitare lo scisma fu consigliato di convocare un concilio generale: il 26 luglio i cardinali italiani, promotori dell’iniziativa, a Palestrina si incontrarono con tre colleghi francesi, senza successo. Il 9 agosto dalla cattedrale di Anagni fu proclamata la sede vacante. Intorno alla metà di settembre, a Fondi, nel castello di Onorato Caetani, dove avevano trovato rifugio gli ultramontani, furono condotte le ultime trattative su di un concilio che, composto dai prelati di tutte le province, si sarebbe dovuto tenere in un luogo scelto dai cardinali. Ma la via concilii fu presto abbandonata per la via compromissi con la proposta di un comitato più ristretto degli elettori: tre cardinali italiani e tre francesi. Questa soluzione fu appoggiata dall’ambasciatore della regina Giovanna I, Niccolò Spinelli, conte di Giovinazzo, inviato a Fondi per sollecitare l’elezione di un papa italiano. Il conclave, tenutosi il 20 settembre, fu brevissimo essendo stata già decisa la nomina di Roberto di Ginevra, la cui elezione venne annunciata il giorno dopo. Il 31 ebbe luogo l’incoronazione del pontefice della seconda obbedienza che prese il nome di Clemente VII (ritiratosi prima a Napoli, imbarcatosi poi per Marsiglia, per insediarsi, il 20 giugno 1379, con la sua curia ad Avignone).
Aveva così inizio il lungo e tormentato periodo dello scisma d’Occidente che si sarebbe concluso solo trentanove anni più tardi.
Per spiegare il repentino cambiamento delle scelte del Collegio cardinalizio, la storiografia ha puntato di volta in volta l’attenzione su motivi di politica interna e internazionale (de Boüard, 1936; Brezzi, 1944, e 1962), sul risentimento dei cardinali contro un’azione riformatrice troppo violenta (Valois, 1890, e 1896-1902), che avrebbe provocato lo «scontro di mentalità tra papa e sacro collegio sul modo di essere cardinali» (Pásztor, in Genèse..., 1980) o sul «factionalisme cardinalice» (Bresc, ibid.), o ancora sul tentativo dei cardinali di dare un indirizzo oligarchico alla Chiesa (Souchon, 1888).
Per ciò che concerne la persona di Urbano VI, l’attenzione si è soffermata sul suo atteggiamento risoluto e soprattutto sul carattere troppo rigido (Seidlmayer, 1940), che avrebbe portato i cardinali a sollevare dall’incarico un papa incapace e inadatto a ricoprire questo ruolo (Ullmann, 1948). È stato messo infine l’accento sulla generale crisi delle istituzioni ecclesiastiche (Merlo, 1988) e sull’importanza dello spirito riformatore (Ourliac, 1990).
Indubbiamente Urbano VI mostrò di avere una scarsa considerazione verso i componenti del Sacro Collegio, atteggiamento che favorì l’adesione a Clemente VII dei cardinali francesi, ma anche di quasi la totalità del personale della Camera apostolica. Egli dovette pertanto riorganizzare non solo il Collegio cardinalizio ma soprattutto un corpo di funzionari efficienti e preparati come quelli della Curia avignonese. Mettendo quindi da parte il rigore morale, che fino ad allora gli aveva impedito di avere inclinazioni nepotiste – per questo fu magnificato come il migliore papa da più di cento anni – si trovò nella condizione di doversi appoggiare ai propri concittadini e parenti. Di Napoli furono sette cardinali sui primi venticinque nominati (17 settembre 1378) e tre su sei nella seconda nomina (1381); ancora tra il 1382 e il 1385 due su tre porporati e, nel 1384, cinque sui nove eletti, fra cui due suoi parenti, Marino Vulcano e Rinaldo Brancaccio.
L’obiettivo politico di Urbano VI fu ristabilire l’autorità papale su territori che, per la lunga assenza dei pontefici da Roma, si erano resi quasi indipendenti e mantenere sotto controllo il Regno di Napoli. La ricerca del pieno dominio su Roma e sulle terre della Chiesa causò la fine della tregua con Francesco di Vico, prefetto di Roma, passato nelle file dei clementini. Ma se le milizie mercenarie al soldo di Clemente VII portarono la guerra fino a Roma, con la vittoria conseguita a Marino il 29 aprile 1379 dalla Compagnia di S. Giorgio, composta da italiani al servizio di Urbano VI e al comando di Alberico da Barbiano, anche Castel S. Angelo tornò sotto il controllo del papa romano.
Una successiva spedizione promossa da Clemente VII per occupare lo Stato pontificio si concluse nel 1384 con un fallimento.
Il contributo di 100.000 fiorini d’oro richiesto da Urbano VI alle chiese e ai conventi di Roma nel 1379 provocò nuovi malcontenti, in una città le cui condizioni economiche apparivano tutt’altro che floride.
Quanto ai rapporti con il regno meridionale, la richiesta del riconoscimento della sovranità feudale e l’appoggio dato al papa romano da Carlo di Durazzo furono determinanti per la rottura con la regina Giovanna I d’Angiò (inizialmente favorevole a Urbano VI, in considerazione dell’origine regnicola di Bartolomeo Prignano, ma ben presto attiva nel sostenere i cardinali di Anagni, molto probabilmente incoraggiata dal suo consigliere, Niccolò Spinelli, amico di Roberto di Ginevra, e appoggiata da Onorato Caetani). Urbano VI nella primavera del 1380 dichiarò eretica Giovanna I, la scomunicò e la sostituì con il cugino, Carlo di Durazzo, della linea ungherese degli Angiò, che nel novembre del 1380 fu eletto senatore di Roma, capitano e gonfaloniere della Chiesa, e nel 1381 incoronato.
Questo programma politico trovò il suo giusto corollario nella politica finanziaria portata avanti da Urbano VI. La sua attenzione a questo settore emerge dalle disposizioni immediatamente impartite al suo collettore di Aragona e Navarra, Bertrando di Massello, dalle quali sembra trapelare anche un tentativo di riforma (Prerovsky, 1960).
Già il 28 aprile 1378 aveva raccomandato a Massello di raccogliere le imposte dovute alla Camera apostolica e il 5 maggio (in altra lettera) aveva giustificato la riserva delle annate e la revoca della proroga nei pagamenti dei servitia communia con le gravi difficoltà economiche in cui si trovava la finanza pontificia anche in vista delle spese che avrebbe dovuto affrontare per la difesa e il recupero delle terre e dei beni della Chiesa.
Tuttavia se da una parte Urbano VI cercò di attuare una riscossione più equa delle imposte, dall’altra faceva ricorso all’arma della scomunica contro quei vescovi che non avevano provveduto per tempo a far fronte ai loro impegni finanziari.
La stretta connessione fra questi due aspetti, quello politico-militare e quello finanziario, fu evidenziata dal contemporaneo Teodorico de Nyem ed entrambi sembrano rappresentare un rilevante problema per il papa. Dalla narrazione del noto giurista, segretario di Urbano VI, si delinea un pontefice che, essendo implicato in guerre, per questo motivo e anche a seguito dei molti suoi viaggi si trovò a dover spendere grosse somme di denaro. Eppure egli non si macchiò di simonia; anzi conferiva gratuitamente tutti i benefizi dentro e fuori della Curia tenendo presente chi aveva concesso una prebenda vacante. Non diede mai il consenso a nuovi ingiustificati profitti, ma si accontentò dei vecchi, benché modesti, tesori della Camera Apostolica. Mostrò inoltre di possedere un animo così forte da affrontare ogni disagio senza lamentarsi.
Per quanto riguarda i rapporti internazionali, le mosse di Urbano VI, fin dagli inizi, furono improntate a una sostanziale ricerca di libertà e indipendenza giurisdizionale e alla coscienza della dignità suprema del pontefice. Nell’immediato, il papa romano rifiutò di trattare con Corrado di Wesel, ambasciatore dell’imperatore Carlo IV, già accreditato presso Gregorio XI, per la conferma dell’elezione del figlio Venceslao quale re dei Romani. Non riconobbe inoltre il trattato concluso fra Gregorio XI e il re d’Inghilterra, Edoardo III, dal quale esigeva, come da tutti gli altri, che fosse riconosciuta la giurisdizione universale della Chiesa. Infine, avendo dichiarato, subito dopo l’elezione al soglio pontificio, che il papa aveva il potere di deporre re e imperatori, si mosse contro Enrico II, re di Castiglia, ormai schierato a favore di Clemente VII.
Nonostante il primo infelice approccio, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo divenne il primo e anche agguerrito difensore di Urbano VI. Il figlio Venceslao il 27 febbraio 1379 aveva stretto alleanza con gli arcivescovi di Treviri, Magonza e Colonia e con Ruperto I, conte del Palatinato, a favore di Urbano VI e nel giugno dello stesso anno insieme a Ludovico d’Angiò, re di Ungheria e di Polonia, dichiarava apertamente il suo appoggio al papa romano. Altrettanto risolute e ferme furono le posizioni di Louis de Male, conte di Fiandra, e di Riccardo II, re d’Inghilterra. Alleato dell’Inghilterra, il Portogallo, dopo alcune esitazioni iniziali, finì per schierarsi dalla parte del papa romano.
Aderì invece al partito clementino il re di Francia, Carlo V. Tra la fine del 1378 e gli inizi del 1379 anche la Savoia e la Scozia, alleata della Francia, si schierarono dalla parte di Clemente VII.
Una sintesi mirabile delle ambiguità e delle divergenze sorte in seguito alla presenza di due papi è offerta dal caso dei Regni iberici, ove Pietro IV re d’Aragona, mentre da un lato si manteneva neutrale raccomandando ai suoi funzionari inviati in Italia di rimanere imparziali, dall’altro intervenne a favore di Urbano VI per la riscossione delle imposte papali nel suo Regno.
Negli anni successivi, fu tentata anche la via di fatto per imporre una delle due obbedienze. Nelle regioni d’Oltralpe vi furono i maggiori fermenti: nell’aprile del 1383 una crociata inglese si scontrò contro l’armata avignonese, venendo poi sconfitta a Ypres; altrettanto sfortunata fu la spedizione contro la Castiglia. Un’altra crociata fu promossa contro Carlo III d’Angiò che nel 1385 fece assediare il papa a Nocera, emettendo un bando con l’offerta di una ricompensa di 10.000 fiorini d’oro a chiunque avesse consegnato il papa vivo o morto.
Il 5 luglio 1385 in aiuto di Urbano VI giunsero Raimondello Orsini, conte di Nola, e dieci galee genovesi, inviate dal doge di Genova, Antonio Adorno. Il 7 luglio il papa, scortato da Orsini e portando con sé i cardinali prigionieri, si imbarcò per Genova dove il 23 settembre dello stesso anno trovò rifugio. In quella città ben cinque dei suoi cardinali scomparvero misteriosamente.
Tornato a Roma nel settembre del 1388, per riguadagnare il favore del popolo romano Urbano VI emanò la bolla Salvator noster unigenitus (8 aprile 1389) stabilendo che da quel momento il giubileo si dovesse celebrare ogni trentatré anni così che tutti potessero usufruire, almeno una volta nella loro vita, della straordinaria indulgenza.
Pur essendo trascorso il termine fissato, Urbano VI decise di proclamare l’Anno santo per il 1390 ma la morte, avvenuta il 15 ottobre 1389 (fu sepolto nella cripta di S. Pietro), gli impedì di portare a compimento tale decisione.
Sono note le conseguenze ecclesiali e culturali dello scisma, che possono essere qui solo sommariamente richiamate. L’Europa cristiana si trovò ben presto costretta a scegliere tra Urbano VI e Clemente VII, non potendo coesistere due pontefici, i quali peraltro cercavano l’appoggio di sovrani e di città, con l’invio di lettere e ambasciate onde affermare la piena validità della loro elezione. Per risolvere lo spinoso problema della legittimità furono naturalmente coinvolti i maggiori e più noti giuristi dell’epoca, tra cui Baldo degli Ubaldi, Giovanni da Spoleto, Tommaso da Acerno, Giovanni da Legnano e Bartolomeo da Saliceto, che si pronunciarono a favore della legittimità di Urbano VI; dalla parte di Clemente VII si schierarono Niccolò Spinelli e i giuristi dell’Italia meridionale. Le posizioni dei vari Paesi non furono sempre nette e decise e non di rado oscillarono fra la fazione urbanista e quella clementina a seconda degli interessi o dei convincimenti personali dei regnanti. Certamente questa situazione poteva presentare lati del tutto favorevoli per quei signori e principi in cerca di una loro affermazione e di un riconoscimento di carattere istituzionale o di benefici che aiutassero le loro finanze. Pertanto non è facile discernere le ragioni che furono alla base delle diverse posizioni o che portarono, nel corso degli anni, a mutare opinione.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia completa fino al 2000 si rimanda a I. Ait, Urbano VI, papa, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 561-569.
M. Souchon, Die Papstwahlen von Bonifaz VIII. bis Urban VI. und die Entstehung des Schismas von 1378, Braunschweig 1888; N. Valois, L’élection d’Urbain VI et les origines du Grand Schisme d’Occident, in Revue des questions historiques, XLVIII (1890), pp. 353-420; Id., La France et le Grand Schisme d’Occident, I-IV, Paris 1896-1902; M. de Boüard, Les origines des guerres d’Italie. La France et l’Italie au temps du Grand Schisme d’Occident, Paris 1936; H. Seidlmayer, Die Anfänge des grossen abendländischen Schismas, Münster 1940; P. Brezzi, Lo scisma d’Occidente come problema italiano. La funzione italiana del papato nel periodo del grande scisma, in Archivio della Società romana di storia patria, LXVII (1944), pp. 391-450; W. Ullmann, The origins of the great schism. A study in fourteenth century ecclesiastical history, London 1948; O. Prerovsky, L’elezione di Urbano VI e l’insorgere dello scisma d’Occidente, Roma 1960; P. Brezzi, Il regno di Napoli e il grande scisma d’Occidente (1378-1419), in Annali del Pontificio Istituto superiore di scienze e lettere ‘Santa Chiara’, XII (1962), pp. 9-32; Genèse et débuts du grand schisme d’Occident. Colloques internationaux, Avignon... 1978, Paris 1980 (in partic. E. Pásztor, La Curia romana all’inizio dello Scisma d’Occidente, pp. 31-43; H. Bresc, Les partis cardinalices et leurs ambitions dynastiques, pp. 45-57); G.G. Merlo, Dal papato avignonese ai grandi scismi: crisi delle istituzioni ecclesiastiche?, in Il Medioevo, a cura di N. Tranfaglia - M. Firpo, I, I quadri generali, Torino 1988, pp. 453-457; P. Ourliac, Le schisme et les conciles (1378-1449), in Histoire du christianisme des origines à nos jours, a cura di J.M. Mayeur et al., VI, Paris 1990, pp. 89-139; G. Battelli, La tradizione delle lettere di Urbano VI, in Studi medievali, LXIV (2003), pp. 1217-1229; M. Prignano, Urbano VI. Il papa che non doveva essere eletto, pref. di G.M. Vian, Milano 2010.