STEFANO V, papa
STEFANO V, papa. – Nacque a Roma dal nobile Adriano, della regione via Lata (così il Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, 1892, p. 191) non prima dell’850, dato che il padre ancora nel 915 fu tra i garanti dell’accordo con Gaeta che favorì la vittoria sui saraceni al Garigliano (Vehse, 1927, pp. 202 s.).
Dopo un’istruzione curata da un parente di rilievo, ma dalla carriera travagliata, il vescovo di Anagni Zaccaria (Dvornik, 1948; trad. it. 1953, pp. 97-125), Stefano fu chiamato al Patriarchio da Adriano II (867-872), che lo fece suddiacono, e poi ordinato presbitero del titolo dei Ss. Quattro Coronati da papa Marino I (882-884).
A Marino successe Adriano III (884-885), che Carlo III, imperatore dall’881, chiamò in Francia perché avallasse la successione del figlio illegittimo Bernardo (così gli Annales Fuldenses, a cura di F. Kurze, 1891, p. 103). Il papa lasciò Roma alle cure di Giovanni, vescovo di Pavia e messo di Carlo, ma morì vicino a Nonantola. Giovanni approvò l’elezione di Stefano e la rapida consacrazione (Liber pontificalis, cit., p. 191), compiuta il 14 settembre 885 (Benericetti, 1998, pp. 54 s.): l’imperatore, non consultato, si adirò, ma riconobbe poi la correttezza dell’elezione (Annales Fuldenses, cit., a. 885, pp. 103 s.). Tacciono del problema il Liber pontificalis, che sottolinea la presenza del messo imperiale, e la Continuatio Ratisbonensis degli stessi Annales Fuldenses (a. 886, p. 114), che invece ricorda un invito di Stefano a Carlo, che lo accolse in parte: si recò nel regno, ma a Roma inviò il suo cancelliere Liutvardo, vescovo di Vercelli, che dispose insieme al papa «di molte cose».
Ad Adriano III va assegnato un atto che la non felice sintesi in Flodoardo, Historia Remensis Ecclesiae (a cura di R. Stratmann, 1998, p. 365), della prima lettera di Folco, arcivescovo di Reims, a Stefano V, ha fatto attribuire a questi: il confronto tra il testo originale e quello di Flodoardo (Sot, 1993, p. 172) rende certi che fu il predecessore di Stefano ad adottare «in filium» Guido (II), duca di Spoleto e parente di Folco, nonché a subire le insidie «quorundam pestilentium» (v. la nota ad Adriano in un catalogo papale del primo X secolo: Liber pontificalis, cit., p. 225).
Tra la fine dell’885 e i primi dell’886 Stefano rispose a una lettera dell’imperatore bizantino Basilio I ad Adriano III, giunta dopo la sua morte.
Adriano aveva inviato la sua sinodica al patriarca Fozio, accettandone quindi la legittimità, sancita nel sinodo di Costantinopoli (879-880), approvato da Giovanni VIII (872-882), che aveva superato le condanne emesse da Nicola I (858-867) e dal concilio costantinopolitano dell’869-870 (Fozio era laico quando fu chiamato nell’858 a sostituire il deposto patriarca Ignazio). La lettera di Basilio accusava Marino, legato di Adriano II al concilio dell’869-870, di aver occupato la sede romana contro i canoni, perché già vescovo. La risposta di Stefano è nota da una raccolta greca antifoziana, aggiunta alla fine del IX secolo a un manoscritto degli atti del concilio dell’869-870 (G.D. Mansi, Sacrorum conciliorum..., 1767, coll. 419-426; e in MGH, Epistolae, VII, 1928, pp. 372-374), ma Venance Grumel (1953), ne ha scoperto ed edito il testo integrale in traduzione greca, da cui appare che la raccolta non stravolge ma abbrevia molto, a danno della ricchezza di argomentazioni e anche del tono, che era meno perentorio e più disposto a dimostrare e convincere.
L’epistola respinge le accuse, affermando che Marino non era stato vescovo prima di essere papa, perché non aveva avuto una sede né esercitato le mansioni episcopali (§§ 30-43; il suo titolo, attestato da lettere di Giovanni VIII, era forse onorifico). Stefano sostiene con forza la dottrina del primato di Pietro e la superiorità della funzione ecclesiastica rispetto a quella, pur alta, dell’imperatore (§ 4); ed è duro verso Fozio, da cui pretende umiltà; ma è anche chiaro che non vuole riaprire il caso e tornare sulle decisioni di Giovanni VIII (§ 50).
In ultimo accenna (§§ 60-62) alla situazione italiana: contro i saraceni (ormai stabili nel Lazio del sud e in Campania) chiede a Basilio di inviare delle navi per presidiare le coste, al comando di un uomo pio che non compia a sua volta razzie. E dice di aspettarsi che da Roma fuggano «come sorci» a Bisanzio dei seminatori di discordia, che prega Basilio di rinviargli o rinchiudere dove non possano far danno (§ 60). L’unanimità non era quindi perfetta ed esisteva un dissenso, forse di carattere dottrinario/politico e orientato su Fozio e l’impero (è certa la presenza di profondi contrasti in materia nella Chiesa romana del tempo).
Di un’altra questione Stefano dovette investirsi subito, sollecitato da un messo del principe di Moravia Sventopluk e dal vescovo di Nitra Viching: quella delle missioni verso gli slavi, in cui operavano, in contrasto tra loro, chierici franchi, greci e dall’866 anche inviati della Chiesa romana, che vantava su Norico, Illirico e Pannonia diritti di giurisdizione ecclesiastica nati nel quadro tardoantico.
L’ampia e mal definita area degli slavi occidentali (dall’Europa centrale alle province balcaniche dell’impero romano) era oggetto allora di una prima organizzazione sovratribale in principati, in rapporti alterni di alleanza e scontro con i vicini più potenti: l’impero bizantino a sud, l’impero carolingio a ovest. In questo quadro sia i principi sia gli imperatori ebbero interesse alla cristianizzazione degli slavi, che fu avviata dalle diocesi confinanti, ma subì gli influssi di queste politiche mutevoli, perché i principi spesso chiesero missionari prima all’una poi all’altra delle Chiese. Un carattere del tutto particolare ebbe però la missione dei fratelli Costantino-Cirillo e Metodio, inviati da Bisanzio nell’863, che vollero dare agli slavi gli strumenti per giungere alla conoscenza diretta del patrimonio cristiano, creando un alfabeto per la loro lingua (il glagolitico) e traducendo testi sacri e liturgici. A questa scelta si oppose il clero franco, contrario alla creazione di una nuova lingua sacra (solo l’ebraico, il greco e il latino lo erano) e all’influsso culturale bizantino che si esercitava in tale travaso (Tachiaos, 1989; trad. it. 2005, pp. 133-147; Marcialis, 2005, pp. 3-31). I papi, cui le parti si rivolsero a più riprese, risposero con accenti diversi, posti più sulla liceità o più sulla limitazione, ma con regole costanti: celebrazione liturgica in latino (o in greco) e uso approvato della lingua slava per illustrare il Vangelo e le Epistole, letti prima in latino, poi in slavo (Peri, 1988, 2002, pp. 974-993).
Stefano, interpellato dopo la morte di Metodio (6 aprile 885), che aveva designato a successore lo slavo Gorazd, rispose con una lettera al principe (a. 885 ex., in MGH, Epistolae, cit., pp. 354-358) e un Commonitorium ai suoi legati (frammento 33, ibid., pp. 352 s.).
Nei due testi il papa prende posizione in maniera chiara a favore di una funzione liturgica dello slavo a supporto e non al posto del latino, e soprattutto si occupa della questione del Filioque, cioè dell’affermazione che lo Spirito Santo procede dal Padre e anche dal Figlio, introdotta dai Franchi nel simbolo niceno: un’aggiunta che aveva aperto un conflitto con Bisanzio e che anche i papi, fin da Leone III (795-816), avevano condannato, non perché erronea ma perché il simbolo dei Padri era intoccabile. Stefano non entra nella questione del suo inserimento nel simbolo, però ne dimostra la correttezza dogmatica, e ai suoi legati dice di rispondere, se fosse stato loro obiettato il divieto, che la Chiesa romana è la garante suprema della dottrina per volontà di Cristo stesso, e che non toglie o aggiunge, ma chiarisce i dogmi a chi non li intende. Afferma di aver trovato Viching fedele all’insegnamento di Roma e anche al principe, e di averlo quindi posto a capo della chiesa di Moravia; e scomunica ed espelle i discepoli di Metodio che continuassero a celebrare i sacri misteri in slavo. Nel Commonitorium condanna pure la designazione del successore fatta da Metodio, prassi rifiutata ab antiquo dalla Chiesa; Gorazd è interdetto dal ministero, però con una clausola ricorrente nelle lettere di Stefano: «finché non venga di persona da noi ed esponga a viva voce la sua causa». La pronuncia di Stefano era contro il particolarismo ecclesiastico, ma si tradusse, per il clero franco, nell’attacco ai discepoli di Metodio, che furono imprigionati o fuggirono, soprattutto in Bulgaria, dove furono accolti dal khan Boris-Michele e svilupparono con il suo favore la lingua e la liturgia slave: fu così la Bulgaria il centro della Chiesa slava, che sotto Simeone (893-927), figlio di Boris, raggiunse l’autonomia sia da Roma sia da Bisanzio. D’altro canto la scelta di Stefano rafforzò il legame della Moravia – e in generale dell’area degli slavi centro-europei – con l’Occidente, tedesco ma anche romano. E conservò al latino quel carattere universale che dava alla Chiesa di Roma, dilatata ben oltre i confini dell’antico impero, un’unità di lingua e cultura che consentiva al papato di vigilare sulla dottrina e la vita delle singole chiese, ed era in sé un valore, riconosciuto dagli stessi principi che volevano esserne considerati parte.
Stefano V segnò l’inizio del suo pontificato ricercando e traslando reliquie in chiese romane, in particolare in Ss. Apostoli, da lui restaurata: un atto ricordato dal Liber pontificalis, in una parte quasi del tutto caduta (p. 196), e narrato in uno scritto agiografico, segnalato da Cesare Baronio (Annales ecclesiastici, a cura di A. Theiner, 1868, a. 886, pp. 395-397) che data al 17 gennaio 886 la traslazione dei corpi di Diodoro, Mariano e altri martiri, rinvenuti dal papa (il testo, in latino corretto, anche elegante, fu forse composto su sua richiesta).
Poco sappiamo di un’azione propriamente politica di Stefano V.
Per l’Italia centro-meridionale, dove il primo problema era la presenza saracena, Erchemperto, cassinese di Capua, cita una campagna di Guido II nell’area, fatta forse in accordo con il papa nell’886 (Historia Longobardorum..., a cura di G. Waitz, 1878, capp. 58-60), e mostra che questi poteva essere ritenuto un interlocutore in grado di pesare sugli equilibri locali (cap. 65). Più significativa è la lettera, dal tono insolitamente risoluto e concreto, che Stefano scrisse ad Atanasio II, vescovo e duca di Napoli, che usava i saraceni per affermarsi sul territorio campano, intimandogli di rompere immediatamente l’alleanza se non voleva che il papa venisse a costringerlo «tam cum spirituali gladio quam hostili populo», chiudendogli ogni via di rifornimento (frammento 7, in MGH, Epistolae, cit., a. 886, p. 337); da Erchemperto si direbbe che la minaccia indusse Atanasio a servirsi di contingenti greci piuttosto che saraceni.
Più rilevante fu l’azione di Stefano verso il regno d’Italia e l’impero.
Deposto Carlo III (novembre 887), l’impero parve disintegrarsi in tante parti, ognuna con un proprio re (Berengario per l’Italia): una dissoluzione che la Continuatio Ratisbonensis (a. 888, pp. 116 s.), vede contrastata da Arnolfo di Carinzia, re carolingio di Germania, che rimise insieme i pezzi, pur nella forma di una subordinazione feudale. Anche Berengario divenne suo vassallo, dopo aver combattuto contro Guido «tyranno» (tornato in Italia dopo aver fallito l’elezione a re in Francia). Ai primi dell’889 però, in un’altra dura battaglia, di cui la Continuatio Ratisbonensis non parla, Guido vinse e fu eletto re (di Carpegna Falconieri, 2003, p. 358); ma Berengario non fu deposto né rinunciò, anzi mantenne il controllo dell’Italia nord-orientale (Arnaldi, 1967, pp. 11-14): la situazione del regno restava dunque non risolta né semplificata.
Fu allora che Stefano – se la Continuatio Ratisbonensis, unica fonte a parlarne, è attendibile – interpellò Sventopluk perché chiedesse ad Arnolfo, che doveva incontrare in Pannonia nella Quaresima dell’890, «ut urbe Roma domum sancti Petri visitaret et Italicum regnum a malis christianis et inminentibus paganis ereptum ad suum opus restringendo dignaretur tenere»: un invito che Arnolfo, preso da altri problemi, declinò (a. 890, pp. 118 s.).
Questo appello, comunque rivolto in modo informale, poteva rispondere al timore che un Guido imperatore (nella tradizione carolingia, cui Guido esplicitamente si rifà nei suoi documenti, il titolo di re d’Italia era legato a quello imperiale) spostasse troppo gli equilibri politici (di Carpegna Falconieri, 2003), ma – data la difficoltà di cogliere logiche strettamente politiche in Stefano – forse voleva solo sondare l’effettivo interesse dell’erede carolingio ad assumersi l’onere di esercitare il suo legittimo potere sul regno, diviso all’interno e attaccato all’esterno (cose entrambe vere). Il disimpegno di Arnolfo lasciava aperto il campo a ipotesi diverse: una separazione netta del regno d’Italia, e quindi di Roma, dall’impero, o una ripresa dell’impero carolingio – come Guido voleva – ma con un baricentro nuovo, in Italia, e non in Francia come era stato con Carlo Magno, o in Germania come sarebbe stato con Arnolfo.
Di fatto, l’incoronazione imperiale di Guido, compiuta da Stefano il 21 febbraio dell’891 (data certa: Guido emanò quattro diplomi in Roma il giorno dell’incoronazione), lo poneva al di sopra di ogni suo avversario in Italia, permettendo di sperare risolta la crisi del regno, e insieme gli apriva una prospettiva molto più ampia, su una cristianità occidentale condivisa con la Chiesa romana, con la quale il Papato avrebbe così conservato gli stretti e continui rapporti che aveva costruito anche grazie all’esistenza dell’impero.
È infatti la cura per la Chiesa l’interesse di Stefano più certo, pur se va rilevato che la nostra conoscenza delle sue idee è condizionata dall’apprezzamento che egli trovò al tempo di Gregorio VII.
Il suo registro fu infatti tra quelli papali da cui furono raccolte affermazioni utili alle tesi della Riforma. Di queste compilazioni ‘intermedie’ è conservata solo la Collectio Britannica (unico manoscritto a Londra, British Library; Ewald, 1880), che contiene 33 frammenti di lettere di Stefano V (aa. 885-888), altrimenti ignote. L’interesse dell’ambiente gregoriano per Stefano è significativo, però ha comportato selezioni non valutabili tra le sue lettere, e forti tagli, che possono averne modificato almeno in parte il senso originario.
La vigilanza attiva sulla Chiesa è comunque costante in tutta la documentazione di Stefano: frammenti, poche lettere giunte integre, e privilegi (questi in PL, CXXIX). Il papa risponde alle richieste di aiuto che gli rivolgono monasteri oppressi da potenti vicini dando loro difesa, a volte realmente efficace (v. Erchemperti Historia Longobardorum Beneventanorum, cit., cap. 69, per i cassinesi rifugiati a Capua dopo la distruzione dell’abbazia nell’883); verifica il funzionamento regolare delle chiese, agisce contro gli abusi e gli attentati ai diritti altrui, che possono essere quelli di Roma (è il caso del patrizio bizantino Giorgio, frammento 18, in MGH, Epistolae, cit., aa. 887-888, pp. 343 s., che cerca di sottoporre il vescovo di Taranto a Bisanzio: ma il patriarca, consapevole del diritto della Chiesa romana, e certo in buoni rapporti con essa, non lo consacra), ma anche quelli di altri vescovi, che il papa rispetta, pur avendo l’autorità di scavalcarli (frammento 24, aa. 887-888, p. 346, a Walperto di Aquileia). Sono questi i temi più frequenti nelle lettere del papa, per il quale il «regularis ordo» che deve vigere nella Chiesa (frammento 8, a. 886, p. 337) ha un chiaro significato morale (la verifica della condotta dei monaci è condizione esplicita per il mantenimento dei privilegi: v. il documento per Fulda, a. 891, in PL, CXXIX, coll. 813 s.), ma ha anche un valore giuridico, perché la giustizia, esercitata alla ricerca del vero, inclinata alla misericordia e sempre consapevole di dover lasciare a Dio quello che l’uomo non può giudicare perché non può accertare (così il frammento 25, aa. 887-888, pp. 346-348, a Liutberto di Magonza, sulle ordalie), è per il papa principio essenziale nel sistema cristiano. Istruire i fedeli e in particolare i prelati in questa concezione e nella prassi razionale che deve realizzarla sembra sia il compito che Stefano sente come il suo principale: in questo si mostra in piena continuità con i papi precedenti, pur con un accento personale, molto diretto, a volte ironico e perfino brusco, che può essere segnale di qualcosa di nuovo che comunque stava maturando in una cultura romana per il resto solidamente tradizionale e certo di alto livello.
Resta insondabile il quadro interno di Roma e il peso in esso dell’azione di Stefano V, nonostante il Liber pontificalis dia sul tema indicazioni importanti, che suggeriscono che il testo sia stato ripreso dopo quindici anni di silenzio proprio per sostenere una lettura nuova del rapporto tra il papa e la città, che poteva avviarsi con Stefano. Nella presentazione del Liber pontificalis il papa è eletto per la sua personale santità e per il suo ottimo padre, nella cui casa il popolo dopo l’elezione lo trova (un unicum: la norma è trovare l’eletto in preghiera in una chiesa), entrambi occupati in santa meditazione, e da cui lo strappa per portarlo in Laterano, mentre entrambi si schermiscono dichiarandosi indegni (al plurale) di tanto onore (Liber pontificalis, cit., p. 191). Dopo la consacrazione il papa percorre il palazzo con autorevoli testimoni, perché vedano lo stato pietoso in cui lo ha trovato (prima attestazione per Roma di un saccheggio in sede vacante); e nell’impossibilità di fare le consuete elemosine, si rivolge al padre, che gli offre le ricchezze «che i suoi illustri parenti avevano posseduto» (p. 192), ponendosi così non in concorrenza ma a sostegno del ruolo del papa, che resta colui che cura e distribuisce la carità. Il Liber pontificalis sembra dunque voler proporre una collaborazione tra il papato – in affanno per la mancanza di sostegni efficaci all’esterno così come per il venir meno del consenso interno – e un’aristocrazia romana, che è chiaramente diversa, ricca di suo e priva di uffici al palazzo, rispetto a quella che aveva creato tanti problemi a Giovanni VIII e ad Adriano III. Non a caso Stefano si circonda subito, «cercando di qua e di là», di ministri e familiari lodevoli per vita, fede e dottrina, e trasforma i pranzi a cui invita i nobili in banchetti spirituali (p. 192). Da parte sua il papa ci mette appunto la santità, provata da un miracolo (p. 196) e da una cura per il bene del suo popolo, che è la sola ragione per cui interrompa le preghiere (p. 192) e che lo spinge ad agire per le chiese – soprattutto donando libri – a cercare reliquie, e a predicare, cosa che il Liber pontificalis sottolinea inserendo (pure questo un unicum) il testo di un suo sermone sul senso e l’impegno della preghiera (pp. 192 s.).
Queste indicazioni date dalla Vita, che attestano una ripresa di fiducia nelle possibilità della Chiesa e di Roma all’interno dell’ambiente di produzione del Liber pontificalis, non hanno sviluppo. Il Liber pontificalis giunto a noi si chiude su notizie ancora del primo anno di Stefano, ma certo non era lì il punto finale (il testo, copiato da un antigrafo in pessime condizioni, si ferma a metà di una frase): solo un’ipotesi è che la scrittura si sia arrestata – per disillusione o per tutt’altre ragioni – nell’aprile dell’890, tempo cui porta l’anomala indicazione di 4 anni, 7 mesi e 14 giorni data all’inizio per la durata del pontificato, contro i sei anni dei cataloghi e del pur insignificante epitaffio del papa (sulle ragioni della cessazione della scrittura del Liber pontificalis, si veda l’articolata riflessione di Barone, 2014, pp. 218-222).
Niente sappiamo sulle cause della morte di Stefano V, nel settembre dell’891.
Fonti e Bibl.: Si indicano solo i testi citati, rinviando per il resto a I. Bonaccorsi, Stefano V, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 38-41. De Inventione sanctorum Diodori, Mariani et aliorum [...] historia, a cura di L. Surius, in De probatis Sanctorum historiis, a cura di L. Surius, I, Coloniae Agrippinae 1576, pp. 424-427; G.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, XVI, Venetiis 1767, coll. 419-438; Stephani V papae Epistolae, diplomata et privilegia, in PL, CXXIX, Parisiis 1853, coll. 785-822; C. Baronio, Annales ecclesiastici, aa. 885-880, a cura di A. Theiner, Barri-Ducis 1868, pp. 395-397; Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878, pp. 258-261; Annales Fuldenses; Continuatio Ratisbonensis, a cura di F. Kurze, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, VII, Hannoverae 1891, pp. 103 s., 114, 116-119; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892; I diplomi di Guido e Lamberto, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1906, pp. 9-18; Stephani V papae Fragmenta registri, Epistolae passim collectae, Epistolae ad res orientales spectantes, a cura di E. Caspar - G. Laehr, in MGH, Epistolae, VII, Berolini 1928, pp. 334-353, 354-365, 372-381; Flodoardus Remensis, Historia Remensis Ecclesiae, a cura di M. Stratmann, in MGH, Scriptores, XXXVI, Hannoverae 1998, pp. 365-370.
P. Ewald, Die Papstbriefe der Brittischen Sammlung, in Neues Archiv, V (1880), pp. 275-414; O. Vehse, Das Bündnis gegen die Sarazenen vom Jahre 915, in Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, XIX (1927), pp. 202 s.; F. Dvornik, The Photian schism. History and legend, Cambridge 1948 (trad. it. Roma 1953); V. Grumel, La lettre du pape Etienne V à l’empereur Basile Ier, in Revue des études byzantines, XI (1953), pp. 129-155; G. Arnaldi, Berengario I, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 1-26; V. Peri, Il mandato missionario e canonico di Metodio e l’ingresso della lingua slava nella liturgia (1988), in Id., Da Oriente e da Occidente. Le chiese cristiane dall’impero romano all’Europa moderna, a cura di M. Ferrari, II, Roma-Padova 2002, pp. 905-993; A.-E.N. Tachiaos, Cyril and Methodius of Thessalonica. The acculturation of the Slavs, Thessaloniki 1989 (trad. it. Cirillo e Metodio. Le radici cristiane della cultura slava, Milano 2005); M. Sot, Un historien et son église au Xe siècle: Flodoard de Reims, s.l. 1993; R. Benericetti, La cronologia dei papi del secolo IX e le carte di Ravenna, in Archivum Historiae Pontificiae, 1998, vol. 36, pp. 49-58; T. di Carpegna Falconieri, Guido, in Dizionario biografico degli Italiani, LXI, Roma 2003, pp. 354-361; N. Marcialis, Introduzione alla lingua paleoslava, Firenze 2005, pp. 3-31; G. Barone, La chiesa di Roma: tradizioni, realtà, orizzonti (secoli VIII-XI), in Chiese locali e chiese regionali nell’alto medioevo, I, Spoleto 2014, pp. 189-225.