SERGIO II, papa
SERGIO II, papa. – Nato a Roma nel 785 o nel 795, apparteneva a una nobile famiglia romana, la stessa dei pontefici Stefano IV e Adriano II.
Rimasto orfano all’età di dodici anni fu accolto da Leone III nella schola cantorum del Laterano dove ricevette la sua istruzione; dallo stesso pontefice fu promosso accolito, di seguito Stefano IV lo fece suddiacono e Pasquale I lo nominò presbitero del titolo di S. Silvestro, chiesa situata nella regio via Lata, dalla quale anche Sergio proveniva. Con Gregorio IV fu fatto arcipresbitero, raggiungendo così i vertici della gerarchia ecclesiastica romana.
Nel gennaio dell’844, dopo sedici anni di pontificato, Gregorio IV morì; il biografo del Liber pontificalis narra che l’aristocrazia laica e il clero si riunirono e si accordarono sul nome di Sergio, arcipresbitero di età avanzata e di nobili natali. Giacché clero e laicato non avevano proceduto immediatamente alla proclamazione formale dell’eletto e all’insediamento di rito nel Palazzo Lateranense, accadde che una fazione di popolo, guidata dal diacono Giovanni, tentò di opporsi all’elezione di Sergio, introducendosi nel patriarchio e acclamando pontefice il diacono romano. Il 25 gennaio, di fronte a questo evento, l’aristocrazia romana compatta si riunì nella basilica di S. Martino ed elesse Sergio pontefice. Fu consacrato poco dopo in S. Pietro alla presenza di tutti i presbiteri, dei grandi dell’aristocrazia laica e del popolo romano. Dunque elezione svolta in grande fretta e ignorando le norme stabilite nella Constitutio romana di Lotario.
Probabilmente ciò avvenne senza una specifica volontà dei proceres laici ed ecclesiastici di contravvenire alla Constitutio, anche se Ottorino Bertolini (Osservazioni sulla “Constitutio Romana” e sul “Sacramentum cleri et populi Romani” dell’824, 1968) sostiene in maniera decisa che l’elezione di Sergio è una riprova del fatto che i romani mal sopportavano la prassi lotariana.
Nel procedere alla sua consacrazione, senza attendere la presenza di un messo imperiale, clero e laicato avevano dimostrato, secondo Bertolini, di non tenere in alcun conto il precedente dell’827 (consacrazione di Gregorio IV), e di non giudicare necessario attendere una examinatio preliminare alla electio da parte del legato imperiale. È probabile che oltre a ciò avesse pesato il tentativo armato del diacono Giovanni e dunque l’urgenza di risolvere una situazione di instabilità e confusione.
Sergio decise, nonostante le pressioni di alcuni esponenti della nobiltà romana, di risparmiare la vita di Giovanni (il biografo del Liber pontificalis attribuisce ciò alla grande magnanimità del nuovo pontefice).
Ma le reazioni di Lotario I (840-855) di fronte alle inosservanze della iussio imperiale, relative non solo alla consacrazione del pontefice avvenuta in assenza di un legato imperiale, ma anche al comportamento della stessa aristocrazia laica che, proponendo sanzioni contro il diacono, si era attribuita facoltà proprie unicamente dei rappresentanti dell’Impero (come sancito nel capitolo 3 della Constitutio romana), non tardarono a farsi sentire. Negli Annales Bertiniani (a cura di G. Waitz, 1883, ad annum 844) si narra che l’imperatore franco inviò prontamente in Italia suo figlio Ludovico e lo zio Drogone, vescovo di Metz (801-855) e arcicappellano dell’Impero, con l’ordine di provvedere che in avvenire, defunto un papa, non si procedesse a consacrare il suo successore indipendentemente dalla iussio imperiale e dalla presenza sul posto di messi dell’imperatore.
Ludovico giunse in Italia scortato da un vero e proprio esercito, che nell’attraversare i possedimenti della Chiesa perpetrò saccheggi e devastazioni.
Arrivati a Pavia, Ludovico e Drogone convocarono a Roma i vescovi delle principali città della penisola: risultarono presenti gli arcivescovi di Ravenna, di Milano e altri venti vescovi fra cui quelli di Bergamo, Como, Ivrea, Vercelli e Reggio. Essi furono accolti con il cerimoniale di rito: a nove miglia trovarono ad attenderli gli officiali del Palazzo Lateranense, a un miglio le scuole militari e infine tutti in corteo si avviarono alla basilica vaticana dove Sergio li attendeva al sommo della scala. Ma le porte argentee della chiesa, contrariamente a quanto doveva essere, vennero fatte chiudere dal pontefice, che, come narra il Liber pontificalis, preoccupato dalle razzie condotte dalla spedizione imperiale, volle interrogare i sopravvenuti circa le loro intenzioni. Solamente dopo che Ludovico e Drogone ebbero dichiarato di essere venuti «pura mente ac sincera voluntate» e per il bene di Roma e della Chiesa furono fatti entrare, tra gli osanna generali. Drogone insistette comunque per una revisione sinodale degli avvenimenti che avevano portato Sergio al soglio pontificio, consacrazione, come si è già detto, avvenuta senza la iussio imperiale e in assenza dei missi dell’imperatore.
Come narrano il suo biografo e lo Pseudo Liutprando non fu facile per il neopontefice giustificare gli avvenimenti che portarono alla sua elezione e dimostrare la propria fedeltà e quella dei romani all’imperatore e alla Constitutio lotariana. Egli infatti dovette provare la legittimità della propria elezione e della seguente consacrazione di fronte a ventidue vescovi; dopo lunghe discussioni, durate circa un anno, finalmente la sua nomina ricevette la ratifica imperiale, non prima però che egli stesso e il popolo romano avessero nuovamente giurato fedeltà all’imperatore e alla Constitutio romana.
Sergio, che in questa circostanza si dimostrò molto abile, rinnovò il giuramento di fedeltà a Lotario e non a Ludovico, lì presente ma non ancora imperatore, e il 15 giugno seguente unse quest’ultimo re dei Longobardi.
Le fonti che ci narrano gli avvenimenti del giugno 844 li presentano in un ordine diverso, infatti il biografo del Liber pontificalis racconta dell’arrivo di Ludovico a Roma, del breve discorso rivolto a questi da Sergio, del rito dell’unzione di Ludovico a re dei Longobardi, e solo dopo del sinodo riunitosi per giudicare la legittimità della nomina di Sergio II. Per ultimo narra del rinnovato giuramento di fedeltà del pontefice e del popolo romano a Lotario. Gli Annales Bertiniani (cit., ad annum 844) narrano, invece, in ordine: dell’arrivo a Roma di Ludovico e Drogone, del sinodo organizzato per giudicare il pontefice e, solo dopo la fine di questo, dell’unzione di Ludovico a re dei Longobardi. Così riferisce anche lo Pseudo Liutprando (De vitis pontificum romanorum, in PL, CXXIX, col. 1244) che narra dell’arrivo a Roma di Ludovico e Drogone, del sinodo, della ratifica della nomina di Sergio avvenuta solo «post multas contentiones» e, infine, del rinnovato giuramento di fedeltà di Sergio e del popolo romano all’imperatore Lotario. Solo a questo punto, per lo Pseudo Liutprando, Sergio avrebbe unto Ludovico re dei Longobardi. Inoltre, assecondando il volere di Lotario, Sergio conferì a Drogone il vicariato apostolico per l’intero Regno franco, ruolo che prima di lui avevano svolto solo s. Bonifacio e s. Crodegango, vescovo di Metz. Drogone da quel momento aveva subordinati a sé i vescovi di tutte le provincie ecclesiastiche transalpine, poteva indire concili e presiederli nonché ricevere appelli (Annales Bertiniani, cit., ad annum 844 e Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé et al., I, 1885, n. 2586). È noto che in seguito Leone IV (negli anni 849-850) invece rifiutò a Incmaro, arcivescovo di Reims, il titolo di vicario apostolico (Regesta Pontificum Romanorum, cit., n. 2607).
Altra questione che vide coinvolto Sergio fu quella relativa a Bartolomeo, vescovo di Narbona, e Ebbone, vescovo di Reims, deposti nel febbraio dell’835 per esser stati ritenuti responsabili della tragica deposizione di Ludovico il Pio a Saint-Médard (833). I due vescovi giunsero a Roma nell’844 per chiedere al pontefice di essere riabilitati nelle loro funzioni. Ludovico stesso durante il soggiorno a Roma intercedette per loro presso Sergio II. Ebbone, in particolare, aveva ripreso possesso della sua sede nel dicembre dell’840 grazie a Lotario e così Bartolomeo. Ma già nell’841, vista l’opposizione di Carlo, entrambi avevano dovuto di nuovo abbandonare Reims e Narbona. Nonostante le pressioni di Lotario e di Drogone Sergio, sia per la riassunzione anticanonica sia per l’evidente opposizione di Carlo, preferì che i due vescovi rimanessero nella sola comunione laica fino a quando la loro posizione non fosse stata esaminata da un concilio (Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, 1892, p. 90). Poco più tardi venne eletto arcivescovo di Reims un presbitero di nobile estrazione di circa quarant’anni, Incmaro, cresciuto nel monastero di Saint-Denis durante l’abbaziato di Ilduino, gradito questa volta a Carlo. Ebbone nel frattempo, dopo essersi rifiutato di andare a Costantinopoli in missione diplomatica, si era alienato anche i favori di Lotario e si era rifugiato in Germania, a Hildesheim. Qui gli venne assegnata la sede episcopale, vacante per la morte del precedente vescovo, Remberto. In quella circostanza Ebbone mostrò una lettera di Gregorio IV nella quale il pontefice dichiarava di averlo riabilitato (perché allora Sergio si era rifiutato se già Gregorio IV precedentemente lo aveva fatto?), ma non rinunciò a protestare contro la nomina di Incmaro ad arcivescovo di Reims (3 maggio 845) e a rivendicare per sé quella sede. Sergio decise di riunire un sinodo a Treviri (Regesta Pontificum Romanorum, cit., nn. 2589, 2590), ma neanche questa volta la controversia fu sciolta definitivamente ed Ebbone morì il 20 marzo dell’anno 851 senza aver riavuto ciò per cui aveva lottato così strenuamente.
Nel Liber pontificalis Sergio viene descritto malato e debole di carattere, debolezza mostrata soprattutto nei confronti del fratello Benedetto, già vescovo di Albano e missus pontificio, al quale egli affidò il governo di Roma. Le fonti definiscono Benedetto uomo senza scrupoli, simoniaco e avido; egli era riuscito a conquistarsi persino il favore di Lotario e si era fatto nominare missus imperiale. Anche il biografo del Liber pontificalis non esita a definirlo «brutus et stolidus valde, qui propter imbecillitatem illius pontificis curam ecclesiasticam et publicam immerito usurpaverat. Cum vero esset insulsus...» e poi ladro, libidinoso e violento. Si sofferma a lungo sul suo malgoverno (origine delle maggiori critiche al pontificato di Sergio); e racconta che Benedetto depredò Roma e la Chiesa dei loro beni, a vantaggio dei suoi protetti e delle imprese da lui promosse.
Le fonti ritengono proprio tale amministrazione dispotica e simoniaca la causa principale dell’invasione saracena di Roma, che si verificò il 23 agosto dell’anno 846, quando una flotta saracena di settantatré navi approdò alle foci del Tevere. Nonostante Adalberto, marchese di Toscana e addetto alla vigilanza della Corsica, avesse scritto una lettera il 10 agosto precedente avvisando del probabile pericolo che incombeva sulla città, Sergio e Benedetto inspiegabilmente non diedero peso alle parole di questo. Ostia e Porto furono abbandonate senza resistenza e così la campagna fu saccheggiata. Gregoriopolis fu disertata dagli abitanti e il 27 agosto i Saraceni, vinta la resistenza a Ponte Galeria, giunsero alle porte di Roma. Le milizie cittadine difesero i rioni della città posti sulla riva sinistra del Tevere, protetti dalle mura aureliane, ma la parte destra della città rimase completamente indifesa. Le basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, secondo il Liber pontificalis, furono allora depredate di ogni loro bene. Secondo quanto si narra negli Annales Bertiniani i Saraceni avrebbero portato via dalla confessione di S. Pietro l’altare d’oro, strappato alle porte le lamine d’argento lavorato e infine dato alle fiamme entrambe le basiliche. Di seguito questi si diressero verso Fondi e si stabilirono a Gaeta. Nel frattempo Ludovico II e alcuni contingenti di truppe franche erano giunti nei pressi di Roma, ma il 10 novembre subirono una dura sconfitta vicino Gaeta. Fortunatamente intervennero le flotte mandate da Amalfi e Napoli, comandate da Cesario, figlio del duca di Napoli Sergio, che non solo coprirono la ritirata dei Franchi, ma costrinsero i Saraceni a reimbarcarsi (novembre 846).
Sergio morì il 27 gennaio 847, quando ancora i Saraceni erano alle porte di Gaeta e mentre tentava di porre fine a una contesa tra il patriarca di Grado, Venetius, e quello di Aquileia, Andrea. Venne sepolto nella cappella dei Ss. Sisto e Fabiano (nella basilica vaticana) come si rammenta anche nella sua epigrafe metrica: «nectitur ecce piis Fabiano et corpore Xisto / praesulibus [...]» (Inscriptiones christianae urbis Romae, 1857-1888, II, 1888, n. 75, p. 213, vv. 13-14). Qui si esalta il pontefice «plebis amator [v. 1] qui bene pavit oves [v. 2]», il cui impegno costante e attivo (vv. 5-6 «[...] non tantum famine verbi / rebus et humanis [...]») fu quello di sostenere la parte dell’aristocrazia romana che lo aveva condotto al soglio pontificio («[...] romanos proceres [...] / [...] nocte dieque favens») e di ammaestrare la comunità dei fedeli (v. 8 «[...] instituit [...] gregem) come soltanto i suoi più illustri predecessori avevano saputo fare (v. 7 «utque Leo sanctus, Damasus quoque papa benignus»). Egli non mancò – si dice inoltre – di sovvenire ai bisogni materiali dei più indigenti (v. 9 «egentum semper studuit recreare catervam») e per questo ottenne la ricompensa celeste (v. 10 «[...] ut caperet celica regna»).
Durante gli anni del suo pontificato Sergio e suo fratello Benedetto (Le Liber pontificalis, cit., p. 97) si occuparono anche del restauro e della ristrutturazione di molti edifici sacri romani, che il biografo non manca di elencare. A S. Giovanni in Laterano il pontefice ampliò e risistemò il presbiterio, installando una confessio sotto l’altare; inoltre trasformò il nartece chiuso in un portico a colonne decorato con «variis picturis». Restaurò la schola cantorum, che fu probabilmente istituita o riorganizzata da Gregorio Magno, da localizzare all’inizio dell’odierna via Merulana (pp. 91 s.). Ricostruì inoltre dalle fondamenta la chiesa di S. Martino ai Monti, forse da identificare con quella precedentemente restaurata da Adriano I corrispondente alla chiesa attuale. Il papa fornì le tre grandi finestre dell’abside di vetri colorati e decorò le transenne con rilievi marmorei (secondo il Liber pontificalis si trattava delle teste di Cristo e dei ss. Silvestro e Martino); inoltre donò un ciborio d’argento sostenuto da quattro colonne di porfido. Un’iscrizione musiva, oggi perduta, si sviluppava nel catino absidale della basilica (Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, 1857-1888, II, 1888, p. 437). Su un ambone Pompeo Ugonio lesse l’iscrizione, oggi perduta, in cui si ricordava il «beatissimo Sergio papa iuniore»; un’altra iscrizione, anch’essa perduta e proveniente sempre dalla basilica di S. Martino ai Monti, ricordava il pontefice e forse riportava il monogramma di «Bened[ictus]», fratello di Sergio e vescovo di Albano (p. 437, n. 122). Tra le numerose altre donazioni di suppellettile liturgica, offerte dal pontefice, è da segnalare quella comprendente due serie di ventiquattro cortine, una per ogni intercolunnio. Sergio inoltre traslò nella basilica le reliquie di numerosi martiri provenienti da diversi cimiteri suburbani di cui viene riportato l’elenco nel Liber pontificalis; esse vennero probabilmente collocate in una confessio sotto l’altare provvista di fenestella e a cui si accedeva attraverso una cripta anulare (Le Liber pontificalis, cit., pp. 93-96). Presso la chiesa fondò un monastero dedicato ai ss. Pietro, Paolo, Sergio, Bacco, Silvestro e Martino, preposto alla cura dell’adiacente basilica. Il papa restaurò inoltre la «forma Iovia», diramazione dell’Acqua Marcia, che scorreva fino alla diaconia di S. Maria in Cosmedin. In ambito suburbano ricostruì «a fundamentis in signino opere» la basilica «Beati Romani martiris», fuori Porta Salaria (ibid., p. 92, n. 20); s. Romano era uno dei compagni di martirio di Lorenzo, deposto insieme a quest’ultimo sulla via Tiburtina, ma ucciso fuori Porta Salaria forse proprio dove sorse questa chiesa mai ritrovata. Il Liber pontificalis aggiunge inoltre che Sergio fece di questo edificio di culto, di cui non si ha nessun’altra menzione, una parrochia connessa al titolo dei Ss. Martino e Silvestro (S. Martino ai Monti); Louis Duchesne ipotizza che si trattasse di un edificio con funzioni parrocchiali a servizio di un quartiere abitativo posto fuori Porta Salaria. Nel territorio dell’antica Cora edificò una basilica dedicata a s. Teodoro; anche di questo edificio non si hanno altre notizie (ibid., p. 93).
Fonti e Bibl.: Chronica Sancti Benedicti, in MGH, Scriptores, III, a cura di G.H. Pertz, Hannoverae 1839, p. 199; Annales Bertiniani, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, V, a cura di G. Waitz, Hannoverae 1883, pp. 30-35; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé et al., I, Lipsiae 1885, nn. 2586, 2607; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 86-105; Pseudo Liutprando, De vitis pontificum romanorum, in PL, CXXIX, coll. 1244 ss.; Chronicon Benedictus S. Andreae monachus, ibid., CXXXIX, coll. 10-55.
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